domenica 20 dicembre 2020

O tutti o nessuno

A seguito della chiusura della grotta del buco a Tor bella monaca, propagandata dalla sindaca Virginia Raggi che si è recata personalmente nel quartiere, è nato un appello delle associazioni territoriali e organizzazioni sindacali del quartiere per chiedere un «tavolo permanente sul disagio sociale e contro l'abbandono». L'appello è stato recepito dalla politica capitolina. In breve tempo, grazie ai consiglieri capitolini Zannola (PD), Pelonzi (PD), Tempesta (PD), Fassina (SxR), Celli (Giachetti sindaco), Figliomeni (Fd'I) e De Priamo (Fd'I) è stata richiesta una «commissione congiunta di carattere sociale e culturale relative al quartiere Tor bella monaca e possibili modalità d'intervento condiviso». Il documento è datato 9 dicembre 2020 ed è stato protocollato il giorno successivo, indirizzato alla Presidente della commissione politiche sociali (Catini) e alla presidente della commissione cultura (Guadagno). Qui il testo del documento. 

Tor bella monaca rappresenta da decenni l'archetipo del quartiere oppresso dalla criminalità e simbolo dell'esclusione sociale, del disagio e della sofferenza in un immaginario collettivo che non è più solamente quello della Capitale ma di tutto il Paese. Grazie anche a rappresentazioni cinematografiche che hanno acceso luci e riflettori a riguardo come la pellicola «Lo chiamavano Jeeg Robot». Disagio, esclusione e abbandono non risiedono solo a Via dell'archeologia o Via del fuoco sacro. Corcolle, Torre Maura, Torre Angela, Ponte di Nona, Villaggio Breda (e la lista potrebbe continuare) sono quartieri e zone del VI Municipio in cui la sofferenza e l'abbandono di ogni speranza - soprattutto da parte delle giovani generazioni - è all'ordine del giorno. 

Anche in quei quartieri cosche e comprotamenti criminali la fanno da padrone o hanno iniziato ad essere presenti in modo strutturato. L'iniziativa solerte dei consiglieri comunali sopra citati è lodevole ma vorremmo far presente ai lettori di questo nostro giornale digitale che o ci salviamo tutti, o la periferia sprofonderà tutta insieme. Il VI Municipio è la rappresentazione vivente della sofferenza urbana della Capitale di un Paese che troppo poco spesso si ricorda di esserlo. 

La zona urbana che comunemente viene denominata "Torre Angela" e che comprende diverse zone oltre i confini del quartiere, nella seconda ondata del Covid 19, ha detenuto per settimane il maggior numero di contagiati, che il quotidiano «Il Messaggero» non ha esitato a classificare come «record» in quanto «lì, l’incidenza del virus è costantemente aumentata per via di un tasso che tiene conto della popolazione residente». Papa Francesco, nell'enciclica «Fratelli Tutti» che ha scosso il Paese e il Mondo intero lo ha definito chiaramente:
«Nel mondo attuale i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi. Vediamo come domina un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata, figlia di una profonda disillusione che si cela dietro l’inganno di una illusione: credere che possiamo essere onnipotenti e dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca».
O tutti, o nessuno. Sarebbe stato un segnale forte per la periferia far sì che venisse istituito (o anche solo proposto) un tavolo permanente che rappresentasse tutti i quartieri dello sterminato sesto municipio di Roma. L'estremismo localista e particolarista ha prevalso sul generale e l'universale. Come se Tor bella monaca appartenesse ad un territorio-nel-territorio, il sedicesimo municipio di Roma. Dimenticare che abitiamo tutti nella VI circoscrizione (come si diceva un tempo) non rende un buon servigio ai presentatori dell'appello.

mercoledì 2 dicembre 2020

Caprino Veronese

Sì però pure sta cosa del socialismo, anche basta. Lo sai che se vai tipo a Cuba, no, ecco tipo là vai al supermercato e c'è un tipo di formaggio soltanto. 

Vabbè e quindi?

E quindi che? Dai è una cosa da barbari, uno sta a sgobbà tutto il giorno, se butta in metro e poi come minimo je piace d'andà a vedè qualcosa da magnà de diverso.

Al centro commerciale, immagino.

Eh, sì, quello c'è.

Tralascio analisi sociologiche e economico-social-politiche che me farebbero scrive polpettoni assurdi. Però ecco, fa ride che tu dica che in un sistema.assurdo come questo si possa scegliere qualcosa.

Io invece scelgo. L'altro giorno ho cambiato la macchina per cui avevo acceso il finanziamento, m'avevano detto "vuole cambiarla con quest'altra" e io l'ho fatto.

Altro finanziamento.

Beh chiaro.

Quindi in definitiva, puoi scegliere, certo. Puoi scegliere se consumare una polenta (ad esempio) di un tipo prodotta a Verona, e un'altra polenta di un altro tipo ("in questa ci abbiamo messo i mitici funghi porcini") prodotta a Caprino Veronese. A te la scelta. Guai a dire "ma a me sembra la stessa cosa"
Puro bolscevismo. Il capitalismo è tipo una roba del genere. Caprino Veronese.
Scegli la modalità con cui chi ha più soldi possa farne ancora più soldi e tu spenderli. 
Schiavi sorridenti.

giovedì 19 novembre 2020

È il 1985 [o forse no].

La foto è dell'ex collega
Silvio Galeano fonte: Facebook

È il 1985. 20 dicembre. Democrazia Proletaria ha sette deputati eletti ma neanche nel giro di dieci anni perderà pezzi: da una parte nasceranno i "Verdi Arcobaleno", dall'altra il movimento per la Rifondazione Comunista.
Se avessi votato, avrei dato il voto a Dp, senza neanche pensarci troppo. La  Democrazia cristiana perde pezzi ma è ancora al primo posto dei partiti più votati; Enrico Berlinguer porta il Pci nell'alveo del teorizzato eurocomunismo. Che poi non è altro che una mano di tinta socialdemocratica. Ma tant'è. Gli anni '90 sono ancora distanti dalla periferia romana, c'è ancora gente che ascolta cazoni orrende come disse Max Collini in Palazzo Masdoni: "le mode in periferia arrivano dopo".
 
Vado a scuola a Centocelle, che già sembra il centro dell'universo, è da poco uscito Amore Tossico ma non ha ancora il successo che avrà poi anni dopo. Ma io questo non posso saperlo. So solo che alla fermata "Balzani" sono saliti due bucatini sul trenino che mi lascia a via dei colombi. Hanno l'affanno per la corsa che hanno dovuto compiere: uno ha il doppio taglio, dietro rasato e sopra i capelli pieni di gel raccolti in una piccola cipolla. O forse nun se lavano, come ha mormorato una tizia seduta in un posto quasi di fronte al palo per reggersi che sto occupando con la mia schiena. Ai miei piedi ho un Invicta ultimo grido, una delle poche cose che mi fa essere all'estremo passo coi tempi. A scuola, addirittura, c'è chi si porta il lettore di cassette: sai che figata potersi sentire i Kiss o i Metallica in quella specie di mangianastri portatile? C'è gente che ci mette dentro i Pet shop boys o i Modern Talking. A me sanguinano le orecchie solo a sentirli nominare. Da un annetto circola voce che c'è un gruppo di mezzi compagni che ha formato un gruppo musicale: non è che si capisca bene cosa vogliano e al contempo cosa desiderino trasmettere ma il nome tanto mi basta: pare si chiamino "CCCP - Fedeli alla linea", sarebbe fico poter sentire qualcosa, anche se non vado d'accordo col punk.
I due bucatini discutono ad alta voce - come se non ci fosse nessuno in quel piccolo vagone - su quello che devono fare dopo e su chi devono incontrare. Evidentemente stanno chiamando in causa il pusher della roba: lo chiamano D'Artagnan, forse perché necessitano anche delle "spade", cioè le siringhe.
Il riferimento non è tanto letterario quanto utilitaristico.
Continuano ad ansimare, a un certo punto uno alza la voce in direzione di chi si è fermato e ha abbassato il giornale per poterli guardare, fissandoli nei loro movimenti: «Ao, ma nun l'avete mai visti du tossici che stanno a corto co 'r meta? Fateve 'n po' li cazzi vostra». E tutti tornano a fare quello che facevano prima. Una signora sbuffa e fa sbattere la lingua sul palato, emettendo quel suono che viene interpretato, dalla Groenlandia al Lesotho, come contrarietà a qualcosa che sta avvenendo.

Oggi però non vado a casa: da qualche tempo a questa parte mi vedo con una tipa (lei sì, decisamente punk) che abita da poco a Tor bella monaca, da circa due anni. Spesso ci appoggiamo di fronte al finestra della sua stanza e fumiamo di nascosto le Camel blu della nonna che non dovrebbe fumare, dunque le nasconde sotto ad un vaso rovesciato che ha in casa. La fortuna è che non si ricorda mai quante sigarette ha fumato nei giorni precedenti e così nessuno sospetta mai di noi. Appoggiamo i gomiti sull'infisso rosso incastrato nel cemento e guardiamo l'orizzonte ascoltando un po' di musica, parliamo di un sacco di cose anche se spesso ce ne stiamo in silenzio a fissare il panorama e i palazzoni.
Ci cattura l'attenzione e lo sguardo monitorare tutte le luci che si accendono una dopo l'altra man mano che la luce del giorno se ne va, poi il cielo diventa rosso e infine tutto buio e allora i rettangoli delle finestre dei palazzoni nuovi grigio-cemento si accendono una dopo l'altra.
Verso le 5 del pomeriggio sembra già fossero le 10 di sera e, in quella fase, ci fumiamo un'altra sigaretta. Mentre fumiamo la seconda sigaretta si gira verso di me e mi fa, con il gomito destro appoggiato sul bordo dell'infisso incassato nel cemento e quello sinistro appoggiato sul fianco mentre lascia cadere la mano verso la gamba: «Oh, senti qua: mi hanno passato questa cassetta di un gruppo russo. Non capisco un'acca di quello che dicono, ma senti che roba». Inserisce la cassetta nel lettore, parte una batteria artificiale, una di quelle drum machine e poi chitarra e basso super effettati. Mentre la canzone inizia, lei inizia a muoversi istintivamente al ritmo della batteria: ogni colpo di rullante è un movimento delle spalle, ora verso destra, ora verso snistra, mentre col corpo asseconda il fluire del tronco superiore. Si mette addirittura il cappuccio della felpa degli Iron Maiden e comincia a dirmi di ballare con lei.
Ma io non so ballare...

Я не умею танцевать
Я не умею танцевать
Я не умею танцевать

Mi limito a imitarla. La canzone finisce in pochi minuti, niente a che vedere coi Metallica o coi Maiden, mi fa: «Pare si chiami "post punk" 'sta roba, che te ne pare?», io resto basito: «Sembra una di quelle canzoni da paninaro!», dico sorridendo. Lei coglie il riferimento e sorride: «Ma no, è un genere che scimmiottaquello dei paninari ma non ha niente a che vedere con quello, non hai sentito la chitarra e il basso che vibrazioni che avevano?».
È l'unica cosa che mi aveva colpito: quella chitarra così piena d'effetti e dal suono tremolante mi stava facendo pensare ai nostri pomeriggi impiegati a guardare l'imbrunire su Tor Bella Monaca e a fumare le Camel di sua nonna. I palazzi della Minsk popolare e della Bielorussia (solo dopo scoprii che il gruppo era bielorusso) non erano poi così distanti. L'Istituto autonomo case popolari sembrava aver edificato un quartiere fra la Bielorussia socialista e la Tor Bella Monaca appena nata di una Roma in disordinata, confusa e sempre più diseguale espansione.

Due giorni dopo ci siamo rivisti e abbiamo ascoltato la cassetta dei Molchat Doma per tutto il pomeriggio: Na dne era la prima canzone della cassetta. Ci piaceva così tanto che solo qualche giorno più tardi saremmo andati da un compagno della sezione del Pci di Torre Angela che aveva seguito un piccolo corso di lettura e traduzione di base dal russo. Ci aveva tradotto il ritornello, se così si poteva chiamare:

I binari del tram fanno rumore
Rimane in fondo alla mia bottiglia
Finisco tutto e vengo da te

Ci aveva detto che non era proprio questa la traduzione esatta ma, arrangiata, maccheronica, era pressapoco quella che ci aveva detto.
Le nostre frequentazioni si erano fatte sempre più intense: ascoltavamo sempre più musica e parlavamo molto di più delle prime volte in cui una mattina tornando da scuola mi aveva detto: «Perché non vieni da me? Ti va di fumare insieme?», roba che non sapevo neanche come si accendesse una sigaretta.
Iniziavamo ad aspettarci fuori da scuola per tornare insieme a casa sua. Mentre salivamo sul trenino non esistevano tossici o altro, c'erano solo le canzoni dei Molchat Doma nelle nostre teste. Ci buttavamo con la schiena sulle porte del vagone e provavamo a canticchiarle a bassa voce:

iaiumieiutansevàt
iaiumieiutansevàt


Poi arrivavamo a casa e mettevamo subito la cassetta nel mangianastri del padre.

Ma io non so ballare. Eppure ballavo lo stesso.


Ma questa storia non esiste: il gruppo si chiama Molchat Doma e con il 1985 non c'entra niente. Tancevat è del 2018 ed è inserita nell'album chiamato Etazhi. Una scoperta folgorante.

E, davvero, io non so ballare.
Я не умею танцевать.


mercoledì 4 novembre 2020

Granulosità

Ci sono parole che assomigliano tanto a dei fiumi carsici. Vengono sotterrate dalla nostra memoria e riemergono tutto ad un tratto, senza che noi ce ne possiamo accorgere.
Quando le ascolti per la prima volta le nostre orecchie fanno addirittura fatica ad abituarcisi, come se stessero ascoltando una lingua diversa. 

Ed è paradossale: strana o inusuale, aulica o bassa, si sta pur sempre parlando di una parola della tua lingua madre. A me è capitato con la parola granulo, o meglio, al plurale i granuli.
La ascoltavo sempre quando mia madre mi portava dalla pediatra e mi somministrava alcuni rimedi omeopatici: «Di questa gliene faccia prendere quattro granuli, di quest'altra otto granuli, di questa tutto il tubetto che è composto da granuli piccolissimi: vanno sciolti tutti sotto la lingua senza masticarli». La tentazione di masticare i minuscoli granuli di Oscillococcinum come fossero caramelle, tuttavia, era irrefrenabile.
E anche adesso, c'è da dire, non resisto e devo per forza masticarne qualcuno e sentire lo scricchiolìo sotto i denti di quei microscopici confettini tondi.
La prima cosa che chiesi a mia madre era che cosa fossero i granuli. Non mi ricordo la risposta, ma ricordo di averglielo chiesto. 

Andai a seppellire la parola granulo/i nel Campo Santo delle parole inusuali: l'immensa distesa verde della nostra mente che è piena di addetti che scavano tombe ai lemmi che decidiamo di non utilizzare più, per vari e disparati motivi, tra cui l'evidente impoverimento del nostro linguaggio a causa dell'ipertecnologicità che ha assorbito le nostre vite, l'infinita varietà della nostra lingua e ha fagocitato il tempo per la lettura sostituendolo con comici, funamboli, saltimbanchi o figure non meglio identificate che blaterano davanti a una telecamera che chiamiamo youtuber.
I becchini delle parole inusuali, o che scegliamo arbitrariamente esse siano tali (e questi tizi stanno nel cervello di ognuno di noi) hanno compiuto un lavoro sopraffino con granulo/i. Non ebbi più un contatto con quella parola fino alle medie, quando la professoressa di arte e tecnica ci chiese un giorno di portare un blocco di fogli a grana grossa. Ma non era la stessa cosa. Non c'era quel diminutivo così inusuale.  E in effetti, anche a seguito di quella circostanza, la parola risultò morta e sepolta nel giro di 24 ore.
Il contatto successivo ce l'ho avuto svariato tempo dopo, durante un corso di formazione presso una cooperativa di archivisti e bibliotecari con cui ho lavorato per qualche mese. La docente stava parlando di riorganizzazione sistematica di un archivio che presentava elevata granularità, per indicare una frammentazione, una disomogeneità e una disorganizzazione nell'archivio in oggetto talmente elevata da far sembrare il tutto come i minuscoli granuli dell'Oscillococcinum. O meglio, io ho pensato a quello, le altre persone lì presenti avranno certamente pensato ad altro.

Il verbo granulare, inteso in quel contesto, è stato utilizzato molte volte in quel corso di formazione e, dunque, ho finito per associare il termine granulosità ad una sorta di estrema balcanizzazione di un determinato contesto, sia esso lavorativo, psicologico, pratico, morale e via dicendo.
Ho riascoltato il termine granulosità questa sera, 4 novembre 2020, mentre usciva dalla bocca del Presidente del Consiglio dei Ministri, nell'ambito della conferenza stampa d'illustrazione del nuovo Dpcm che imponeva la didattica a distanza nelle scuole secondarie di secondo grado. Alla domanda del giornalista di RaiNews, il quale chiedeva se fosse previsto uno scenario in cui all'interno di una zona "gialla" potesse esserci una provincia "rossa", nell'ambito del contagio da Covid-19, Conte ha risposto come stessero valutando anche questa possibilità dato che, in effetti, il Dpcm lo prevede ma è «chiaro che più si scende dal punto di vista della granulosità, più bisogna stare attenti». Cioè a dire: più si particolarizza la questione di regione in regione, più si determinano i casi andando a discernerne ogni aspetto collegato territorialmente e localmente, aumenterebbe, potenzialmente, la granulosità della dispersione del lavoro, delle norme, della casistica. 

È strano come certi termini o certi verbi stiano lì sepolti e poi tornino a galla nel momento più inaspettato come quello che stiamo vivendo ininterrottamente da quasi un anno.
È strano come agisce la nostra mente, quando ho sentito Conte parlare di granulosità, ho pensato prima alla professoressa Guercio e subito dopo alla domanda posta a mia madre all'uscita dalla pediatra. 

I granuli non vanno masticati: vanno sciolti sotto la lingua.

martedì 27 ottobre 2020

L’unico vaccino è l’anticapitalismo *

Preservare la salute e l’economia, tenendo insieme le due questioni, così ha dichiarato il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte nel corso della conferenza stampa di ieri 25/10/2020. «Gli ultimi dati epidemiologici che abbiamo analizzato non ci possono lasciare indifferenti. L’analisi segnala una rapida crescita con la conseguenza che lo stress sul sistema sanitario nazionale ha raggiunto livelli preoccupanti […] Dobbiamo fare il possibile per proteggere salute ed economia». 

C’è chi accusa i comunisti di avere parole d’ordine antiche, vecchie, che non entusiasmano più nessuno o, ancora meglio, di possedere idee talmente irrealizzabili da essere utopiche. Così almeno è quel che dichiarano i detrattori siano essi socialdemocratici, riformisti o ancor peggio liberali o radicali.
Quel che ha dichiarato il Presidente Conte, nella conferenza stampa in cui ha presentato l’ultimo Dpcm, è infinitamente più utopico delle idee bollate come “antiche e irrealizzabili” che vengono attribuite, spesso ben condite da luoghi comuni e pregiudizi, ai comunisti.
Nella fase attuale, nel concreto della situazione, entrando nella carne viva della pandemia in atto nel nostro paese e nel mondo, affermare di voler tenere insieme la salute delle persone, delle lavoratrici e dei lavoratori, con l’economia, è enormemente più fantascientifico di chi bolla i comunisti come “superati dalla storia”. Il primo lockdown ci ha insegnato come i settori più colpiti fossero quelli su cui la scure del capitale si è abbattuta più duramente nel corso degli ultimi 30 anni.
Non staremo qui a ripetere quanto il coronavirus abbia portato in superficie ogni contraddizione del sistema capitalistico, già ampiamente trattato dal nostro partito con articolo, analisi, volantini e iniziative a riguardo. 

Già il 5 aprile di quest’anno [2020], tuttavia, denunciavamo come si stesse aprendo una profonda contraddizione tra la «pressione confindustriale a ripartire subito e a qualunque costo e la richiesta di continuità del confinamento per un tempo non breve da parte delle autorità sanitarie». Il governo, posto nella proverbiale condizione infelice tra “il martello e l’incudine”, tentennò un po’ salvo poi riaprire nel giro di breve tempo. Riaperture, in quella fase, in cui continuavano a mancare «su tutto il territorio nazionale, strumenti di protezione elementare per la popolazione, per gli operatori sanitari, per i lavoratori e le lavoratrici». Una condizione evidentemente esplosiva che ha portato con sé in dote l’aumento esponenziale di nuovi contagi. Ma il mantra era «l’economia non può permetterselo» al punto che anche settori popolari hanno iniziato ad introiettare questo ritornello. Stando sempre alle parole di Conte di ieri, pare sia è «velleitario» arrivare alla somma zeri di contagi, positivi e guariti.
Il punto è che non c’è niente di velleitario nel rivendicare condizioni igienico-sanitarie di vita quotidiana per il lavoro e la vita privata delle persone.
Velleitarie sono le posizioni di Confindustria Quel che si sta andando a delineare nel prossimo mese è un lockdown non dichiarato per cui le persone sono semplici unità di produzione che possono recarsi presso il proprio posto di lavoro, tornare a casa, fare la spesa. Produci, consuma, crepa. Il mantra è sempre lo stesso. L’emergenza per i padroni è un conto, l’emergenza per i lavoratori è ben altra cosa, lo dimostrano i dati dell’incremento esponenziale delle ricchezze dei multimiliardari che gestiscono celeberrime aziende transnazionali. 

La guerra – come giornalisti e professori universitari l’hanno chiamata nel corso dei primi mesi della pandemia – contro il coronavirus è una certezza, così come lo è quella contro il capitalismo, solo che quest’ultimo rappresenta una patologia infinitamente più grave: è lo stesso sistema sociale che ha demolito ovunque i servizi sanitari per favorire il sostentamento alle banche e ai capitalisti e riverserà nuovamente la propria crisi sulla maggioranza della società a partire dal lavoro. Anche per questo la guerra contro il coronavirus è inseparabile da quella contro il capitalismo: o la Borsa o la vita.
Anche perché, davvero, non abbiamo nulla da perdere all’infuori delle nostre catene: abbiamo un mondo da conquistare. 

Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori: https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6753

venerdì 2 ottobre 2020

Vuoto pneumatico spinto (al quadrato)

Analizzare, accapigliarsi, dibattere, scrivere e versare fiumi d'inchiostro come sta facendo la carta stampata italiana riguardo le presidenziali americane denota una serie di cose. È piuttosto evidente la questione - scevra da qualsiasi posizione ideologica e aprioristica - dell'evidente sudditanza della politica nostrana nei confronti di quella statunitense: nel corso dei decenni gli affari politici statunitensi sono diventati sempre più predominanti negli spazi dei quotidiani nazionali italiani e italianofoni. Ci si accapiglia su quel che ha detto lo sfidante democratico, su quel che avrebbe dovuto dire la minoranza interna del Partito democratico a stelle e strisce; sui vestiti di Melania Trump, su quanto trucco si picchietta in viso ogni santo giorno il Presidente Donald. Trump. Non Duck. Unfortunately. 

Un dibattito essenzialmente inutile che serve solo ad addetti ai lavori piuttosto annoiati del lavoro che fanno e che riversano le loro energie su vicende oltreoceaniche così da non dare troppo peso a quel che accade nei confini nazionali. Il Corriere della sera di ieri [1/10/2020], ad esempio, sotto al titolone «I conti segreti del Vaticano» riportava un fermo immagine del dibattito televisivo fra Donald Trump e Joe Biden: «Il peggiore faccia a faccia». E, ovviamente, commenti non richiesti, tra gli altri, di Walter Veltroni. «Una lotta senza esclusione di colpi.
Ma anche di idee», commentano laconicamente Gaggi e Grasso nelle pagine interne del quotidiano milanese. 

I giornalisti italiani sono stati molto attenti ad individuare le espressioni di Biden, i giochi delle occhiate che si scambiavano i due, le parole grosse volate, così come la mancanza di contenuto di entrambi. Un vuoto pneumatico spinto al quadrato che pure fa riempire pagine su pagine dei quotidiani.
Questo è il grande tema delle presidenziali americane: i candidati, così come per il precedente confronto Clinton-Trump, sono esattamente equipollenti. Identici nell'affrontare questioni internazionali, sovrapponibili per quel che riguarda la politica economica e potrei andare avanti per ogni ambito della vita pubblica statunitense. Un'analisi interessante a riguardo, come spesso accade, è stata sviluppata da Al Jazeera. Scrive Alan Schroeder: «Un dibattito è, in fondo, un colloquio di lavoro, con gli elettori come capo. In questa intervista per la presidenza, Biden ha ricordato di sottolineare i bisogni dei padroni, mentre Trump ha sottolineato i suoi». 

Entrambi, in sostanza, hanno fatto in modo di risultare attrattivi per i propri elettori: i padroni. Il vero nodo di fondo è tutto in quest'affermazione: due facce di una stessa medaglia che prescinde dalla casacca indossata, sia essa del Partito democratico o del Partito repubblicano. L'importante è far continuare ad andare la locomotiva del capitalismo e della speculazione. E poco importa che nel maggio di quest'anno le società Harris Poll e Just Capital, quest'ultima fondata dall'investitore miliardario Paul Tudor Jones (dunque tutt'altro che la Pravda), abbiano intervistato 1.000 persone per sapere cosa ne pensassero dell'attuale sistema economico nel mezzo della pandemia: il risultato ha riportato come solo il 25% di loro ritenesse il capitalismo come positivo per la società. Delle persone poco importa ad entrambi i candidati. 

Parlare di presidenziali americane in questi termini, stanti così le cose, equivale a dibatterere dell'ultima giornata del campionato di calcio delle Isole Samoa. O del calcio polinesiano in genere.

domenica 13 settembre 2020

Il referendum e l’eclissi della sinistra *

Nella giornata del 13 settembre si è tenuta la manifestazione del “Così No!” per il no al referendum del 20 e 21 settembre. Potremmo semplicemente dire questo a riguardo: sinistra assente e tanta liberaldemocrazia di stampo radicale (nel senso di Partito Radicale). L’implosione, ed esplosione, dei rapporti umani e politici fra l’area pannelliana e boniniana continua a farsi sentire anche (e forse soprattutto) a seguito della dipartita di Marco Pannella: in piazza erano presenti +Europa (dunque anche Radicali Italiani), Emma Bonino e una delegazione parlamentare di +Europa (distaccata dalle bandiere bianche sotto al palco) e il PRNTT (Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito). Oltre a loro, una delegazione del PSI e una nutrita rappresentanza di Volt, il partito paneuropeo di ispirazione liberaldemocratica europeista. Il comitato giovanile NOstra era visibile con uno striscione e rappresentato dall’intervento di Jacopo Ricci dal palco, che vorrebbe rappresentare la coscienza critica e inquieta dei settori del PD schierati a favore del no (in realtà foglia di fico dietro la quale il PD tenta di salvare almeno in parte le apparenze). Intervento di apertura affidato ad Aldo Tortorella, unica presenza riconducibile all’area di ciò che si colloca alla sinistra del PD. Sinistra Italiana del tutto assente. In ordine sparso, poi, sono apparsi e scomparsi rappresentanti regionali dei Verdi/Europa Verde, Matteo Orfini (PD), Roberto Giachetti (Italia Viva), Bobo Craxi. Dal lato dell’associazionismo, da rilevare la presenza dell’ANPI, rafforzata dal presidente provinciale romano Fabrizio De Sanctis, e dell’ARCI, quest’ultima in piazza con uno striscione piuttosto visibile. La già minuta Piazza Santi Apostoli era popolata da circa 200 persone e piena per un quarto, meno di quel che gli organizzatori stessi, facile immaginarlo, avrebbero potuto prevedere. Sardine non pervenute.

LA SINISTRA RIFORMISTA ARRETRA
Se da una parte vi è la definitiva emersione e affermazione di una mai sopita corrente politica d’ispirazione radicale, a vocazione elitario-borghese, supportata dall’aver eletto parlamentari e senatori grazie all’alleanza con il Partito Democratico (Riccardo Magi, Emma Bonino, Alessandro Fusacchia), dall’altra vi è la totale inadeguatezza della sinistra riformista e socialdemocratica, di fronte ad una fase che la vede coinvolta in azioni di governo, di organizzarsi su una piattaforma comune e scevra dalle piccole patrie nate nel corso di questi anni. L’esecutivo è retto, lo ricordiamo, dalla maggioranza tripartita PD-M5S-LeU (Liberi e Uguali, nome comprendente la galassia che orbita attorno a MDP-Articolo 1, Patria e Costituzione, Sinistra Italiana). L’insufficienza e la volatilità della proposta politica della sinistra socialdemocratica, che rappresenta una sorta di fotocopia mal riuscita nei confronti del PD e delle destre, è confermata dal fatto che l’alternativa proposta è quella di un sistema economico che possa essere governato con più diritti civili e individuali senza toccare il capitalismo alla radice. Se ai comunisti viene detto di essere utopici perché utilizzano ancora il termine socialismo, la riforma del sistema capitalistico per far sì che esso abbia un volto umano rappresenta, oltre che un’utopia ancor più grande, una ben più grande furfanteria raccontata ai danni delle lavoratrici e dei lavoratori, così come del corpo elettorale più in generale. Una sinistra che non pone un’alternativa di sistema semplicemente non è da chiamarsi sinistra, in quanto non propone – molto banalmente – nulla di diverso da quanto mettono sul piatto le varie forze liberal-radicali e liberaldemocratiche, che si chiamino PD, +Europa, Radicali Italiani, Volt o Verdi. Che senso ha, per l’elettore, votare una fotocopia mal riuscita della destra quando c’è una vasta pletora di organizzazioni liberali pronte ad accogliere il voto del pensiero riformista-borghese orfano di qualsivoglia orientamento? Se lo scontro è stato – ed è tuttora – quello dell’immaginario di una sinistra rinnovata che si scrolli di dosso la parola “socialismo” e l’idea dell’alternativa al capitalismo, la differenza che intercorre fra Sinistra Italiana e +Europa è davvero nei proverbiali fili dei capelli.

I NUOVI MOSTRI

Lo scontro alle regionali pugliesi dimostra quel che stiamo dicendo. Due giorni fa Carlo Calenda, in sostegno della candidatura di Ivan Scalfarotto (ex PD ora Italia Viva, supportata proprio dal partito di Renzi, +Europa, Azione e da una lista in comune fra Volt, Partito Liberale Italiano e ALI-Alleanza Liberale Italiana) ha dichiarato quanto segue dal palco: «Il PD ci dice “perché fate perdere la sinistra e non votate Emiliano?” Noi rispondiamo: “perché fate scomparire la sinistra e non votate Scalfarotto?”». Il capitale, questo è ben noto, oltre al consenso crea anche il dissenso, qualora la coscienza generale sia in perpetua arretratezza da decenni, così da plasmare una propria idea di sinistra che non è proprio quella che si intende comunemente. La “nuova sinistra” in realtà non è altro che un frullato di principi capitalisti, economia di mercato ed europeismo che poco hanno a che fare con la tradizione lavorista, mettiamola così, dell’immaginario che dovrebbe evocare il termine in oggetto. Tanto più che, proprio nello scontro riguardo al quale si è presa la frase di Calenda come esempio, la sinistra riformista è in alleanza con il Partito Democratico in un cartello comune chiamato “Puglia solidale e verde” che comprende PSI, Europa Verde, Sinistra Italiana e la lista “La forza della Puglia”.

IL “SÌ” DI STEFANO FASSINA
Non potevamo ignorare, a tal proposito, il “sì” di Stefano Fassina al referendum: il rappresentante alla Camera di Patria e Costituzione, all’interno di Liberi e Uguali, nonché consigliere comunale di Roma Capitale, ha solennemente affermato di voler votare “sì” al referendum. Continua ad inserirsi nel migliore (si fa per dire) solco dell’opportunismo della sinistra riformista, che tenta di volersi mostrare alternativa nei giorni dispari e accondiscendente al Partito Democratico nei giorni pari. Il nostro, in effetti, già nell’ambito delle elezioni suppletive nel collegio Roma 1 alla Camera, dichiarò di voler votare l’esponente del Partito Democratico e viceministro dell’economia Gualtieri, sebbene dichiarò di «voler bene» alla candidata di Potere al Popolo Elisabetta Canitano. Il cordone ombelicale che pareva esser stato reciso a seguito della fuoriuscita dal PD sembra ricostituirsi giorno dopo giorno, passo dopo passo, nell’assumere prese di posizione del tutto fallaci a cui si tenta di dare una spiegazione “di sinistra”.

IL NOSTRO “NO” Che senso ha per il Partito comunista dei lavoratori (Pcl) dire no? La nostra contrarietà, per cui diamo indicazione di voto, si basa sulla netta opposizione a una operazione truffaldina, al governo che la sostiene, al più ampio fronte dei partiti borghesi, liberali e reazionari, che in questi decenni hanno gestito a turno le politiche di austerità contro i lavoratori e le lavoratrici, attaccando lavoro, pensioni, sanità, istruzione, nell’interesse esclusivo dei capitalisti, e che ora vogliono nascondere ancora una volta le proprie responsabilità grazie al ricorso dell’inganno populista. Ed è una contrarietà anche al trasformismo di quella sinistra che si è accodata ai partiti borghesi per ottenere uno scranno ministeriale. Ma il nostro no, chiaro e netto, ai partiti borghesi e alle loro truffe, è un no che parte dagli interessi dei lavoratori, e non prevede alcuna subordinazione e alcuna accettazione delle istituzioni di questo Stato. Nessuna accettazione del parlamentarismo borghese, bersaglio fin troppo facile, da un versante reazionario, per i colpi a salve della propaganda anti-casta, concimata da oltre un decennio dalla stessa borghesia e dai suoi organi di stampa. Nessuna accettazione della Costituzione borghese del 1948, figlia della svendita da parte del PCI di Togliatti di una Resistenza antifascista proletaria i cui interessi risiedevano ben oltre quelli del costituzionalismo democratico-liberale. Ci battiamo non per rafforzare questo potere, ma per il potere – alternativo e di segno opposto – dei lavoratori, delle lavoratrici, della maggioranza della società, contro l’attuale dittatura dei capitalisti, che resta tale anche sotto la democrazia borghese.
Ci battiamo per una democrazia dei consigli dei lavoratori, cioè per una democrazia diretta espressione dei loro bisogni e delle loro necessità.
Una democrazia per cui la cancellazione di ogni privilegio politico dei rappresentanti è un riflesso delle ragioni sociali di partenza, e non uno specchietto per le allodole delle ideologie reazionarie di un capitalismo in decomposizione avanzata.

Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6698

martedì 4 agosto 2020

Il Corriere della Sera e gli insulti alla periferia

L’editoriale del 28 luglio di Ernesto Galli della Loggia, è bene entrare subito “a gamba tesa” nella questione, è un insulto a milioni di persone che vivono nelle periferie delle grandi città. Uno schiaffo a mano aperta di coloro che vivono del proprio lavoro (ovvero i “proletari”) e sono costretti a turni massacranti per poter sopravvivere e pagare – ben che gli vada – un mutuo che porta via metà dello stipendio. Tralasciando fenomeni di affitto in nero, sub-affitto e altre meschinità che oggi sono considerate “normalità” del “mors tua vita mea” quotidiano. Chi scrive, abita in uno di questi «sperduti quartieri dormitorio» di cui parla il "prestigioso" editorialista del Corriere. Ma quel che ha scritto non ha destato indignazione: la maggior parte del panorama intellettuale, politico e sociale del Paese la pensa esattamente così. 

Per contestualizzare è bene citare un passaggio dall’articolo di Galli della Loggia: «[…] Ma con ancora maggiore urgenza la pandemia ripropone il tema delle periferie. Infatti, da dove pensiamo mai che provengano in larga maggioranza le turbe di giovani che dappertutto stanno agitando le notti italiane di questa estate? Da dove, se non dalle invivibili periferie, dagli sperduti quartieri dormitori, dalle strade male illuminate che finiscono nel nulla? Ormai è diventato un rito. Al calar d’ogni sera, specie nel fine settimana, quei giovani si rovesciano nelle piazze, nei centri storici delle città, e sembrano farlo come posseduti da un desiderio di rivalsa che oggi si manifesta nella volontà d’infrangere tutti gli obblighi e le precauzioni sanitarie, di farsi beffa in tal modo di ogni regola di civile convivenza. Li muove, si direbbe, quasi il torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società «per bene» insieme ai posti che essa abita. Di distruggere quanto non possono avere»

Il Covid lo portano in dote quei giovani che escono la sera per andare in centro: mossi da un odio sociale così forte verso chi abita nei lussuosi e bei palazzi dei quartieri storici romani (Parione, Regola etc), costoro si fanno beffe del distanziamento sociale e della crisi sanitaria per poter distruggere «quanto non possono avere». Quello che pensa Galli della Loggia è, purtroppo, ben chiaro. Chi vive in periferia è un untore: corrompe il centro e le sue bellezze, distrugge la società per bene; costoro sono creature demoniache che vogliono seminare il contagio facendolo addentrare per bene tra le maglie della classe agiata che hanno la sensazione di «essere abbandonati, di essere esclusi dal circuito della cittadinanza ad opera di un potere estraneo ed ostile […] contro il quale, dunque, non resta che l’arma della rivolta, del voto dato in odio alla casta, ai migranti, ai rom, a tutti, ovvero l’arma della rappresaglia, quella delle spedizioni punitive notturne senza mascherine e sputando sui citofoni dei fortunati che abitano in centro». 

Di tutto questo vaniloquio ostile nei confronti di chi abita in periferia è bene registrare un fattore indubbio: non siamo sulla “stessa barca”. Non lo siamo mai stati. Esiste un “noi” e un “loro”, un fossato piuttosto evidente e demarcato. 
C’era chi poteva permettersi un tampone in tempi rapidissimi, come hanno fatto Guido Bertolaso e Nicola Zingaretti; c’era chi poteva permettersi di violare il blocco e la chiusura totale delle attività dall’alto della sua magione come Andrea Bocelli. 
C’era anche chi moriva di Covid perché i tagli apportati alla sanità pubblica hanno prodotto un solco enorme tra chi può permettersi cure di qualità pagando profumatamente cliniche private e chi deve “accontentarsi” del policlinico sovraffollato della zona in cui abita. Se ne è ancora rimasto uno. 
I tagli apportati alla sanità pubblica negli ultimi vent’anni hanno mostrato quanto sia inefficiente il sistema sanitario italiano, “sforbiciate” che i giornali italiani hanno fatto passare come “ottimizzazioni” e “razionalizzazioni” della spesa ma che, in realtà, hanno preso la direzione dei finanziamenti alla sanità privata. Il tutto per un totale di 37 miliardi, sottratti al Servizio sanitario nazionale.

La periferia è luogo ignoto per antonomasia, per costoro che scrivono sui giornali della borghesia italiana, da frequentare quando scoppiano questioni legate all’immigrazione (vedi Torre Maura nell’aprile 2019) quasi fossero degli scopritori antropologi che, di fronte ad una realtà opposta a quella che vivono, anziché denunciarne lo stato di abbandono, salgono sullo scranno di turno per giudicare. La stampa borghese non è nuova a queste “uscite” poco felici. 
Quando accaddero i fatti di Torre Maura, Lucia Annunziata, direttrice dell’«HuffPost» si precipitò nel quartiere scoprendo con orrore che le strade non portavano ad altro luogo che in quel quartiere: scollegato da tutto e dal resto del mondo ma che veniva da lei percepito come pulito e ordinato, con file di palazzi «dignitosamente ordinari». Così come pure Gianni Cuperlo nel 2018 fece una super passerella a Tor Bella monaca per un articolo su «L’Espresso» al fine di toccare con mano quel che la “sinistra ha smesso di guardare” facendo leva sul “bello” che può esserci in periferia. Come se ad amministrare il municipio VI non ci fosse stato anche e soprattutto il Partito Democratico che insieme al governo della città (Rutelli e Veltroni, così come anche Alemanno) ha svenduto ettari di territorio romano ai costruttori per poter edificare altri e ancor più lontani quartieri scollegati e “dormitorio” (Ponte di Nona, Colle degli Abeti) che Della Loggia guarda con ribrezzo. 
Come se Cuperlo, poi, fosse dirigente di un partito di sinistra. Ma questa è un’altra storia. 

Le letture sommarie delle periferie rappresentano concretamente due facce della stessa medaglia: da una parte si tende a criminalizzare quel mondo di disagio e povertà con lo sdegno fumettistico di chi sviene portando alla fronte il dorso della mano, socchiudendo gli occhi e cadendo all’indietro; dall’altra la visione del “fin qui tutto bene”, nonostante non si comprendano neanche alla lontana la mancanza di lavoro, l’alcolismo, la ludopatia, la dispersione scolastica, le violenze, il coacervo di disperazione e promesse mancate che hanno fatto in modo da far diventare intere porzioni del territorio romano delle polveriere sociali in cui la criminalità organizzata la fa da padrona. 
Ma queste ed altre questioni affini, gli editorialisti, i direttori e i politici rampanti, le ignorano del tutto. Tutte queste letture da bar della periferia non sono altro che la rappresentazione macchiettistica di coloro che producono e portano avanti la città: se la periferia romana smettesse di lavorare, Della Loggia, la Annunziata e Cuperlo, semplicemente, non saprebbero dove andare a spendere i loro soldi per lo spritz delle 18:00. Probabilmente il cameriere che li ha sempre serviti abita a Tor Pignattara o a Castelverde.

domenica 2 agosto 2020

Tra le maglie (strettissime) del particolarismo e del "greenwashing". Appunti simpsoniani

Da oggi comincio una nuova rubrica chiamata "Appunti simpsoniani" e che prende le mosse dall'interesse smodato che ho per i Simpson, unito ad un citazionismo compulsivo delle puntate che vanno dalla prima stagione alla ventiduesima e ai ragionamenti politico-sociali e storico-filosofici a riguardo. Chi conosce il sottoscritto conosce, purtroppo, le forche caudine uditive a cui gli interlocutori si sottopongono: ogni situazione è buona per una citazione simpsoniana. 
La prima puntata da prendere in esame è la numero 21 della stagione 8: Il vecchio e Lisa

Giusto un accenno di trama
Il signor Burns scopre di avere più debiti che introiti: si è circondati di uomini interamente assertivi che non facevano altro che assecondare ogni sua richiesta strampalata. Tutto il suo patrimonio è, in un attimo, perduto come un mucchio di cenere al vento dopo un'ampia soffiata. È il capitalismo, bellezza. Lisa Simpson è l'unica che ha osato contraddire Burns nell'ambito di un'incontro alla scuola elementare e, dunque, il vecchio crede che il carattere della piccola Lisa possa aiutarlo a rimettersi in affari. Burns, ovviamente, ci riuscirà ma a discapito di una serie di cose, questioni, persone, affetti e - non da ultimo - principi morali. 
Anche se non vi foste mai imbattuti nella puntata in oggetto, avrete sicuramente immaginato una trama piuttosto complessa, nonostante l'apparenza, che si presta a varie letture, analisi e riflessioni della peculiare realtà tratteggiata dai Simpson

Riciclo: "politene e poliuretano"
La puntata si apre con Lisa già sveglia di buon mattino intenta a separare i rifiuti di casa per aiutare il progetto scolastico del riciclo, supportata dall'iniziativa del Preside Skinner di riciclare per poi vendere i rifiuti e ottenere il denaro necessario per una gita scolastica. Anche se la gita non avrà mai luogo. Lisa separa vetro, carta, plastiche (più d'una) e via dicendo. Marge incoraggia la figlia e cerca di rendersi utile buttando un rifiuto plastico in uno di quel che sembra una busta che contiene - per l'appunto - rifiuti plastici. La conseguenza è terribile, Lisa è preoccupatissima dalle conseguenze del gesto: «No, mamma, ferma: stai mischiando il politene con il poliuretano!», prontamente Homer, per far vedere che si sta interessando alla questione della figlia intellettuale, emette un fintamente preoccupato «Maaaaargeeee».
Questo ci dice già molto su un aspetto riguardo cui è bene soffermarsi. Lisa è consapevole dell'esistenza di due tipi di composizioni plastiche diverse le quali, nonostante appartengano alla stessa categoria generale di "
La radice del problema non è neanche toccata: perché due aziende che producono materiale per tenere ferme le lattine della birra Duff dovrebbero essere composte di due componenti plastici diversi? Perché è impossibile riciclare quei componenti insieme? E, ancora, per quale motivo quelle aziende continuano a produrre plastica nonostante l'evidente inquinamento? La risposta a questi quesiti non può fornirla Lisa: è una bambina che frequenta la scuola elementare della sua piccola cittadina, ha uno slancio positivo per gli argomenti che riguardano l'ambiente e l'ecologia ma più in là non riesce a spingersi. 
Il largo è ancora ben lontano dalle prime secche in cui ci troviamo. Non a caso gli sceneggiatori hanno fatto in modo di attribuire a Lisa le caratteristica di una coscienza - certamente inquieta - in fase di formazione all'interno di una normale e ordinaria famiglia americana: la positività della critica c'è ma è ancora acerba e relegata a questioni tanto di merito quanto di principio. Questioni, altresì, volutamente poste ed esposte in modo superficiale. Come si dice proverbialmente:

Lisa e la pillola kantiana
La coscienza di Lisa la porta a fronteggiare apertamente il signor Burns nell'evento dedicatogli presso la sua scuola. 
Prendiamo ad esempio la prima formulazione dell'imperativo categorico kantiano: 
«agisci secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale». 
Lisa agisce da vera kantiana: se tutto quello che dice il signor Burns è vero, cioè che bisogna lasciarsi alle spalle affetti, famiglia, religione e spiritualità per poter raggiungere il successo e la fama, allora questo non può essere un comportamento morale. Non a caso, in una società ultra-liberista come quella americana, Burns darà della "pazza liberale" a Lisa: non c'è "rivoluzione" in lei, solamente vorrebbe far tornare le cose al proprio posto in una società dominata dal mercato, dal profitto e dall'individualismo. 
Tuttavia, "se tutti facessimo in questo modo", ovvero, se tutti ponessero al primo posto della loro vita il profitto e la noncuranza della conseguenza delle proprie azioni, il sistema fagociterebbe tanto i produttori (imprenditori-capitalisti) quanto i consumatori (persone-lavoratorici e lavoratori). È questo che vuole far intendere Lisa alle orecchie che vogliono stare a sentirla: non possiamo agire con una presunta legge che, in realtà, è solo cupidigia verso il denaro e verso più accumulazione di capitale: "è veramente morale tutto questo?". Certamente no, dunque è bene non farlo.
Sulla base di questo suo agire, cerca di porre la propria battaglia ambiental/ecologista come nord nella propria intima bussola: il Direttore Skinner fa di tutto per coinvolgere i ragazzi nel progetto del riciclaggio, ma al momento della consegna di svariati chili di carta ottiene solo pochi spicci. Imbestialito, ingrana la retromarcia e urla: «Scordatevi il riciclo». Lisa, di nuovo, prova a far leva sul sentimento del Direttore: «Ma abbiamo raccolto tanta carta da salvare un albero!».
Peccato che proprio dietro la station wagon di Skinner troneggi un albero che venga abbattuto dalla furia del dirigente scolastico che aveva ingranato la marcia. Così, termina l'avventura ecologica della scuola elementare della cittadina immaginaria in cui vivono i nostri. Finisce per loro ma non per Lisa. 
Burns è costretto ad abbandonare la centrale nucleare, si ostina a voler vivere come una persona ordinaria nonostante non sia mai stato un ordinario cittadino: lo prendono per pazzo mentre parla con le bottiglie di Ketchup e Catsup e lo rinchiudono alla casa di riposo. Incontra di nuovo Lisa e prova a convincerlo che è cambiato: il riciclo ora si fa interessante per il ricco capitalista della città che è al verde e senza un nichelino. Può benissimo iniziare a chinare la testa, quale che sia la condizione che il fato gli sta riservando, per poterla rialzare subito dopo.

Greenwashing
Letteralmente il greenwashing potremmo tradurlo come: dare una mano di verde al capitalismo per farlo percepire diverso al cittadino-consumatore. Il fenomeno è piuttosto evidente nei supermercati della Grande Distribuzione Organizzata (Gdo): quando la cosiddetta opinione pubblica fremeva per le questioni legate all'ambiente c'è stato un fiorire di marche che proponevano il proprio prodotto verde in quanto realizzato con energie alternative, imballaggi costituiti da plastiche riciclate e via dicendo. 
Lisa convince Burns ad intraprendere questa strada. Inaspettatamente, l'ottuagenario accetta. Il green ha conquistato ogni aspetto della vita del sistema capitalistico: non c'è più stata ostatività tra i due mondi ma quello più potente ha intuito che per continuare a vivere meglio di prima avrebbe dovuto blandire le pressioni esterne che stavano crescendo. In altre parole: lentamente fagocitando le pressioni ambientaliste facendole rientrare sotto l'alveo del capitale. Il fenomeno del greenwashing è stato di recente analizzato anche dalla rivista «
«Il team comunicativo della multinazionale energetica però riesce sempre a raccontare il lieto fine, anche lì dove il principe alla fine della favola scappa e lascia solo territori da bonificare. Una capacità senza dubbio impressionante, tuttavia giustificata dall’ammontare che Eni destina a tale settore. Secondo i suoi stessi dati, nel 2019 l’azienda ha speso in pubblicità, promozione e attività di comunicazione 73 milioni di euro: per intenderci, circa la metà di quanto Eni prevede di spendere annualmente fino al 2023 in uno dei settori fiore all’occhiello delle pubblicità stesse, ovvero l’economia circolare. Ma la dicotomia tra realtà e narrazione è evidente in tutti i campi. Si pensi ad esempio alle pubblicità presenti in quasi tutti i quotidiani denominate «Eni + Chiara, Luca, Silvia, ecc» il cui focus è raccontare un’altra Eni: più attenta alle questioni climatiche, più green, più circolare. «Energia, solo cambiando il modo di guardare le cose, le cose che guardiamo inizieranno a cambiare. In Eni oggi trasformiamo gli oli esausti di frittura in componente per produrre biocarburanti avanzati»: così recita lo spot che invita Chiara a usare la macchina il meno possibile in modo tale che insieme, Chiara + Eni, possano fare la differenza. Come se la capacità di incidere del singolo e di una multinazionale che ha chiuso il 2019 con un ricavo di 71 miliardi di euro fosse identica»
Non si è sulla stessa barca: consumatore e produttore, capitalista e "unità di produzione" non sono sullo stesso piano. Men che meno ora a causa della pandemia. Esiste un "noi" e un "loro" su una linea di demarcazione piuttosto evidente. La questione greenwashing stabilisce i termini della questione-delle-questioni: l'irriformabilità del sistema capitalistico e la necessità di costruire e pianificare un'alternativa. Lisa, ovviamente, tutto questo non lo sa: crede fino in fondo nel greenwashing operato dal signor Burns e da quello che potrebbe trarre di positivo.

Ma questo ed altro verrà trattato e sviscerato nel secondo articolo a riguardo.

lunedì 20 luglio 2020

Calcio femminile in Groenlandia: parla Jakob Geisler, allenatore dell'IT-79

Foto Knud Peter ©
La voce dagli antoparlanti del computer arriva chiara e limpida: sembra che stia telefonando in un'altra città italiana o stia parlando da un quartiere all'altro di Roma.
E invece Jakob Geisler risponde tramite Skype dalla lontanissima Nuuk, capitale della Groenlandia.
Geisler è allenatore di calcio a 11 della squadra femminile dell'IT-79 (Inuit Timersoqatigiiffiaq), una delle tre squadre della Capitale: «il livello del calcio femminile si sta abbassando e anche di molto», dice Geisler: «mancano fondi e non abbiamo strutture adeguate». Così come a Roma anche a Nuuk nessuno ha davvero a cuore le sorti dell'"altra metà del calcio": «provo ad allenare le ragazze al meglio che posso con i mezzi che abbiamo».

In Groenlandia «tra le ragazze va molto forte il calcio a 5 (futsal) e la pallamano (handball)», dice l'allenatore viola-nero: «il livello del calcio a 5 è decisamente migliore: le calciatrici sono di livello molto alto». L'allenamento all'interno di strutture coperte, così come lo svolgimento di campionati, è facile da immaginare, è la chiave di Volta per il raggiungimento di un livello superiore che attualmente non c'è nel calcio a 11. «Il livello del calcio a 11 - dichiara Geisler - si è abbassato a causa della mancanza di una vera e propria rappresentativa: una nazionale avrebbe bisogno di fondi necessari per poter raggiungere competizioni e tornei internazionali, ma questo non accade».

È bene ricordare che nel 2011 la nazionale femminile della Groenlandia raggiunse la medaglia di bronzo agli Island Games così come nel 2013 la medaglia d'argento venne conquistata all'edizione dei medesimi giochi, svoltisi a Bermuda, tanto dalla compagine maschile quanto da quella femminile. 
Jakob Geisler - foto © Knud Peters
Possiamo immaginare come lo sforzo profuso dalla federazione groenlandese sia stato ingente e - forse - non c'è possibilità al momento di rendere stabile la rappresentativa nazionale femminile.

Certo è che, nonostante tutto, il calcio groenlandese ha fatto dei passi in avanti notevoli dal punto di vista dello sviluppo di alcune rigidità e strutture: basti pensare al terreno di gioco. Molte sono le immagini che circolano su canali d'informazione nazionali, nonché sui social media, dei nuovi campi in erba sintetica prospicienti agli iceberg, su questo Geisler non ha dubbi: «preferisco di gran lunga l'erba sintetica», ha dichiarato. «L'erba sintetica permette una maggiore fluidità nei movimenti delle calciatrici (e dei giocatori in generale) così come nel controllo della palla», ha dichiarato l'allenatore dell'IT-79, «ora è molto meglio: possiamo correre più velocemente, cambiare direzione più rapidamente». In altre parole: tanto l'allenamento quanto le partite ufficiali hanno beneficiato del cambio di terreno dei campi da gioco della Groenlandia. 

Contrariamente a quanto avevamo scritto in precedenza il campionato femminile non è ancora partito: «siamo fermi a causa delle restrizioni dovute dal Covid-19», afferma Geisler, «non sappiamo ancora quando potremo ricominciare a disputare partite di campionato: ancora non abbiamo notizie certe a riguardo».


giovedì 9 luglio 2020

Campionato groenlandese: al via la fase locale. Partito il campionato femminile

© redbull.com
La prossima settimana è quella buona: stando alla pagina Facebook della federazione groenlandese di calcio, a partire dal 14 luglio si terranno le partite valide per le fasi locali del campionato più a nord della Terra. 
La prima settimana di confronti calcistici (14-16 e 17-19 luglio) sul rettangolo verde vedrà fronteggiarsi le squadre che intendono primeggiare alle fasi locali del campionato, dunque potremmo chiamare questa prima fase di scrematura "fase preliminare" o "comunale". Le cittadine (o città) più organizzate delle varie zone amministrative in cui la Groenlandia è divisa hanno l'onore e l'onere di prendere parte all'organizzazione del torneo assieme alla federazione calcistica del paese.

Groenlandia del nord: Uummannaq
Le prime a scendere in campo saranno le squadre appartenenti alla zona nord della Groenlandia, più precisamente del territorio di Uummannaq, e le squadre che si confronteranno saranno le seguenti: Eqaluk 56, FC Malamuk e Amaroq 53. L'ultima tra le squadre citate sarà da monitorare per  capire se sarà in grado di tenere testa alle due ben più quotate compagini di Eqaluk e Uummannaq: l'Amaroq, in effetti, non si iscriveva alle fasi preliminari del campionato dal 2013 quando la squadra era denominata Amaroq Saattut e terminò all'ultimo posto. Senza dubbio, in effetti, l'FC Malamuk sarà la squadra da battere di questo mini-girone a tre.

Groenlandia centrale: Sisimiut
Il 17 e il 18 luglio, invece, scenderanno in campo le squadre appartenenti al territorio di Sisimiut: SAK (acronimo di Siumut Amerdlok Kunuk), S-68 e Aqissiaq rispettivamente delle città di Sisimiut (SAK e S-68) e Maniitsoq. Anche in questo caso sarà interessante monitorare quali saranno gli sviluppi del mini-girone in relazione all'Aqissiaq, storica compagine di Maniitsoq, che non prendeva parte alla GM Championship da molti anni.
È utile ricordare come la cittadina di Maniitsoq, negli ultimi decenni, sia stata sempre rappresentata dalla squadra biancorossa Kagssagssuk Maniitsoq.

Groenlandia centrale: Baia di Disko
Certamente più avvincente saranno le gare che si disputeranno dal 14 al 19 luglio: le squadre appartenenti alle cittadine e villaggi della Baia di Disko sono tra le più quotate e meglio organizzate, dopo quelle afferenti alla capitale Nuuk. Scenderanno in campo le seguenti compagini: Aqisseq (altra squadra di Maniitsoq), Tupilaq 41 (di Aasiaat), Kugsak (del villaggio di Qasigiannguit, talvolta scritta anche come K-45), Disko-76 (di Qeqertarsuaq) e G-44 (anche quest'ultima di Qeqertarsuaq). In questo girone saranno certamente le squadre di Qasigiannguit e Qeqertarsuaq a primeggiare, tuttavia il campionato groenlandese riserva sempre grosse sorprese, dunque è bene non sottovalutare aprioristicamente le squadre di Aasiat e di Maniitsoq.

Vecchi e giovani
A sinistra Jonas Hansen (47 anni), a destra Nemo Thomsen (14)
fonte foto: NBU - Nuuk Boldspil Union GM 2019 ©
Per comprendere pienamente quel che significa il calcio groenlandese bisogna saper astrarsi dalla quotidianità del calcio milionario, degli stadi vuoti, di pay-tv, dei giocatori considerati vecchi alle soglie dei trent'anni: i limiti di età in Groenlandia, semplicemente, non esistono. Lo scorso anno infatti, in una partita fra K-45 e N-48, si sono affrontati il più vecchio e il più giovane calciatore del campionato: Jonas ‘Kidi’ Hansen e Nemo Thomsen, segnando l’uno il gol della bandiera gol e l’altro una tripletta, in una partita che ha avuto ben poco da dire, terminando 1-13 per il N-48 (Nagdlunguak della città di Ilulissat), compagine arrivata in finale e sconfitta per 2 a 0 dal B-67.
Jonas Hansen, il più vecchio, ha disputato la partita a 47 anni e 357 giorni mentre Nemo Thomsen, il più giovane ne aveva da poco compiuti 14: due mondi a confronto, sebbene provenienti dallo stesso Paese, dato che Hansen gioca da sempre per la polisportiva del suo paese (Qasigiannguit, insediamento della Baia di Disko che conta poco più di mille anime) e, nonostante il blasone del Nagdlunguaq, per il Kugsak-45 l’importante era essere presente alla fase finale.

Non solo uomini: al via le fasi locali del campionato femminile
Cinque giorni fa si è svolta la partita valevole per le fasi locali del campionato di calcio femminile della Groenlandia. A scontrarsi sono state le compagini dell'I-69 e dell'N-48, rispettivamente appartenenti alla città di Ilulissat: subito un derby! Le squadre si sono date battaglia per 90 minuti ma il campo ha decretato l'I-69 come vincitrice per 3 reti a 0.
Qui alcuni scatti dagli spalti:





martedì 30 giugno 2020

Trenino Roma-Giardinetti, Tortorelli: «Riapertura a settembre? Improbabile» *

La questione legata al trenino “Roma-Giardinetti” anima il dibattito politico capitolino e quello delle vite di utenti e lavoratori che, anni fa, si servivano della storica linea a scartamento ridotto partendo dalla periferia extra-Gra. La mozione, presentata dalla consigliera Svetlana Celli (lista civica Roma Torna Roma – Giachetti Sindaco) andava a sostenere la riattivazione della tratta Centocelle-Giardinetti, in attesa dell’avvio dei lavori finanziati dal Ministero dei trasporti. Quelli per cui la Roma-Giardinetti subirebbe massivi interventi di ammodernamento e potenziamento per la sostituzione dello scartamento ridotto a quello ordinario al fine del prolungamento da Termini a Tor Vergata. «Per riattivare la linea serve avviare un dialogo tra Regione e Atac – ha spiegato la consigliera Celli in occasione della presentazione della mozione – per definire i termini della riapertura di una linea strategica per interi quartieri, da Centocelle a Torre Maura fino a Giardinetti». La mozione in oggetto, numero 220, è stata approvata all’unanimità nei giorni scorsi. Il tavolo che potrebbe aprirsi tra Regione, Atac e Comune sarebbe auspicabile: «Ora che le basi per il futuro sono state gettate e sono stati ottenuti i finanziamenti (il cui ottenimento definitivo è vincolato al passaggio di proprietà Regione-Comune e la stipula dei contratti per l’esecuzione dell’appalto entro la fine del 2022), ci sono tutte le condizioni affinché i soggetti interessati (Atac, Comune e Regione) si siedano ad un tavolo per discutere la riapertura della tratta sospesa», si legge sul blog "Sferragliamenti dalla Casilina". La sola Metro C non può sobbarcarsi il cosiddetto “lavoro sporco” del collegamento di uno dei più popolosi municipi di Roma: trenino e metropolitana viaggerebbero su binari paralleli, metaforicamente e concretamente parlando. Il palliativo della linea su gomma 106 è, in tal senso, del tutto inefficiente e sotto gli occhi di tutti. Per fare il punto della situazione, abbiamo raggiunto Carlo Andrea Tortorelli, blogger e ingegnere.

Scartamento.
La domanda che sorge spontanea è a che servono ulteriori lavori per ammodernare uno scartamento quando, tecnicamente, i “binari” già ci sono. La questione «è complessa», sostiene Tortorelli: «Roma nel 2017 ha avviato i lavori del PUMS (Piano Urbano della Mobilità Sostenibile), uno strumento urbanistico previsto dall’ordinamento italiano ai sensi della legge n° 340 del 2000». «Nello stesso anno, si arriva al punto in cui l’amministrazione inserisce la Roma-Giardinetti nel novero di una serie di opere prioritarie, tra cui le famigerate e contestatissime funivie: Per la tratta era previsto un ammodernamento che comprendeva il mantenimento dello scartamento ridotto. La domanda di finanziamento è formalizzata con la delibera n° 251 del 2018». Fin qui tutto bene, ma quand’è che si passa dall’idea di trasformazione da scartamento ridotto a ordinario andando, ovviamente, ad allungare i tempi dei lavori? «Il Ministero dei trasporti (Mit) alla fine del 2019 si è pronunciato a riguardo dicendo, sostanzialmente, di finanziare il progetto di riqualificazione e ammodernamento della linea a patto che si passasse allo scartamento ordinario come il resto della rete tramviaria romana» In buona sostanza, afferma Tortorelli: «il MIT coprirà i costi dell’ammodernamento a patto che si vada a uniformare lo scartamento rendendolo identico a quello delle altre linee ferrata tramviarie della Capitale».


Uniformare tutte le strade ferrate dei tram della Capitale: questa la “ratio” con cui sta agendo il MIT.
Ma la riapertura a settembre, per Tortorelli, non pare sia possibile: «La riapertura a settembre è impossibile. Il punto è che in Assemblea Capitolina la consigliera Celli ha presentato una mozione che, sostanzialmente, non è vincolante quanto può esserlo una delibera». Tra l’altro è una mozione che rientra in una sorta di ciclo di atti che i consiglieri periodicamente, di legislatura in legislatura, propongono riguardo la riapertura integrale della Roma-Giardinetti. «Il punto, secondo me, è quello di produrre una vera analisi “costi-benefici” sulla tratta in questione», dichiara Tortorelli, «perché potrebbe risultare insensato riaprire per poco tempo una tratta destinata comunque a chiudere per il cambio di scartamento». È indubbio che l’inanità produca stallo e abbandono, vale per la Roma-Giardinetti come per le questioni quotidiane.

Ma se la riapertura è impossibile, è necessario produrre un’analisi costi-benefici e non, piuttosto, sostenere la riapertura e basta?

«La questione è complessa, il passaggio di proprietà fra Regione Lazio e Comune rappresenta uno di questi problemi: la Regione dice che non metterà un soldo per l’esercizio oltre Centocelle; il Comune ha – di fatto – le mani legate dalla proverbiale “coperta corta” del bilancio. Il fatto è che io potrei anche fare il “populista” e dire apriamo tutto e subito ma quest’affermazione ha un impatto e non tenerne conto sarebbe superficiale. Sarebbe fare proclami tanto per urlare». C’è però da dire che si andrebbe a colpire là dove si è sicuri di farlo, un po’ come quando si introducono nuove tasse andando a colpire i lavoratori statali: a fare le spese dei mancati accordi tra Regione e Comune c’è la periferia e uno dei quadranti più abitati della Capitale con indicatori di disagio sociale molto elevati e via dicendo. «La prospettiva che secondo me va adottata deve essere a lungo termine», rincalza Tortorelli, «sui 213 milioni concessi dal MIT pende la scadenza del 31 dicembre 2022, data entro la quale dovranno essere affidati i lavori, pena ritiro del finanziamento concesso. Tenendo anche conto di circa due/tre mesi che ci possono essere dall’aggiudicazione della gara all’avvio dei lavori, la prospettiva della riapertura della tratta esistente è comunque molto limitata dal cambio di scartamento. Per questo ribadisco che come cittadini dovremmo tendere ad accelerare sul progetto in essere, non riaprire la tratta che comunque in breve tempo richiuderebbe».

Metro C e trenino viaggiano su binari paralleli.

«Fino all’altro ieri si diceva che la Metro C era inutile e invece oggi ci sono le code fuori da San Giovanni per quanto è apprezzata; si diceva che il trenino con la Metro C fosse inutile e ora tutti ne stanno chiedendo la riapertura. Si tratta di due linee che corrono su binari paralleli e che si toccano in sole 4 stazioni su 21 (Metro C) e 20 (trenino)». L’una non esclude l’altra, in buona sostanza. Il ragionamento quasi da sistema binario informatico “0-1-0-1”: apriamo una metro e togliamo un mezzo di superficie, «è stato fatto col paraocchi» e che «come soggetti attivi, associazioni e comitati di quartiere, penso a Tor Pignattara, Torre Maura e Giardinetti, abbiamo cercato di porre un argine a questa decisione. Il buon senso, tuttavia, il più delle volte “perde”».

*Articolo pubblicato su «La Rinascita delle Torri»

Groenlandia, partono i campionati

Il campionato groenlandese di calcio partirà. Questa è la notizia diramata dall'associazione calcistica KAK, associazione sportiva groenlandese a mezzo Facebook e ripresa dal giornale danese-groenlandese Sermitsiaq: «La Federazione calcistica groenlandese Kak ha dichiarato che le partite di qualificazione dei campionati di calcio, maschili e femminili, possono essere disputati in tutta sicurezza». La Groenlandia, dunque, rimette in moto la macchina del campionato calcistico: si parte fra tre settimane: «i campionati dei territori comunali - spiega il quotidiano Sermitsiaq - possono essere utilizzati come partite di qualificazione per le fasi finali» che solitamente si svolgono nel mese di agosto. Stop, invece, ai campionati giovanili: l'annullamento dei tornei ha colpito le categorie Under 15 e Under 18 a causa del ritiro di molte città ospitanti con conseguenti problematiche relative ad alloggi e pernottamenti.

Nuovo sponsor tecnico
La Federazione calcistica groenlandese ha, inoltre, concluso un accordo tecnico con la blasonata "Macron" per una «sponsorizzazione pluriennale»: «Un accordo di enorme importanza - ha dichiarato Finn Meinel della federazione - per continuare a rendere professionistico e professionale il futsal e il calcio a 11 groenlandese con partnership a lungo termine di questo genere».

Come si svolge il campionato groenlandese
Il campionato di calcio è strutturato in tre fasi: locale, regionale e “nazionale” (ma è più corretto chiamarla “finale”), quest’ultima divide le squadre in due gruppi (A, B), solitamente non più di 12. Le fasi locali si svolgono prima della settimana di ferragosto, momento clou del GM, l'acronimo del campionato di calcio dell'isola. La fase finale si gioca su un campo solo, quello di Nuuk, recentemente rimesso a nuovo e in erba sintetica, fino a qualche anno fa in terra battuta. Ma che nessuno t(r)emi: il romanticismo del campionato più a nord del Pianeta Terra non è stato affatto minato dalla colonizzazione del verde artificiale: gli spalti sono sempre i soliti, ovvero, la partita la si guarda dalle rocce, liberamente, senza pagare nulla.

La piccola cittadina di Asiaat e il nuovo campo in erba sintetica.

sabato 27 giugno 2020

Un anno [scolastico] è già passato

Il primo anno d'insegnamento è già passato: A.S. 2019/2020, Istituto Salesiano Villa Sora. Da pensare trasmesso come quelle strisce di localizzazione di X-Files. Per me (e anche per Mattia) è stato il primo anno: entrambi con due quinti superiori. Boom. Cominciamo col botto, di quelli che le amministrazioni comunali pianificano per far brillare interi edifici di svariati piani.
La prima foto è stata scattata da me a tradimento, mentre ce ne andavamo a prendere un caffè al bar di fronte scuola. Io sono vestito come uno scappato di casa, Mattia e Giusi sembrano proprio dei prof. fatti e finiti, Anna ha curiosamente lo stesso vestito della seconda foto, a distanza di svariati mesi.


La seconda foto è del 27 giugno. Pandemia portaci via: collegio docenti con mascherina e distanziamento sociale, anche se per fare questa foto ce ne siamo bellamente infischiati. «Tanto c'avemo l'autocertificazioni», come se con l'autodichiarazione il Covid sparisse. Ma tant'è.

In tutti i posti di lavoro si fa un gran parlare di "famiglia", "squadra" che, certo, sono parole importanti. Ma ancora più rilevante è il significato di "spalla" e questo è quel che siamo l'un per l'altra.
A settembre, o meno: sempre dalla stessa parte.




martedì 17 marzo 2020

Soldi al vento, i nostri. È il capitalismo, bellezza.

Fonte foto: Afp - Sole24Ore
La notizia ribattuta dalle agenzie di stampa, in questo caso dall'«Ansa» è davvero implacabile:
nel corso della giornata di ieri [16 marzo 2020 ndr] la seduta delle borse europee è stata al ribasso ed ha «causato uno scivolone dell'indice StoxxEurope600 * del 4,9%».
In termini monetari il crollo equivale a «255 miliardi di capitalizzazione 'bruciati' in una [sola] giornata».
Oggi si prova a rimodulare l'avvio delle borse, ce ne informa il «Sole 24 Ore»: «Netto rialzo per le Borse europee, che rimbalzano dopo l'ennesima seduta nera in cui l'Eurostoxx ha perso oltre il 5% e Piazza Affari è caduta del 6,1%, con i mercati finanziari colpiti dalla paura per gli effetti del coronavirus sull'economia e dalla diffusione del contagio in Europa e negli Stati Uniti. La reazione arriva all'indomani del comunicato dell'Eurogruppo che si è impegnato a prendere qualsiasi iniziativa per supportare l'economia dell'Eurozona. [...] Lo status di Paese ultraindebitato e più colpito dall’epidemia fa dell’Italia un bersaglio ideale della speculazione. Specialmente dopo le parole di Christine Lagarde di giovedì scorso («Non è nostro compito chiudere gli spread»)». 

Non è responsabilità di nessuno, figuriamoci dell'Unione Europea e dei grandi capitali sanare la situazione economica dei paesi membri! Il punto è proprio l'indebitamento che genera speculazione finanziaria, una sorta di serpente che mangia la propria coda per l'eternità.
Le grandi masse di miliardi che vengono investiti, bruciati, ripresi e frutto di speculazioni finanziarie altro non sono altro che il disvelamento della reale natura del capitalismo.
Un sistema che - ogni giorno di più - mostra la sua vera natura: una rapina continua nei confronti della popolazione, inumano, evidentemente irriformabile.

C'è poi da fare anche un brevissimo commento - da post- it - riguardo le parole che riecheggiano nel lessico politico-giornalistico del capitalismo nell'era della sua estensione più selvaggia, nonché in una fase del tutto peculiare come quella della pandemia Coronavirus che sta comprimendo i guadagni dei mercati facendo pagare il conto di questa compressione a centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori.

Il termine ricapitalizzazione ci fa rivolgere la mente ad una situazione imprenditoriale italiana che è ben nota alla popolazione: Alitalia. In quel caso, in piccolo rispetto alle quotazioni azionarie di grandi indici europei e transnazizonali, le perdite le pagavano le lavoratrici e i lavoratori, così come i contribuenti: a fronte di una vasta speculazione privata di una ristretta cerchia di dirigenti in cerca di fare profitto su ogni aspetto della vita dell'azienda, il debito era scaricato sulla fascia più debole del comparto societario. Il tutto mentre la buonuscita dei manager era milionaria: assegni staccati mentre si profilavano licenziamenti di massa e i vari governi profilavano la privatizzazione di Alitalia come unica soluzione.

Questo è il capitalismo, nient'altro: socializzazione delle perdite, privatizzazione dei guadagni.
Ma i soldi sono sempre i nostri.

* Lo StoxxEurope600 raggruppa «i principali titoli quotati sui listini del Vecchio continente» [cfr articolo precedentemente citato nel collegamento ipertestuale].

sabato 14 marzo 2020

Il controllo sociale ai tempi del virus, nonché del “capitalismo della sorveglianza” *

Il «manifesto» di oggi [14/03/2020] pubblica un articolo siglato da Andrea Capocci (An. Cap.) che racconta di come la Corea del Sud stia agendo per fronteggiare la pandemia Coronavirus: «La Corea del Sud è un paese abbastanza simile al nostro per popolazione e superficie: un po’ più di 50 milioni di abitanti (noi siamo 60 milioni) distribuiti in 220 mila chilometri quadrati, contro i 301 mila italiani, età media di 42 anni poco inferiore ai nostri 46. Come si spiega che lo stesso virus abbia una così diversa letalità in due contesti analoghi?». I numeri posti al di sopra dell’articolo consegnano al lettore un momento di riflessione riguardo il dilagarsi del contagio nel paese diviso al 53esimo parallelo: «in Corea del Sud ci sono 8.000 casi censiti contro i 15.000 dell’Italia ma i morti qui sono solo 71»

La connessione tra controllo e Coronavirus 
Il controllo sociale, come riporta il titolo dell’articolo, è stato utilizzato per abbassare i numeri del contagio ed evitare la massiccia propagazione del CoVid-19: «Per capire con quali persone un paziente è entrato in contatto […] sono stati usati i tracciati gps dei telefoni, i dati sull’utilizzo delle carte di credito, le telecamere a circuito chiuso. […] Per ottenere queste informazioni sono state integrate le banche dati della polizia, delle società telefoniche, delle assicurazioni sanitarie, delle autorità finanziarie». La diffusione del contagio può essere fermata, dunque, qualora si entri nella vita di tutti i giorni della popolazione, in questo caso sudcoreana, che nel corso degli ultimi dieci anni si è largamente dotata di uno smartphone ad uso personale o lavorativo. 

La questione sembra essere ininfluente ai fini del dibattito politico o pubblico, tuttavia, spesso abbiamo avuto modo di ascoltare – da amici, colleghi di lavoro, parenti – frasi simili a questa: “non importa che io venga tracciato, le mie mail spiate o accenda costantemente la posizione e Google mi mandi resoconti della mia “attività”: non ho nulla da nascondere”. 
Sentenza priva di ogni senso, o meglio, con un significato ben preciso: la totale inconsapevolezza dell’“utilizzatore finale” di dispositivi elettronici a cui è obbligatorio associare un account Google, iCloud e, prima che terminasse il supporto sui propri dispositivi, Windows mobile
L’Ovra o la Gestapo ne sarebbero stati felicissimi. 

Ma facciamo un passo indietro. 
Al momento della diffusione del virus Mers-CoV *, a ridosso del 2012, la Corea del Sud ha registrato il maggior numero di casi dopo l’Arabia Saudita: all’epoca il governo fu criticato per aver negato la concessione di informazioni, come ad esempio i luoghi visitati dai pazienti per contenere il contagio del virus.
La legge è stata modificata al fine di autorizzare gli investigatori ad entrare nei dispositivi elettronici della popolazione: nell’articolo del giornalista Capocci del «manifesto» non è stato fatto cenno alle aziende produttrici dei sistemi operativi degli smartphones proprio perché, a causa di un analogo caso di emergenza di coronavirus, il Governo sudcoreano è corso ai ripari modificando la norma.
Nei dispositivi elettronici della popolazione sudcoreana – riporta la BBC – arrivano notifiche come questa: «Un uomo di 43 anni, residente nel distretto di Nowon, è risultato positivo al coronavirus». «Questi avvisi – scrive Hyung Eun Kim della BBC coreana – appaiono in continuazione sugli smartphones della popolazione indicando dove una persona è stata infetta e quando […] non viene fornito alcun nome o indirizzo ma spesso si riesce a ricollegare conoscenze, luoghi visitati e, dunque, ad identificare le persone: in molti casi si sono ricostruiti adulteri consumati in hotel a ore»**. Il problema legato alla discrezionalità di queste informazioni è tema di indubbio interesse e alla portata di qualsiasi lettore che sappia andare oltre la stupidità della stantìa frase “non ho niente da nascondere”: il mondo transnazionale legato alla interconnessione di utenze mail e navigatori gps inseriti in dispositivi telefonici, unite da un lato alla pratica sempre più diffusa da dedali di “aziende terze” che si preoccupano di profilare gli utenti e, dall’altra, la crescente attenzione da parte dei governi democratico-liberali, desta più di qualche interrogativo.
È evidente che, nel corso degli anni, l’utilizzo degli smartphones, giustapposto all’affinamento, al perfezionamento degli usi che un utente può farvi, alla sempre più duttile utilità dei sistemi operativi ivi installati, ha assunto un ruolo sempre più predominante nella vita della popolazione.
Il sistema che ne è venuto fuori è quello di una pervasività totale all’interno delle nostre vite: il capitalismo entra, così, a gamba tesa in ogni aspetto della giornata di ogni singolo individuo.
Basta concedere l’accesso della posizione del proprio dispositivo e quello del microfono e il gioco è fatto: la profilazione è totale e ogni nostra azione è monitorata in ogni singolo istante.

Spesso riteniamo come la connessione dati sia indispensabile per la vita di tutti i giorni, anche per le operazioni più semplici legate a necessità immediate: falso.
Il bisogno indotto da strumenti sempre più pervasivi nella nostra quotidianità ha fatto in modo che si arrivasse a percepire come necessaria l’interrogazione a Google in un qualsiasi aspetto della nostra giornata: che sia l’indicazione stradale o che sia la trasmissione dei dati personali per il contrasto del coronavirus. La risultante è, tuttavia, quello di una massificata profilazione di utenti informatizzati che posseggono uno smartphone e che, in questo specifico caso nordcoreano, hanno contratto il virus.
Si potrebbe certo sostenere che l’azione messa in atto dal governo sudcoreano è senza dubbio efficace: si notificano a tutti i dispositivi connessi ad internet notizie certificate dal Ministero preposto al fine di informare cittadine e cittadini riguardo il contagio di una data persona in una certa zona del paese. La partita di giro è molto più imponente di quel che si voglia pensare: in cambio del proprio servilismo a sistemi operativi a cui abbiamo concesso l’uso della nostra intimità (voce e iride due aspetti su tutti) e delle nostre azioni quotidiane, possiamo essere informati sulla progressività del contagio del coronavirus, al netto degli “effetti indesiderati”, come quel che è avvenuto il 18 febbraio a seguito di una notifica che riguardava il contagio di una donna di 27 anni. La donna lavorava allo stabilimento Samsung di Gumi e la notifica «ha riportato che alle 18:30 di sera del 18 febbraio» si sarebbe incontrata con una sua amica che aveva partecipato al raduno della setta religiosa Shincheonji***, il vettore di maggior diffusione del contagio nel Paese: «il sindaco di Gumi ha diffuso il suo nome su Facebook e i residenti della città, in preda al panico, hanno iniziato a commentare sulle reti sociali in preda all’odio e alla psicosi: “dacci l’indirizzo del suo condominio”»****.
È arrivato, dunque, il momento di prendere in considerazione l’atto della disconnessione per avviarne un serio dibattito, da marxisti.

Middle East Respiratory Syndrome, sindrome respiratoria del Medio Oriente, detta anche “influenza dei cammelli”, responsabile della sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus.
** Hyung Eun Kim, Coronavirus privacy: are South Korea’s alerts too revealing?, «Bbc», 5 marzo 2020, <https://www.bbc.com/news/world-asia-51733145>.
*** Il vettore di maggior diffusione del contagio del virus è legato ad una congregazione cristiana che in Sud Corea è considerata una setta, come ha riportato l’agenzia «Reuters» nei primi giorni di marzo: «Il governo di Seoul ha aperto un indagine [1 marzo 2020 ndt] sul leader di una setta cristiana (Shincheonji – Chiesa di Gesù al Tempio del tabernacolo e della testimonianza) al centro del micidiale scoppio del coronavirus nel Paese» secondo il governo sudcoreano «la chiesa era responsabile del rifiuto di cooperare con le autorità al fine di fermare la malattia» dal momento che «una grande maggioranza degli oltre 4.000 casi confermati di coronavirus, il numero più alto dopo la Cina, è stata collegata alla Shincheonji, setta di cui è capo il fondatore Lee Man-hee». Secondo il primo cittadino di Seoul Park Won-soon, se Lee e gli altri leader della chiesa avessero collaborato, si sarebbero potute mettere in atto efficaci misure preventive per salvare vite che in seguito sarebbero morte in seguito alla contrazione del virus. 
Shangmi Cha, Murder probe sought for South Korea sect at center of coronavirus outbreak, «Reuters», 2 marzo 2020, <https://www.reuters.com/article/us-health-coronavirus-southkorea-murder/murder-probe-sought-for-south-korea-sect-at-center-of-coronavirus-outbreak-idUSKBN20P07Q>.
**** Hyung Eun Kim, Coronavirus privacy: are South Korea’s alerts too revealing?, «Bbc», 5 marzo 2020, <https://www.bbc.com/news/world-asia-51733145>.

* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6425