La [s]cicoria

La battaglia culturale di rivendicazione culinaria tra nord, centro e sud Italia si fonda spesso su luoghi comuni: dal Rubicone in giù si tende con estrema facilità a dare dei polentoni a coloro che abitano al di sopra della fu Linea Gotica. Allo stesso modo, chi abita nell'ex Lombardo Veneto si lascia andare in terminologie bossiane (terùn!) nei confronti di coloro che abitano dalle Marche in giù, fino ad arrivare a paragonare la cucina asiatica (aglio, curry, spezie, peperoncino e via dicendo) a quella del Mezzogiorno d'Italia.
Tanto più è aspra la lotta, tanto più prosegue intrisa di luoghi comuni e prese di posizione che affondano le radici nel «s'è sempre detto così», tale espressione in Bergamo viene condensata nello stringersi di spalle rivolgendo i palmi delle mani verso l'alto, accompagnando tale mimica con uno stentoreo «pota...».

Fatta questa premessa, è bene arrivare alla ragione del post: la cicoria. Parola la cui pronuncia alle orecchie dei non romani viene percepita con la s anteposta alla c, come per qualsiasi altra parola che preveda l'affricata palatale come prima lettera: [s]Cento(s)celle, ba[s]cio e via dicendo. 
Quell'erbetta spontanea così famosa a Roma (che in Veneto viene poco delicatamente chiamata pissacàn), nella bergamasca, semplicemente, non esiste. O meglio, non viene consumata. Si lascia crescere ma poi non viene raccolta e finisce per essere accomunata alle altre erbacce infestanti. A Roma facevo una gran scorta di cicoria sia quando mi trovavo a comprarla ai banchi del mercato di Torre Maura, sia quando mi trovavo presso i punti vendita della grande distribuzione organizzata (meglio noti come: supermercati). L'imperativo era uno: tornare a casa, indossare il grembiule (quello basso) da cucina, pulirla, lessarla e spadellarla. Dopodiché - insegnamento materno - aspettare che l'acqua di cottura si sia raffreddata per innaffiarci le piante. 

In una delle ultime spese romane prima del trasferimento, mi sono detto: «se riesco a trovare la cicoria all'Esselunga del Prenestino, ci sarà pure a quella di Bergamo. Per una volta diamo un merito alla grande distribuzione».
La prima cosa che ho fatto, dunque, una volta in Valle Seriana, è stata controllare la veridicità della mia supposizione: ci sono rimasto malissimo quando ho notato che la cicoria non solo non c'era quel giorno ma non ci sarebbe stata quel mese e non sarebbe mai giunta tra gli scaffali.
Idem per i mercati: cicoria questa sconosciuta. Ammetto che grande fu lo sconforto. 

La medesima sensazione, mista a vivo stupore, l'ho provata quando, a proposito di cicoria, ho iniziato a vedere in vendita barattoli di vetro al cui interno vi era della cicoria essiccata e triturata vicino al caffè solubile. L'etichetta esterna non mentiva: "Caffè di cicoria".
«Da qua a 'r Ventennio è n'attimo», ho pensato. 
Eppure qui al nord il consumo della bevanda surrogata non è così inusuale. Nelle discese romane ho appurato che anche nella Capitale sta tornando a fare capolino tale surrogato, sebbene ancor timidamente rispetto alle zone ex Lombardo-Veneto. 

Due aneddoti a riguardo.

Due aneddoti a riguardo.

Orrore e raccapriccio.
Dopo mesi di astinenza da cicoria, una sera mi trovo fuori a cena in una piccola località montana della media Valle Seriana. Leggo il menù e mi emoziono vedendo che tra i contorni viene proposta la cicoria: tento l'azzardo e ne ordino una porzione. Il cameriere arriva trionfante a portarmi il piattino contenente l'oro verde ma la mia emozione si è spenta come un cerino appena acceso esposto alla proverbiale Bora triestina. Il piatto conteneva sì cicoria ma semplicemente lessata. Bollita. Scondita. Non ripassata. 
Un colpo al cuore. (Però me la sono magnata lo stesso). 

Caffè di cicoria
Con Maria prendiamo la decisione di rimetterci in contatto con le strutture di Altromercato e del commercio-equo. A Nembro c'è una cooperativa che gestisce non solo una piccola bottega ma anche un bar che si regge, come consuetudine nella realtà di Altromercato, da lavoratori e volontari. Martedì scorso inizio il primo giorno al bar da volontario: servizio ai tavoli. Il tempo passa e tutti notano l'accento diverso alle loro orecchie: chi sorride, chi guarda storto, chi prova a fare il TotoProvenienza producendosi in un susseguirsi di grossolani errori.
A un certo punto, a metà mattina, mi sento chiamare da un tavolo: «Tè shcusa: mi porterèshti per favore un caffè di cicoria?».
Mi giro lentamente e c'è ancora il tizio con l'indice della mano destra proteso verso l'alto, sorridente, che nota la mia torsione del busto. Non riesco, stavolta, a mascherare l'accento [non ci riesco mai, a dirla tutta]: «Er caffè de [s]cicoria? Guarda io t'o porto pure ma hai sbajato periodo storico». Il tizio non coglie subito, ci rimane un po' male, però mi fa: «No ma shi beve, neh... ma... di dove shei tè?». Sorride, non è ostile. Io rispondo scherzando e imito l'accento valligiano: «Pota, shono di Vilminore, io!». Lui, ancora più incredulo: « [...] di...di Vilminore? Pota davvero?», quasi ci cascava. Per un attimo mi sono immaginato nella testa di questo tizio: uno che parla così può essere mai di Vilminore? MadonaHignùr è finito il mondo!
Dunque termino il gioco: «Ma no, te pare, sono de Roma. Quindi, abbiamo detto: un caffè di [s]cicoria?». Riprende il normale corso dell'ordinazione e torna a dire: «Shi, ecco, grazie! Ben caldo, per favore!». 
Mi avvicino al bancone per riferire: c'è Jessica (la barista) la quale non aveva ascoltato, intenta com'era a preparare caffè per chi non sarebbe stato da servire al tavolo. Le riferisco la comanda, aggiungendo a bassa voce: «Ma davero questo m'ha chiesto er caffè de [s]cicoria?». Lei, serenamente, sorride della mia totale ignoranza sui costumi della provincia e mi fa: «Si, eh: qui si usa tantissimo». 

Insomma, in Valle la [s]cicoria se la bevono.
Non sanno quello che si perdono.

Caso Almasri, parla Lam Magok che ha denunciato il Governo per favoreggiamento


«La mia lotta è per i rifugiati, per i migranti e per gli italiani tutti. Lo stato non sta rispettando le regole e se succede è un danno per chiunque». A parlare è Lam Magok Biel Ruei: 32 anni, rifugiato politico proveniente dal Sud Sudan. È arrivato in Italia nel 2022 riuscendo a sopravvivere alla prigionia in un centro di detenzione a Tripoli (Libia): «l’ultima prigionia è durata complessivamente 9 mesi», di cui 6 trascorsi a Mitiga. «Ero in una delle cosiddette Almasri prisons [prigioni poste sotto il controllo di Almasri]». Per arrivare in Italia dal sud Sudan esiste un corridoio umanitario  che, però, s’interrompe: le persone finiscono così direttamente tra le braccia dei trafficanti e nei centri di detenzione in Libia. Un approdo non sicuro a tutti gli effetti ma con cui il Governo italiano deve fare i conti per far sì che possa dar seguito alla retorica della riduzione degli sbarchi. Mediaticamente funziona: le percentuali contano più delle vite umane in termini elettorali. È la spietatezza della realpolitik. Il caso dell’arresto e successivo rimpatrio del generale Osama Almasri («Capo della polizia giudiziaria di Tripoli») da parte del Governo italiano ha riacceso il dibattito politico sull’immigrazione e sui centri di detenzione in Libia, da cui proviene Lam e che abbiamo intervistato insieme ad Alice Basiglini dell’associazione Baobab (realtà che gli ha fornito supporto legale per la sua azione). Le parti sono venute a contatto nel 2021 a seguito dell’onda lunga delle proteste condotte dal movimento Refugees in Libya.
Quando Lam ha appreso della notizia dell’arresto di Almasri ha subito pensato che giustizia fosse fatta ma gli eventi non sono andati come avrebbe sperato e la fragile fiducia è immediatamente crollata: «è in quel momento che ho maturato la decisione di denunciare il governo», insieme a David Yambio, conosciuto durante una delle detenzioni.

La vicenda è ormai tristemente nota perlomeno da quando il 28 gennaio [2025] la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha diffuso il video messaggio in cui mostrava l’avviso di garanzia ricevuto e giunto anche «ai ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano» a seguito (sebbene Meloni avesse cautamente detto «presumo») «di una denuncia presentata dall'avvocato Luigi Li Gotti». 
A seguito di quell’episodio, giunge la denuncia di Lam: «L’Italia è un membro della Corte penale internazionale e questo significa che se c’è un mandato a cui non viene dato seguito c’è un problema evidente», afferma. «La ragione per cui denuncio – ha proseguito Lam Magok – è che io sono in Italia in quanto rifugiato e vittima delle torture subite in Libia da Osama Almasri» e la decisione del suo rimpatrio lo ha reso «doppiamente vittima». Lam sta combattendo questa battaglia perché «se il Governo non rispetta le regole non le rispetterà né per gli immigrati né per gli italiani» e lo dice da un punto di vista tutto peculiare, cioè essendo «rifugiato che sta vivendo in Italia», dunque sentendosi parte del Paese. 
La decisione assunta da Lam è stata totalmente d’iniziativa personale ma, con tutta evidenza, non poteva essere condotta da lui solo: «per avviare un procedimento del genere c’è bisogno di un ufficio legale, in questo caso messo a disposizione da Baobab» a cui si è rivolto chiedendo aiuto.
Quando chiediamo a Lam se la Libia sia un paese sicuro per chi arriva dal sud Sudan, lui non esita a rispondere laconicamente: «No, non lo è». «La Libia – prosegue – non è un paese sicuro» ma per arrivare a conoscere, capire e comprendere la situazione presente nel paese bisogna fare uno sforzo. Ci sono vari rappresentanti politici che si contendono il territorio divenuto estremamente granulare dopo la destituzione di Gheddafi: «quando si parla di Guardia costiera libica si potrebbe far riferimento a tre istituzioni diverse», rincara la dose Alice Basiglini. Milizie che si contendono il territorio, generali che sembrano sceriffi dei film spaghetti western: una situazione che sta mantenendosi nel caos generale molto più a lungo di quel che analisti ed esperti prospettavano. «Si tratta di un paese rarefatto – afferma la rappresentante di Baobab – in cui manca un potere centrale con cui confrontarsi ufficialmente e in cui c’è in atto uno scontro fra più parti le quali rappresentano organizzazioni (di fatto) criminali e non sappiamo a chi rispondono». «Le organizzazioni internazionali conoscono qual è la situazione sul terreno ma non danno notizie sulla situazione: c’è la guerra, ci sono le milizie e la situazione è insostenibile», afferma Lam Magok. Sanno ma cercano di ‘salvare il salvabile’ poiché avere una negoziazione con le autorità libiche è praticamente impossibile. Una strategia che potremmo chiamare di «riduzione del danno», sostiene Alice Basiglini. «È chiaro che si tratta di una situazione complicata che deriva dal loro status nonché dal meccanismo di finanziamento, nonostante sappiamo bene che i pochi corridoi umanitari in atto siano organizzati e operati da Unhcr (cioè l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati)». Ma il numero di persone che riesce a passare attraverso i corridoi di Unhcr è esiguo rispetto al totale che finisce tra le maglie dei trafficanti e la stessa presenza delle organizzazioni internazionali non implica – purtroppo – la garanzia della difesa dei diritti umani. Tutto il resto è tortura (e propaganda politica conseguente). 

Articolo pubblicato su L'Eco di Bergamo

PD-M5S? Questione di sangue, ma occhio alle trasfusioni

Le parole di Gaetano Pedullà, europarlamentare
del Movimento 5 Stelle, sono diventate un caso politico per la stabilità dell’alleanza delle opposizioni. Pina Picierno, vicepresidente dell’Europarlamento, nella giornata di mercoledì 19 febbraio [2025] ha rilasciato un intervista a Repubblica, le cui dichiarazione in essa contenute sono poi state contestate in diretta tv (su La7) dall’ex fondatore e direttore del quotidiano La notizia. Picierno sosteneva la palingenesi  «dell’asse giallo-verde», riferendosi alla nota alleanza che ha governato il Paese, salvo poi sconfessarla. A causa della sovrabbondanza
di informazioni che ingolfano i nostri smartphones, il video di Pedullà è noto ai più, meno le reazioni successive. O meglio, meno la situazione che sta alla base dello scontro.

Fratelli coltelli
Partito democratico e Movimento 5 stelle non sono mai andati d’accordo ma si sono riscoperti fratelli all’opposizione del governo Meloni. Ma se da una parte il Pd non ha fatto nulla affinché l’egemonia della destra scemasse, così da erodere consenso sociale (ed elettorale) al blocco alternativo
del quadripartito Fd’I-Fi-Lega-Noi moderati, il Movimento 5 stelle ha fatto di tutto per confondere le acque sulla propria natura portando (direttamente e indirettamente) l'acqua al mulino delle attuali forze di governo. Entrambi gli atteggiamenti hanno portato ad una mutazione così repentina dell’elettorato grillino il cui partito ora (lontanissimi i tempi dei Vday) si aggira cercando di raggiungere la doppia cifra in qualsiasi tornata elettorale, nonché delle proiezioni che vengono commissionate da tv e quotidiani. E se Pd e M5S sono fratelli, va ribadito che non c’è rapporto più conflittuale al mondo se non quello tra persone del medesimo sangue, pronti a rinfacciarsi di tutto e per tutto.

Sinistra?
Sangue, certo, ma con una sfumatura diversa: sebbene di un tipo simile, l’uno è positivo e l’altro negativo, con tutte le restrizioni del caso su trasfusioni e donazioni.
Alle prime elezioni europee a cui prese parte il Movimento, un sondaggio sul blog di Beppe Grillo chiedeva agli iscritti (era il giugno del 2014) di esprimersi sulla collocazione a Bruxelles/Strasburgo: erano riportati tutti i gruppi politici (Liberali dell’Alde, Conservatori dell’ECR, destra radicale di Efd) meno che quello del Gue, ovvero quello che raccoglie varie sigle di sinistra antiliberista (in alcuni casi anche radicalmente anticapitalista) d’Europa. La situazione si è totalmente capovolta nel giro

di due lustri. Non solo il M5S non è più collocabile nella destra all’interno dell’Europarlamento ma dalla precedente tornata elettorale siede nel gruppo della sinistra radicale, non senza perplessità da parte
degli altri partiti e movimenti europei che popolano quell’area.

Eppure Gaetano Pedullà, già direttore de La notizia, che in gioventù orbitava tra Cisl e Democrazia cristiana, coautore di un volume scritto insieme a Renato Altissimo (già segretario del Partito liberale italiano) con prefazione di Giuliano Ferrara, ora è rappresentante dell’unica forza politica italiana collocabile a sinistra a Bruxelles/Strasburgo. Chissà se i dirigenti del Movimento 5 Stelle si sono accorti della loro collocazione politica: l’abuso del cinismo nella tattica politica porta, inevitabilmente, ad una rovinosa mancanza d’identità. Nonostante quel che dica Giuseppe Conte, la crisi è già ben dentro il corpo elettorale e militante (c’è mai stato, strictu sensu?) del partito.

Temperatura impazzita
La tragedia, che in seguito si presenta sempre come farsa secondo l’adagio marxiano, è che quel gruppo parlamentare ha tra i fondatori anche il Partito della sinistra europea, la cui figura di riferimento in Italia è il Partito della rifondazione comunista. L’organizzazione ha da poco terminato i lavori del congresso nazionale e ha consegnato la fotografia di una realtà spaccata letteralmente a metà tra Paolo Ferrero e Maurizio Acerbo (attuale segretario). C’è chi, tra le due parti in lotta, vorrebbe arrivare a dialogare con il Movimento 5 Stelle (i vicini a Ferrero) perché ora siede nel gruppo della left: constringerli a fargli fare la sinistra, insomma, parafrasando l'incoraggiamento morettiano a D'Alema («dì qualcosa
di sinistra!»).
Ma la sinistra che procede per costrizione finisce, seppur lentamente, col trasformarsi in destra: citofonare Marco Rizzo.

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale il 21.02.2025

Evo Morales sostiene di essere candidabile, la legge dice di no.

Manifestante pro-Evo nel corso di una manifestazione in Ecuador [2013] - fonte Wikimedia commons

«Siamo pienamente abilitati a presentarci alle elezioni. È impressionante il sostegno che stiamo ricevendo: sono sicuro che vinceremo le elezioni col 60%!». A parlare alla ristretta cerchia di militanti giunti dalle più remote province del paese, è Evo Morales, già presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia e da più di due anni diretto avversario dell’attuale presidente Luis Lucho Arce Catacora. Non ci sarebbe niente di strano in quest’affermazione se non fosse che Evo e Lucho fanno parte, perlomeno ancora formalmente, dello stesso partito: il Movimento al socialismo-Strumento per la sovranità dei popoli (Mas-Ipsp).

Da due anni Evo sta spaccando il partito giungendo alla creazione di quel che è stato definito un Mas-parallelo rispetto a quello istituzionale e riconosciuto giuridicamente. In queste settimane, però, Morales è messo alle strette dalla giustizia: il tribunale di Tarija lo ha accusato di violenza sessuale su di una minorenne, fatto che risalirebbe attorno a due lustri fa. L’ex presidente non si sta presentando in tribunale, nonostante le convocazioni, e su di lui ora pende un mandato di cattura: obbligato al domicilio presso la sua residenza, non può uscire dalla regione del Chiapare in cui si sente protetto da settori politici, sindacali e dell’associazionismo legati alla realtà dei cocaleros che pure presiede.

Un outsider?
Il personaggio vicino a Evo che sta emergendo in questa circostanza è Andronico Rodriguez, giovane esponente del Mas-Ipsp, vicepresidente del Senato, è sostenitore della fazione anti Lucho. È lui a rappresentare il volto nuovo della fazione evista nonché la possibile cerniera tra le due correnti politiche. Tuttavia, sebbene la stampa boliviana abbia diffuso notizie che prevederebbero un possibile accordo di pacificazione nel partito prevedendo Arce candidato alla presidenza e Rodriguez come vice, lo stesso senatore si è detto indisponibile al tandem. «Ci sono state speculazioni e informazioni false che hanno attribuito il mio nome addirittura come candidato alla presidenza», ha dichiarato Andronico Rodriguez l'8 febbraio [2025] in un comizio dei sostenitori di Morales tenutosi nella città di Cochabamba, «il movimento popolare che si è unito attorno al nome di Evo Morales lo sosterrà [ancora] alla presidenza in vista delle prossime elezioni». Come a volersi smarcare dalle ricostruzioni della stampa, ha ribadito il proprio sostegno all'ex presidente. Chissà, però, che non succeda il contrario: in fondo alcune dichiarazioni servono in determinate circostanze specifiche ma lasciano il tempo che trovano nel lungo periodo. Succede così anche in Italia, d'altra parte.

Divisioni interne ed esterne
«È evidente che ci sia uno scontro tra gruppi di potere. Poche persone vorrebbero far naufragare il percorso che fece nascere lo strumento politico. Non so, davvero, come mai Evo Morales voglia tornare al potere costi quel che costi, giungendo a voler dividere e spaccare il Mas, così come le organizzazioni sociali che ne fanno parte», ha dichiarato raggiunta al telefono Julia Damiana Ramos Sanchez, vice presidente della direzione nazionale del Mas-Ipsp e direttrice esecutiva delle Bartolinas (l’organizzazione femminile del partito) della regione di Tarija. Già deputata nel primo esecutivo Morales, successivamente ministra, Ramos Sanchez conosce bene quel che orbita socialmente e politicamente attorno all’ex presidente: «C’è stato un referendum nel 2016» – ha aggiunto - «e il risultato ha espresso chiaramente come Evo non possa continuare ad essere candidato all’infinito, tanto più che non può farlo legalmente data la Costituzione». Costituzione che lo stesso Morales modificò una volta al potere, così come mutò anche lo status giuridico della Bolivia divenuto «Stato Plurinazionale» al fine di valorizzare ogni componente indigena e originaria del paese.

Ma questo ora a Evo non importa più.
Vuole tornare al potere a tutti i costi e per farlo incita parti di organizzazioni sociali a lui fedeli di bloccare le principali strade del paese, di scendere in piazza quasi giornalmente, di diffondere notizie false tramite Radio Kawsachun Coca. Da settimane militanti a lui vicini stanno raggiungendo il suo domicilio, riunendosi con lui presso i locali della Seis federaciones, per «dimostrargli l’affetto e il sostegno politico». Una settimana fa una porzione consistente dei presidenti delle municipalità del dipartimento della capitale politica (La Paz) hanno riconosciuto Evo come candidato alla presidenza alle prossime elezioni che si terranno in agosto. Per dare un’idea dello scontro in atto: il 22 gennaio dello scorso anno i blocchi stradali messi in atto dai sostenitori dell’ex presidente sono durati più di due mesi e avevano paralizzato le principali arterie autostradali. Secondo l'Istituto boliviano per il commercio estero, in quei giorni il paese «perse circa 75 milioni di dollari al giorno». Un dato nefasto per la Bolivia che sta affrontando una crisi economica che si riflette in ogni ambito della vita delle persone: produttiva e sociale.

«In Bolivia c’era crisi ieri, c’è oggi e ci sarà domani: non è una novità. Evo sta utilizzando la situazione per scopi politici e soprattutto per coprire le accuse pendenti nei suoi confronti», ha spiegato da El Alto, alla periferia del mondo, don Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita. Bergamasco di Telgate, missionario laico, è in Bolivia dal 1977 ma sacerdote dal 2023, dopo aver ripreso gli studi di teologia interrotti a seguito della vita matrimoniale con Bertha Blanco (tra le fondatrici del Mas-Ipsp) venuta a mancare nel 2020 a causa del Covid.

La violenza è ovunque
L’accusa più grave a cui Morales deve far fronte è quella di abuso sessuale di una minorenne (come s’è accennato sopra): il tribunale della città di Tarija ha sancito che non può allontanarsi dal paese ed è stato anche emanato un ordine di cattura nei suoi confronti. Sollecitato per tre volte a presentarsi in tribunale, Morales ha sempre disertato l’aula. «Il punto è che Evo è dipendente dall’abuso di donne e di ragazze minorenni in termini di tratta e traffico», tuona Giavarini, che di questi argomenti ne sa qualcosa dato il suo impegno quotidiano con la struttura che dirige.

Il quotidiano boliviano «La Razon», che pure sarebbe vicino alle istanze del Mas-Ipsp, nell’edizione di lunedì 3 febbraio [2025] ha pubblicato numeri piuttosto eloquenti riguardo lo sfruttamento minorile nel paese: «In 11 anni si sono registrati 6.001 matrimoni tra uomini e ragazze minorenni la cui età si aggira tra i 16 e i 17 anni». Ancora: «nel 6,06% dei casi registrati l’età dello sposo è fino a tre volte superiore a quella della sposa». Una situazione evidentemente esplosiva che rappresenta, purtroppo, un costume diffusissimo nel paese.

«Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi», afferma Giavarini «manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità e non vengono veicolati messaggi ed esempi positivi da parte delle istituzioni (che siano governative o scoladtiche); si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile solo come strumento di piacere maschile. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità e uguaglianza: qui a El Alto le ragazzine popolano i locali notturni».

La situazione, dunque, sembra non possa giungere ad una soluzione rapida. Anzi. Lo scontro tra fazioni del Mas-Ipsp, così come quello delle organizzazioni sociali ad esso legate, parrebbe essere destinato ad una recrudescenza sempre maggiore: sulle elezioni che si terranno ad agosto aleggia lo spettro di nuovi scontri sociali, com’è avvenuto per il tentato golpe dello scorso anno e per la Marcia per la vita a cui hanno partecipato i sostenitori di Morales il 14 gennaio [2025] terminata in scontri, lanci di molotov da parte dei manifestanti e lacrimogeni da parte della forza pubblica. La Bolivia, secondo paese al mondo per colpi di stato (35, dietro al Cile che ne vanta 36), non ha ancora trovato una stabilità nella democrazia.


Pubblicato su Pressenza il 17 febbraio 2025

Il Brighela cade all'ultimo secondo, la Borgata Gordiani perde all'83' «e neanch'io mi sento troppo bene».

Che domenica bestiale. Nel senso di «bestia: peggio di così!». Per sentire meno la mancanza della Borgata Gordiani sono andato, finalmente, a vedere l'Athletic Brighela. La partita si preannunciava come una leccornia per i cultori del nicchismo calcistico: campionato di Terza categoria bergamasca (girone B), Brighela al nono posto e Malpensata Campagnola al terzultimo. Entrambe le squadre detengono il primato delle difese peggiori del girone. Era una partita da non perdere.

Arrivo in macchina (ignaro del fatto che avrei potuto raggiungere il campo anche in bici ma non fa niente, anzi: fa negot [*]) e parcheggio esattamente dietro una delle due porte dell'impianto intitolato a Geza Kertesz. Spengo il motore, esco e chiudo l'abitacolo dando, per la frazione di secondo necessaria, le spalle alla macchina. In quel momento sento un tonfo sordo: un pallone aveva colpito l'auto vicina alla mia. Una nuovissima Mercedes, parcheggiata a spina di pesce vicino [**] alla mia Punto, aveva ora una piccolissima rientranza sul tetto. Rincorro il pallone e glielo ridò ai giocatori del Malpensata che si stavano riscaldando e, mentre compio il "gesto atletico", noto che la rete è tutta bucherellata all'altezza della traversa, come spesso accade nei campi di categorie basse del dilettantismo. Riapro l'abitacolo, riaccendo il motore, sposto la macchina. 

[*] Lezione numero 1 (lessiù numer ü): niente si dice negot. Fa negot letteralmente: non fa niente. Talvolta l'espressione è usata come locuzione per indicare coloro che sono inoccupati (i fa negot) vicino alla parola lazarù.
[**] Lezione numero 2 (lessiù numer du): vicino si dice in parte.

Primo tempo
Quindici minuti dopo il fischio dell'arbitro, gli spettatori sui gradoni erano nove e un cane. Poi sono cominciate ad arrivare altre persone al ritmo di una ogni minuto: alla mezz'ora se ne contavano una trentina. Dettagli a parte: il primo tempo è stato giocato piuttosto bene da entrambe le compagini. Dopo venti secondi il Brighela riesce a rimediare un calcio di punizione dalla mediana: Monti (Gionata) vuol fare subito passare in vantaggio i suoi e cerca di togliere la ragnatela dall'incrocio dei pali ma Diabate, con un gran colpo di reni, dice no e devia in angolo. Nei primi venti minuti della prima frazione di gioco il Brighela soffre l'iniziativa del Malpensata Campagnola e prova a chiudersi, riuscendoci ordinatamente. 
Al 26', su sviluppo di posizione dalla destra, Bonfatti sfrutta la disattenzione dell'estremo difensore locale Diabate che prova l'uscita chiamandola a gran voce: stacca col piede destro, salta, chiama la palla ma nel tentare di prenderla non l'afferra e il pallone scivola alle sue spalle. Bonfatti sorprende i difensori locali e insacca il vantaggio rossonero. Il Malpensata Campagnola subisce il colpo e non sembra reagire nei minuti successivi: al 31' un'altra punizione del Brighela suggerisce un colpo di testa dell'11 Ndenneh che termina tra le braccia del portiere. Al 42' è ancora Brighela nel rettangolo di gioco di Campagnola a farla da padrone: rimessa da fondo campo di Sorzi a pescare l'attacco rossonero, Ndenneh riceve il pallone e se ne va lasciando sul posto due difensori locali ma, una volta giunto a tu per tu col portiere, sbaglia angolazione e il tiro esce spegnendosi sul fondo. Basta una distrazione del Brighela e il Malpensata pareggia. Allo scadere del primo tempo, Landoulsi è lasciato colpevolmente solo all'altezza della linea mediana avversaria: ha tempo di ricevere il pallone, spostarlo sul piede buono e caricare il destro, riuscendo a trafiggere Sorzi.

Secondo tempo
Le squadre si sfilacciano fin dal primo minuto della ripresa: il Malpensata Campagnola prova a spingere già al 3' ma il tentativo di Camacho trova Sorzi reattivo nel difendere il risultato. Ndenneh si intende bene Fiumana ma ai rossoneri manca la lucidità per mettere la palla in rete e raddoppiare il risultato. Al quarto d'ora il Malpensata prova ancora a impensierire i rossoneri i quali, ancora una volta, riescono a resistere agli attacchi delle ali locali (Anieh e Landoulsi). Dal 23' al termine della partita si hanno continui capovolgimenti di fronte: Ndenneh potrebbe, cedendo un po' d'egoismo in favore d'altruismo di squadra, servire qualche compagno in fase d'attacco (che lo seguiva smarcandosi pazientemente) ma non è questa la domenica per farlo, evidentemente. L'ultima azione del Brighela è ancora su punizione, al 45'. Batte Monti (Gionata) ma stavolta non c'è l'incornata di Bonfatti. C'è però, nell'ultimo respiro della partita, un angolo (il settimo) per i padroni di casa. Cross spiovente, gran mischia in area e Fabbris che insacca prima dei compagni, giusto una manciata di secondi prima del fischio dell'arbitro. 
Il Malpensata Campagnola conquista tre punti pesantissimi non già ai fini della classifica, dal momento che la Dinamo Popieluszko dista ancora quattro lunghezze, ma nei confronti del Brighela, alle prese con una serie di sconfitte che dura dal 15 dicembre. 

Epilogo
Torno alla macchina, parcheggiata ben lontano dalle potenziali svirgolate e controllo whatsapp: la Borgata ha perso 0-1 (in casa) contro il Casal Bernocchi. «Maledetti ostiensi!», penso, «chissà se ostiense viene percepito come un insulto dagli abitanti di Casal Bernocchi».
Oggi spero di sì.

Il tabellino della diciassettesima giornata di campionato | Terza categoria bergamasca | Girone B

MALPENSATA CAMPAGNOLA - ATHLETIC BRIGHELA 2-1

MARCATORI: 26'pt Bonfatti (AB), 45'pt Landoulsi (MC), 47'st Fabbris (MC) 

MALPENSATA CAMPAGNOLA: Diabate, Galanti (38'st Prisacariu), Husman, Fabris, Dramolli (19'st Mologni), Sadiakhou, Landoulsi, Forlani (17'st Mihitang),  Camacho, Malanchini (29'st Hamdi), Anieh. PANCHINA: Ndiaye, Gargantini, Gnoato. ALLENATORE: Remberto Gernot, Vargas Mendez.

ATHLETIC BRIGHELA: Sorzi, Maini, Ferri (29'st Giuliani), Monti G., Casotti, Bonfatti, Amato (32'st Ghirardo), Fiumana (1'st Monti A.), Innocenti, Riva, Jobe PANCHINA: Dergal, Cisani, Grigoletto, Addato, Morghen, Spada. ALLENATORE: Roberto Carissimi

ARBITRO: Stefano Medde (Bergamo)

NOTE: Ammmoniti: 34'pt Forlani (MC), 34'pt 2 (AB), 42'pt Ndenneh (AB), 25'st Galante (MC), 35'st Sorzi (AB), 37'st Diabate (MC), 42' Husman (MC). Angoli: Malpensata 7 - 7 Athletic Brighela. Recupero: 2'pt - 5'st.

Meloni a scuola da Berlusconi: «magistratura politicizzata»

«Contro il governo agiscono magistrati politicizzati che cercano di colpire chi non è schierato con loro». No, non si tratta di Silvio Berlusconi dall’oltretomba: a parlare è la Presidente del consiglio dei ministri Giorgia Meloni, intervenuta da remoto nell’ambito dei dibattiti organizzati nella rassegna di Nicola Porro denominata La ripartenza. Quindici minuti di collegamento meloniano a-tutto-campo, quindici minuti di Meloni che arringa platea e ospiti non certamente ostili alla sua linea di governo, nonché alla sua organizzazione politica. La propaganda non deve mai interrompersi: quando succede, le maggioranze traballano. È quello che stava per succedere anche al governo di centrodestra.

Avvisi di garanzia a parte
La vicenda del rimpatrio di Najeem Osama Almasri, il generale libico, ha provato ad essere un cortocircuito per Meloni e ministri (Nordio e Mantovano nello specifico). La storia è ormai arci nota e raccontata da più parti, tante quante le voci del centrodestra (nonché di articoli della stampa amica) che si sono levate in difesa dell’esecutivo. Proprio questa vicenda ha fatto sì che Meloni potesse sfruttare a suo vantaggio la situazione potenzialmente negativa dopo la ricezione dell’«atto voluto», come lei stessa lo ha definito, dell’avviso di garanzia «inviato dal Procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi» a seguito di un «esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti». Li Gotti, definito da Meloni «ex politico di sinistra e molto vicino a Romano Prodi» in realtà è stato deputato sia del Movimento Sociale che di Alleanza Nazionale e solo successivamente, nel corso dell’exploit elettorale dell’Italia dei Valori, annoverato nelle fila del dipietrismo. Secondo Mario Sechi: «il premier e i ministri indagati in questa vicenda non sono un fatto giudiziario ma una mostruosità politica» a cui gli fa eco Fabrizio Cicchitto (oggi presidente dell’associazione Riformismo e libertà): «è peggio che ai tempi di Berlusconi: non appena si approva la separazione delle carriere, ecco che le toghe partono all’attacco».

Referendum bocciato
Non importa davvero al “legislatore meloniano” che tutti i referendum a riguardo siano stati bocciati dagli elettori nel corso dell’ultimo decennio, non da ultimo il tentativo congiunto dei cinque quesiti proposti dal comitato promotore organizzato da Partito radicale transnazionale transpartito (ma non Radicali italiani) di Maurizio Turco e Lega di Matteo Salvini. Il clima tra Governo e Associazione nazionale magistrati, ad ogni modo, è sempre più glaciale.

Apri tutte le porte
Giudizi personali e mostruosità a parte, nel comizio (nei fatti lo era) a La ripartenza, la Presidente ha aperto tutte le porte possibili, metaforicamente parlando, al fine di evitare che lei, Nordio e Mantovano potessero passare dalla parte del torto agli occhi del corpo elettorale. Soggetto che deve essere sempre sottoposto a sollecitazioni, pena il segno meno nei sondaggi e la perdita di credibilità: ossessioni della politica al tempo di Instagram e Tiktok, così come quella della trasformazione dell’opinione pubblica in curva da stadio. «Finché la maggioranza è con me, non intendo mollare», ha dichiarato Meloni. La scuola berlusconiana (e di recente trumpiana) ha portato i suoi frutti: la presidente interpreta il medesimo ruolo dell’ex Cavaliere negli affondi contro la magistratura politicizzata per far sì che la maggioranza non scricchioli. O almeno non più di tanto.

La vittoria di Pirro dell’opposizione
E se l’opposizione continua a chiedere al governo di riferire in Parlamento sul caso Almasri, nelle Camere sempre più svuotate di senso politico e istituzionale a causa del continuo ricorso ai decreti legge e ai cosiddetti decreti minotauro, il Partito democratico sembra gioire per un fatto. Una vittoria di Pirro, con tutta evidenza. Meloni, nel corso delle celebrazioni in commemorazione del Giorno della Memoria, ha dichiarato che lo sterminio di ebrei durante la seconda guerra mondiale fosse condotto con inaudita ferocia «dal regime hitleriano» che «in Italia trovò anche la complicità di quello fascista, attraverso l’infamia delle leggi razziali e il coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle deportazioni». I democratici, che tanto speravano nella dichiarazione di antifascismo da parte di Giorgia Meloni, potranno felicitarsi del risultato raggiunto. La via da per immaginare (e costruire) un’alternativa di sistema è troppo difficile da intraprendere: tanto vale accontentarsi delle ghiande e lasciar perdere le ali.

Articolo pubblicato su Atlante editoriale il 1 febbraio 2025 https://www.atlanteditoriale.com/meloni-a-scuola-da-berlusconi-magistratura-politicizzata/

A nessuno importa


Se c'è una cosa che Sostiene Pereira ha insegnato a generazioni di lettori (oltre alla libertà, alla resistenza e alla consapevolezza di sé in un mare di repressione e ostilità) questa è sicuramente l'importanza della scrittura di necrologi anticipati.
Monteiro Rossi, d'altra parte, viene ingaggiato così da Pereira: il giovane aveva pubblicato un saggio sulla morte e il vecchio giornalista ne era rimasto folgorato. Dunque, l'idea: affidare al giovane Monteiro Rossi la scrittura di necrologi anticipati, così che la pagina culturale del Lisboa potesse essere pronta alla giusta commemorazione di questo o quel personaggio illustre. 

Il quotidiano l'Unità, rilevato dalla Romeo Editore, diretto da Piero Sansonetti e che porta il nome dello storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci, non deve aver compreso pienamente la lezione riguardo la preparazione dei necrologi esposta da Pereira nel romanzo di Tabucchi.

Il fatto è il seguente.
Il 29 gennaio [2025] è venuto a mancare Fiore de Rienzo, padre di Libero de Rienzo. Il quotidiano diretto da Sansonetti ne dà conto sul suo sito con un pezzo redazionale (anche se probabilmente scritto da uno dei tanti sfruttati del giornalismo italiano). Quasi al termine dell'articolo si legge che Libero De Rienzo in Fortapàsc aveva interpretato «il giornalista ucciso dalla camorra Alessandro Siani».

Questo lo scatto dell'articolo in questione. Fermo immagine del 30.1.25 alle ore 15:49.


Potremmo dire che la redazione de l'Unità ha preso un granchio e certamente è così. 
Ma l'articolo è visibile sul sito del quotidiano da più di 24 ore e nessuno ha modificato il nome del comico napoletano con quello di Giancarlo Siani, il giornalista ucciso dalla camorra. 
Nessuno della redazione ha corretto perché, in fondo, nessuno si preoccupa di informare correttamente, tanto meno di ammettere pubblicamente un proprio grossolano errore.

Un errore così fa male tre volte: all'informazione, la cui cartella clinica parrebbe essere intrisa di valori negativi; alla storia d'Italia, perché confondere un comico regionale con un giornalista ucciso dalla camorra non è solo mancanza di cura e accuratezza per la realizzazione del prodotto giornalistico (il cui risultato si misura in sciatteria) ma anche mancanza di cultura. Infine fa male a l'Unità: perché in questo caso non vale il discorso dell'errore indipendentemente dal nome che porta il giornale: qui il nome ha un suo peso specifico ed errori come questo sono inammissibili. Specie se non corretti.
Ma a nessuno è importato di correggerlo e nessuno si è sentito in dovere di scusarsi per quanto fatto. Come se la notizia in sé fosse una di quelle che si danno per comparire sul flusso cooptato da Google News
Una di quelle a cui nessuno bada.

Bolivia, due parti in lotta per uno stesso partito.

Centinaia di persone riversatesi in Piazza Murillo, là dove si trova Palacio Quemado (il palazzo del governo boliviano), gridano improperi al «governo traditore» cercando di forzare il blocco della polizia. È il 14 gennaio [2025] e la dimostrazione di piazza chiede di consegnare una «petizione popolare contro l’aumento dei prezzi degli alimenti di base», per denunciare la «mancanza di carburante nella gran parte delle stazioni di servizio del paese» e chiedendo le dimissioni del governo di Luis Lucho Arce Catacora, esponente del Movimento al socialismo-Strumento per la sovranità dei popoli (Mas-Ipsp). Gli animi si surriscaldano: manifestanti e polizia vengono a contatto. La manifestazione viene così sciolta con l’utilizzo della forza.
È la Marcia per la vita per cui i manifestanti hanno percorso 85 chilometri a piedi dalla città di Patacamaya a La Paz: sembrerebbe una ordinaria (benché forte) dimostrazione di contestazione da parte dell’opposizione a Luis Arce. Ma l’opposizione non c’entra davvero: i manifestanti appartengono al medesimo partito del Presidente. In Piazza Murillo c’erano i fedelissimi di Evo Morales, già presidente boliviano e figura di spicco del Mas-Ipsp. Due parti in lotta per uno stesso partito. Entrambi ne rivendicano il nome, la storia e la legittimità. 

«È evidente che ci sia uno scontro tra gruppi di potere. Poche persone vorrebbero far naufragare il percorso che fece nascere lo strumento politico. Non so, davvero, come mai Evo Morales voglia tornare al potere costi quel che costi, giungendo a voler dividere e spaccare il Mas, così come le organizzazioni sociali che ne fanno parte», dichiara a «L’Eco di Bergamo» Julia Damiana Ramon Sanchez, vice presidente della direzione nazionale del Mas-Ipsp e direttrice esecutiva delle Bartolinas (l’organizzazione femminile del partito) della regione di Tarija. Già deputata nel primo esecutivo Morales, successivamente ministra, Ramon Sanchez conosce bene quel che orbita socialmente e politicamente attorno all’ex presidente: «C’è stato un referendum nel 2016» – aggiunge Ramon Sanchez - «e il risultato ha espresso chiaramente come Evo non possa continuare ad essere candidato all’infinito, tanto più che non può farlo legalmente data la Costituzione». Costituzione che lo stesso Morales modificò una volta al potere, così come mutò anche lo status giuridico della Bolivia divenuto «Stato Plurinazionale» al fine di valorizzare ogni componente indigena e originaria del paese.
Ma questo ora a Evo non importa più.
Vuole tornare al potere a tutti i costi e per farlo incita parti di organizzazioni sociali a lui fedeli di bloccare le principali strade del paese, di scendere in piazza quasi giornalmente, di diffondere notizie false tramite un’emittente radiofonica a lui vicina (Radio Kawsachun Coca). Per dare un’idea dello scontro: il 22 gennaio dello scorso anno i blocchi stradali messi in atto dai sostenitori dell’ex presidente erano durati più di un mese e avevano paralizzato le principali arterie autostradali. Secondo l'Istituto boliviano per il commercio estero, in quei giorni il paese «perse circa 75 milioni di dollari al giorno». Un dato nefasto per la Bolivia che sta affrontando una crisi economica che si riflette in ogni ambito della vita delle persone: produttiva e sociale.
«In Bolivia c’era crisi ieri, c’è oggi e ci sarà domani: non è una novità. Evo sta utilizzando la situazione per scopi politici e soprattutto per coprire le accuse pendenti nei suoi confronti», spiega a «L’Eco di Bergamo» da El Alto, alla periferia del mondo, don Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita. Bergamasco di Telgate, missionario laico, è in Bolivia dal 1977 ma sacerdote dal 2023, dopo aver ripreso gli studi di teologia interrotti a seguito della vita matrimoniale con Bertha Blanco (tra le fondatrici del Mas-Ipsp) venuta a mancare nel 2020 a causa del Covid. L’accusa più grave a cui Morales deve far fronte è quella di abuso sessuale di una minorenne (caso avvenuto due lustri fa): il tribunale della città di Tarija ha sancito che non può allontanarsi dal paese ed è stato anche emanato un ordine di cattura nei suoi confronti. Sollecitato per tre volte a presentarsi in tribunale, Morales ha sempre disertato l’aula. 

«Il punto è che Evo è dipendente dall’abuso di donne e di ragazze minorenni in termini di tratta e traffico», tuona Giavarini, che di questi argomenti ne sa qualcosa dato il suo impegno quotidiano con la struttura che dirige. Un costume, purtroppo, diffusissimo nel Paese: «Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi», afferma Giavarini «manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità e non vengono veicolati messaggi ed esempi positivi da parte delle istituzioni (che siano governative o scolastiche); si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile solo come strumento di piacere maschile. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità e uguaglianza: qui a El Alto le ragazzine popolano i locali notturni»

La situazione, dunque, sembra non possa giungere ad una soluzione rapida. Anzi. Lo scontro tra fazioni del Mas-Ipsp, così come quello delle organizzazioni sociali ad esso legate, parrebbe essere destinato ad una recrudescenza sempre maggiore.
La Bolivia, secondo paese al mondo per colpi di stato (35, dietro al Cile che ne vanta 36), si appresta a celebrare il giorno della nascita dello Stato plurinazionale (22 gennaio 2009) in un clima più che teso. Dopo sedici anni da quel giorno, il paese non ha ancora trovato una stabilità nella democrazia.


Articolo pubblicato su L'eco di Bergamo del 2 febbraio 2025

Una scuola su misura del mercato del lavoro e dei privati - [Atlante Editoriale]

Foto di Nathan Dumlao su Unsplash

Termine degli studi dopo quattro anni per tutti gli indirizzi e cambio di nomenclatura anche per gli istituti tecnici. Queste parrebbero essere alcune tra le modifiche del Gruppo di lavoro diretto dal prof. Giuseppe Bertagna: il documento, diffuso dalla Flc Cgil, è «risalente ai primi mesi del 2023» ed è stato «redatto da quattordici esperti» coordinati dal docente sopra citato. La relazione finale del Gruppo di lavoro è stata diffusa dal sindacato ma si tratta di un file pdf composto da fogli scansionati senza indicazione di data, firme e attestazioni che possano facilitare la determinazione di documento autentico: «appare strano – dicono dal sindacato – che di questo gruppo di lavoro non si sia avuta alcuna notizia, né pubblicazione di decreto istitutivo, come diversamente era accaduto nel 2001». Ma il governo Meloni non è nuovo a sorprese o a rotture di schemi istituzionali: d’altronde giungere ad un presidenzialismo de facto parrebbe essere la mossa della coalizione di centrodestra per poterlo introdurre anche de iure, andando oltre i progetti dei governi del trentennio trascorso.

Tutti licei, un anno in meno a scuola.
Il percorso scolastico quadriennale per tutti gli indirizzi di secondaria di secondo grado (cioè le superiori) parrebbe essere la bussola del documento della cosiddetta commissione Bertagna, così come sembrerebbe essere tornato in voga il cambio di denominazione degli istituti tecnici e dei professionali. Il percorso liceale si dividerebbe così in: Liceo con opzione classica o scientifica; Liceo tecnologico con tre opzioni (ICT, meccatronico e chimico-industriale) in accordo con il Ministero del Lavoro, le Regioni e le Province; Liceo Professionale o di Istruzione e Formazione Professionale con tre opzioni (sociosanitario, meccanico e alberghiero-ristorazione) finalizzato a ristrutturare il rapporto tra Istruzione professionale statale e Istruzione e Formazione Professionale regionale.

La proposta di legge c’è già.
Il lavoro della commissione va a posizionarsi in sintonia con la proposta di legge 1739 depositata ad aprile 2024 ma ancora non incardinata nell’iter parlamentare. Partita dalla deputata leghista Giovanna Miele, sottoscritta da altri quattro colleghi di gruppo, la proposta del partito di Matteo Salvini si sostanzierebbe nella revisione quadriennale di ogni percorso scolastico «eventualmente provvedendo all’adeguamento e alla rimodulazione del calendario scolastico annuale e dell’orario settimanale delle lezioni». Una formula davvero molto generica che lascia spazio a molteplici interpretazioni sulla strutturazione dei percorsi scolastici della secondaria di secondo grado. Tanto nel documento del gruppo di lavoro coordinato dal prof. Bertagna quanto nella proposta di legge da parte di componenti del gruppo della Lega, il nord della bussola di questi interventi parrebbe essere un adeguamento del sistema scolastico al mercato del lavoro. La scuola andrebbe ad assumere un ruolo sempre più ancillare, come abbiamo già avuto modo di testimoniare. "Ce lo chiede l’Europa": è il solito mantra che torna. C’è troppo divario tra l’Italia e gli altri paesi europei, stando al testo della proposta di legge Miele: «[la pdl] punta a ridurre il netto divario fra il nostro Paese e il resto d'Europa che permette di far uscire i ragazzi dalle aule a diciotto anni, come avviene da tempo, praticamente in metà dei Paesi dell'Unione europea (tredici su ventisette), tra cui la Spagna, la Francia, il Portogallo, l'Ungheria e la Romania, nonché nel Regno Unito».

E docenti?
Il mondo della scuola però ha già espresso il proprio diniego alla sperimentazione quadriennale nel corso del precedente anno scolastico: solo 171 istituti «al termine dell’istruttoria condotta dalla commissione tecnica del Ministero dell’Istruzione e del Merito sulle candidature pervenute, sono stati ammessi alla sperimentazione della nuova istruzione tecnica e professionale». Dirigenti scolastici e docenti hanno però già rigettato la sperimentazione negli organi collegiali preposti. Senza contare che i percorsi scolastici quadriennali porterebbero ad un evidente (e logico, verrebbe da dire) taglio del personale, nonché al dimensionamento di numerosi istituti scolastici. Su questo la proposta di legge tace. Eppure sarà inevitabile un taglio lineare a tutto il personale scolastico: i due concorsi fatti partire con i finanziamenti del Pnrr sembrano andare nella direzione opposta (dunque assunzioni) ma i numeri parlano di immissioni in ruolo consistenti come gocce in un oceano di aridità e di precarietà. Precarietà in cui, invece, continuano a navigare migliaia di precari in tutta Italia tra cui ci sono anche gli idonei del concorso Pnrr1 che hanno superato le prove scritte e orali ma sono stati respinti all'uscio.

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/liceo-quadriennale-le-proposte-silenziose-del-governo/

Calvino e i bergamaschi (in una classe bergamasca)

«Prófe, scusi, ma a lei non sembra che il libro che ci ha fatto leggere [Il barone rampante] sia un po' razzista nei confronti dei bergamaschi?».
La domanda giunge tagliente e a sorpresa dopo una buona mezz'ora trascorsa ad analizzare parti del testo del Barone rampante. A inizio novembre ho assegnato la lettura del romanzo di Italo Calvino: al rientro dalle vacanze di Natale ne avremmo parlato in classe. 
«Razzista? In che senso?», rispondo candidamente io. 
«Eh, potaprófe, adesso le prendo il passo: ce l'ho davanti agli occhi ma non riesco a ritrovarlo». Subito lo studente apre il libro e inizia a mettersi alla ricerca del passo incriminato. È questo qui (quasi all'inizio del romanzo):

«[...] I carbonai, sullo spiazzo battuto di terra cenerina, erano i più numerosi. Urlavano «Hura! Hota!» [sopra! sotto!] perché erano gente bergamasca e non la si capiva nel parlare. Erano i più forti e chiusi e legati tra loro: una corporazione che si propagava in tutti i boschi, con parentele e legami e liti. Cosimo alle volte faceva da tramite tra un gruppo e l’altro, dava notizie, veniva incaricato di commissioni.
- M’hanno detto quelli di sotto la Rovere Rossa di dirvi che Hanfa la Hapa Hota l' Hoc! [porta la zappa sotto il ciocco]
- Rispondigli che Hegn Hobet Ho de Hot! [vieni subito giù di sotto]
Lui teneva a mente i misteriosi suoni aspirati, e cercava di ripeterli, come cercava di ripetere gli zirli degli uccelli che lo svegliavano il mattino. [...]».

Finisce di leggerlo ad alta voce: la classe ascolta, qualcuno ridacchia per la sua pronuncia stentata dello pseudobergamasco di Calvino, poi mi rivolge nuovamente la parola: «a lei non le sembra un po' razzista?». Qualche compagno è d'accordo, qualcun altro no, alcune ragazze provenienti dall'alta valle dicono (mentre sorridono) che «assolutamente non è razzista: parliamo proprio così!». Provo a fargli capire che si tratta di un romanzo il cui protagonista è un ragazzo della loro età o di poco più grande e che la scrittura di Calvino gioca, spesso, anche sul carattere iperbolico dei ricordi di infanzia o, comunque, della vita vissuta. 

Rilancia: «ho capito, prófe, ma a me sembra ancora razzista». Contrattacco anch'io: Calvino non era (né può essere considerato) razzista, anzi. Voleva farci riflettere riguardo il nostro approccio nei confronti dell'altro: non c'era insulto nelle parole dell'autore quanto piuttosto stupore adolescenziale, ed entusiasmo conseguente, verso qualcosa di cui ancora non aveva fatto esperienza: «se dovessi dirti - provo a dirgli - che anch'io capisca il bergamasco stretto, probabilmente mentirei: le uniche volte che tento di pronunciare qualcosa in dialetto finisco per essere tanto ridicolo quanto di correre il rischio d'essere percepito come beffardo o quasi sprezzante nei confronti di quel linguaggio che ho imitato goffamente». In quel caso allora sì ci starebbe un bel romanissimo: ma che me stai a prende in giro? E poi, dico: «Calvino nel testo che hai letto pare avere un gran rispetto dei bergamaschi, piuttosto non ne comprende il dialetto... come non lo comprendo io» «Ma neanche io lo capisco, prófe, mica parlo in bergamasco coi miei: lo parlano solo i miei nonni». 

«E allora come può essere razzista una cosa scritta da un uomo che: pare avere rispetto dei bergamaschi, non capisce il dialetto e che tuttavia prova ad utilizzarlo in un dialogo in cui il protagonista si sforza di parlarlo?», provo a controbattere. «Forse il protagonista non è razzista ma voleva solo entrare in contatto con quel mondo, a suo modo», mi dice l'alunno. Le alunne dell'alta valle, quelle di prima, sorridono e annuiscono con la considerazione del compagno. 

Parliamo ancora del Barone rampante e poi torniamo all'analisi del periodo. Tutto questo senza intelligenza artificiale, didattica "innovativa" o dispositivi digitali ma con due strumenti indispensabili in ogni classe del mondo: un libro e la parola.