iPhone batte "Zio Ho"

Mercato batte ideologia. A cinquant’anni dalla riunificazione, il Vietnam si è progressivamente avvicinato al modello di sviluppo cinese, dunque accettando di buon grado il libero mercato, pur mantenendo la struttura di governo a partito unico.

«Viviamo alla giornata: abbiamo un certo numero fisso di ragazzi che frequenta la nostra scuola ma molti altri vanno e vengono». A parlare è il direttore del Sapa hope village (Il villaggio della speranza di Sapa), Phero Thuong. Nome complicato da pronunciare per un occidentale: è per questo che il maestro, direttore e proprietario del progetto si presenta come Peter (Pietro) perché da molto tempo ha abbracciato il cattolicesimo, traducendo così il suo nome vietnamita. 
Ogni volta che si entra nel territorio di una piccola comunità (sia essa rurale o cittadina) si viene accolti da una grande struttura posta come ideale porta d'ingresso che recita (in vietnamita e nel dialetto locale): «Avanziamo progredendo nell'inclusione di tutte le minoranze». Attorno alla città di Sapa (situata a quaranta chilometri dal confine cinese, parte del distretto di Lao Cai) quest'assunto non viene molto rispettato. Ragazze e ragazzi orfani delle minoranze Dzao e H'Mong sono totalmente esclusi dal sistema scolastico statale che, seppur capillare, non riesce ad assicurare loro la necessaria educazione. Esclusi due volte.
Peter si è prefissato un obiettivo titanico: contrastare la dispersione e l’abbandono scolastico degli orfani che popolano i villaggi intorno a Sapa. Lo spazio (di sua proprietà) potrebbe definirsi a metà tra un doposcuola e un laboratorio per i ragazzi più grandi (con posti letto al piano superiore per chi abita lontano, non può tornare a casa o non ce l’ha proprio) ed è sostenuta interamente dalla volontà, dalla forza d’animo e dai suoi finanziamenti. Pochi, per la verità. L’aula è unica, divisa a metà tra i ragazzi più piccoli (seduti su sedie malferme) e quelli più grandi (dediti ad altre attività). Di fronte a loro un grosso un braciere sempre acceso ha su una pentola piena d’acqua a riscaldare: il tè per gli ospiti, o per chi altro verrà, non si può rifiutare. Si entra calpestando la terra (pavimento assente) e gli spazi sono piuttosto angusti. Nel retro del locale, però, c’è un’area tutta nuova: lo spazio per i potenziali volontari. Al momento non ce ne sono: «gli unici che, di tanto in tanto, trascorrono una parte dell'estate con noi provengono da Malesia, Singapore o Filippine», afferma sconsolato Peter nel suo inglese-vietnamita.
Il progetto non ha collegamenti con associazioni od Ong internazionali e "il villaggio" rimane isolato.



Non è isolata, al contrario, la città di Sapa, situata a pochi chilometri dalla scuola-laboratorio di Peter: una delle più turistiche del nord del Vietnam. Piena di visitatori occidentali, meta di primo approdo per coloro che vogliono esplorare i sentieri delle montagne lì attorno, rappresenta il crogiolo delle contraddizioni del paese: stride l'insieme caotico di bandiere rosse con la stella gialla (alternate a quelle del partito) di fianco a locali sfavillanti, ristoranti stracolmi di cibo occidentale e trappole per turisti. Le imponenti strutture governative e del Partito comunista si ergono tronfie di fronte alla sfrontatezza dei marchi del capitalismo che avanzano col placet del politburo. Così come ad Hanoi, anche a Sapa (e nella maggior parte delle città del paese), le bandiere sono affisse ad ogni lampione di ciascuna strada, ogni giorno dell’anno.
 
Da tempo il Vietnam sta abbracciando il modello cinese: la Cina non è solo un punto di riferimento politico ma anche di organizzazione sociale. Il marxismo-leninismo vietnamita significa semplicemente "democrazia a partito unico". Dunque: forte controllo statale e pianificazione economica ma anche libero mercato e libero accesso ad internet. Allo stesso modo i pagamenti possono essere effettuati elettronicamente con QrCode (o con carte Visa) anche nei mercati più lontani dalle città. La moneta locale soffre la svalutazione e il cambio Euro/Dong (1 euro vale circa 29.000 Dong) assomiglia alle immagini del Marco durante la Repubblica di Weimar sui libri di scuola. A Sapa estrema ricchezza ed estrema povertà si incontrano prendendo un taxi oppure girando per le strade in cui donne e bambini di varie etnie ballano per pochi Dong mentre vengono filmate da avidi turisti (che poi posteranno quei video su TikTok generando, sicuramente, il triplo del profitto). 
 
Allo stesso modo ad Ho Chi Minh City, già Saigon, ex fortezza statunitense del sud, la musica non cambia. Anzi, peggiora. Grattacieli, vetrine di Dior, Tiffany, H&M, fast food, gioiellerie costosissime e negozi d'alta moda abbracciano le grandi arterie che portano al centro della città, nella fu zona vecchia, ora una delle più ricche del sud. Gli statunitensi hanno perso la guerra cinquantanni fa e tutto il paese è in festa: la riunificazione è motivo di unione patriottica della nazione riconciliata da chi aveva messo i vietnamiti l'uno contro l'altro (prima la Francia, poi gli Usa) ma è anche l'occasione per guardare ancora più criticamente il doppio volto del sistema che regge il Vietnam. 
 Il mercato ha battuto ogni ideologia. Gli iPhone hanno sostituito il motto della rivoluzione che recitava: «mangia la metà, lavora il doppio per raggiungere gli obiettivi dello zio Ho». TikTok, Instagram e mille altre piattaforme hanno mutato alla radice la consapevolezza della nazione. Le immagini di Ho Chi Minh sono, ormai, sovrastate dai centri commerciali in stile occidentale.



Pubblicato su L'Eco di Bergamo del 16 giugno 2025 

Nembro e il bar solidale. [La cooperativa? Un'alternativa alla crisi].

«Sai, la clientela è quasi sempre la medesima: siamo diventati il bar della piazza» e questo ha aiutato Gherim a riprendersi dai momenti negativi. Quelli legati al lockdown, ad esempio. Quando ero a Roma, durante gli anni scolastici del Covid, non sapevo neanche dove collocare Nembro sulla cartina. Ora che vivo da queste parti è tutta un’altra storia. Da quel momento in poi la storia di Gherim prende una piega diversa: «abbiamo attraversato varie fasi e, se devo dirti, non so davvero se riesco a ricordarle tutte». 

È il 16 maggio [2025] e, terminata la registrazione dell’intervista che sarà poi pubblicata il 19 su L’Eco di Bergamo, mi concedo un altro po’ di tempo con Francesca, la responsabile della bottega. La cooperativa ha affrontato un momento per niente facile da superare: qui la scure del Covid si è abbattuta con maggior forza ma da quel dì è passato un lustro. 

«All’inizio non capivamo minimamente cosa stesse succedendo: avevamo paura perché arrivavano notizie in continuazione di amici o parenti che si ammalavano e morivano nel giro di pochi giorni. In pochissimo tempo ci siamo trincerati in casa: non uscivamo più». Il paese era bloccato. Tredicimila anime alle porte di Bergamo, al principio della Valle Seriana, una delle principali valli bergamasche. «Con i miei genitori – continua Francesca – avevo stabilito un orario per le chiamate: se ci fossimo sentiti ad orari diversi da quelli prestabiliti, avrebbe voluto dire mettersi in ‘allarme’». 
«Le campane suonavano a morto sempre più spesso, poi il parroco ha smesso anche di farle suonare. Il silenzio nel paese era spettrale ed era rotto solamente dalle sirene delle ambulanze che pure, con il susseguirsi dei giorni e all’aumentare delle chiamate, hanno deciso di presentarsi in silenzio e senza annunciare la propria presenza». 
Ma, in un modo o nell’altro, Gherim ha retto. 
«Ci sono stati riconoscimenti, i famosi ristori per mancata produzione: non è stato tanto ma neanche poco. Gli affitti sono stati stornati, le utenze non hanno pesato così tanto (avevamo spento tutto), ai dipendenti è stata riconosciuta una percentuale senza andar a gravare sulla coop: ci si è messi in cassa integrazione, tranne quando, successivamente, abbiamo ricominciato l’attività» Ma anche la riapertura subiva continue oscillazioni e seguiva il flusso dei numeri pubblicati dai bollettini nel corso delle varie conferenze stampa serali: una situazione che continuava ad essere difficile da fronteggiare. 

«Come dipendenti c’erano solo Marco e Simona. Lei è venuta a mancare proprio quando sembrava che fossimo riusciti a venire a capo delle montagne russe delle continue chiusure e riaperture. Quando Simona ci ha lasciato ho pensato che fosse davvero troppo». Nei locali sopra il seminterrato in cui proseguiva la nostra conversazione, gli avventori del bar continuavano ad affluire: le risate spezzavano la tragicità del ricordo e gli ordini creativi di bevande, più simili a preparazioni galeniche che ad ordinari caffè, venivano enunciate una dopo l’altra.
«Passo dopo passo ce l’abbiamo fatta ma sono stati mesi pesanti», sospira Francesca.

Il 31 dicembre [2025] scadrà la convenzione col comune per la gestione dei locali e Nembro potrebbe non vivere più lo spazio del Modernissimo gestito da Gherim ma la cooperativa pare aver ricevuto in dote il dono della resistenza. La situazione vissuta cinque anni fa ha mostrato che l’organizzazione cooperativa può essere una risposta alla crisi: «saremmo, effettivamente, già naufragati», ha affermato Francesca. 
Il sistema cooperativistico può rappresentare la risposta alla crisi economica e sociale, al di là di chi ha speculato su tale sistema, sull’organizzazione in sé, compromettendone la funzione agli occhi dell'opinione pubblica. Certo è che «i volontari sono stati fondamentali: si sono rimboccati le maniche, hanno tamponato la mancanza di Simona fin da subito e hanno continuato ad essere una presenza costante successivamente». 
Dopo Simona, però, viene a mancare anche Sandro il responsabile della regia per gli eventi dell’Auditorium. Un'altra batosta.

«Una volta andato in pensione, aveva deciso di spendersi per la causa ed era qui tutti i giorni per svariate ore. Ha perfezionato tutto quel che era possibile, a regola d’arte. Ad oggi, il suo lavoro è stato sostituito da altri quattro. A detta loro "in quattro non riusciamo a fare quel che faceva lui" ma continuano a farlo per far sì che tutto il suo lavoro non vada sprecato, non riescono a sopperire alla sua professionalità, pur mantenendo in vita tutto quello che Sandro aveva costruito». 

Se si entra da Gherim per un caffè stando in piedi al bancone (come da prassi italianissima per la consumazione della tazzina) e si fa attenzione alla propria sinistra, si noteranno due foto: una di Simona e l'altra di Sandro. Un ricordo del prima perché il dopo non sia manchevole, soprattutto per chi non ha vissuto quella stagione
Qualsiasi cosa succeda dopo il 31 dicembre.

Maria alle prese col suo primo caffè.
Ultimo scatto di una Kodak usa e getta che ci è stata regalata dalle chicas Letizia e Francesca prima del viaggio in Vietnam. 

Qualche foto [storta] in bianco e nero del Vietnam

La produzione Fotostorte si è recata in Vietnam in viaggio di nozze. Ma non c'è viaggio senza le foto rigorosamente storte, nomen omen, sfocate e tendenzialmente bruttine. Stavolta, però, la produzione ha voluto fare le cose in grande e, addirittura, si è portata con sé una macchina fotografica a pellicola e dei rullini addirittura in bianco e nero. 






In perfetto stile fotostorte: è tutto a fuoco, tranne Maria











Prima del Vietnam

Il commercio equo alla prova dei dazi

Foto di Luba Glazunova su Unsplash


Alessandro Franceschini, presidente Altromercato, è ottimista: «Di fronte all’estrema imprevedibilità del mercato internazionale, rispondiamo con la forte credibilità di una relazione fondata non sulla speculazione ma sulla fiducia».


Caffè, cioccolata e zucchero: la politica economica di Donald Trump potrebbe avere ripercussioni anche sulla filiera del commercio equo-solidale. Altromercato, la principale realtà in Italia, è presente sul territorio bergamasco con sei punti vendita di due cooperative: Amandla gestisce botteghe a Bergamo, Calusco, Gazzaniga e Seriate, Nuova solidarietà a Casazza e Clusone. All’elenco aggiungiamo anche la realtà di Nembro (Gherim) che, pur non essendo direttamente partner, rappresenta una peculiarità.
«La questione dazi è complessa e si inserisce in un quadro internazionale in cui ci mancava solo la guerra commerciale tra Usa e resto del mondo», a parlare è Alessandro Franceschini, presidente nazionale di Altromercato, raggiunto da L’Eco di Bergamo. Ma il protezionismo di Trump «non ha ancora effetti sui paesi che esportano beni legati alla filiera del commercio equo: ce ne saranno per le importazioni da parte degli Usa (ma sappiamo che non sono molto equo-solidali)». 

Non solo dazi
Il punto è che la dialettica muscolare tra grandi potenze va ad inserirsi in una cornice di crescente difficoltà di base: il cambiamento climatico interpreta un ruolo da protagonista nella crisi già esistente. «Venivamo tacciati di essere delle Cassandre catastrofiste», dichiara Franceschini ma ora «si nota perfettamente» quanto i paesi del cosiddetto terzo mondo «siano esposti al cambiamento climatico, sebbene siano proprio quelli che meno abbiano contribuito ad alimentarlo». È quello che si sta verificando, ad esempio, riguardo il caffè in Nicaragua: le coltivazioni si stanno spostando sempre più in altura a causa dell’inaridimento delle piante e degli infestanti. «Abbiamo sostenuto l’iniziativa di alcuni produttori nicaraguensi con un progetto denominato Eroi del clima (fondazione Altromercato) per fornire loro degli strumenti al fine di fronteggiare l’inedita circostanza». Spostandoci di continente, troviamo l’analoga situazione del Vietnam: colpito dai dazi (46%), ha già ridotto la produzione (dunque l’esportazione) dei chicchi di robusta a causa del cambiamento climatico. Ma Franceschini è ottimista per quel che riguarda la filiera etica. Certo: «il grosso del fatturato di Altromercato proviene da cacao e caffè [compreso lo zucchero di canna] ma, nonostante le speculazioni delle borse, abbiamo mantenuto dei prezzi giusti». Come? Non abbassando i prezzi al produttore. «Di fronte all’estrema imprevedibilità del mercato internazionale, rispondiamo con la forte credibilità di una relazione fondata non sulla speculazione ma sulla fiducia», sostiene Franceschini, che afferma: «sebbene legati a fattori di borsa, paghiamo di più e stabilmente i produttori» perché «nella loro percezione ciò che conta è la continuità della relazione».

E l’Italia?
Il nostro paese non si classifica mai ai primi posti per il livello di retribuzione dei lavoratori, eppure secondo Franceschini molti consumatori hanno deciso di cercare alternative sociali ed etiche in sostituzione alla grande distribuzione (Gdo). «La nostra identità è legata alle botteghe ma, ormai, il loro fatturato rappresenta il solo 20% di Altromercato: essere presenti da un trentennio nella Gdo fa sì che il marchio cresca. Tanto più è forte il brand, tanto più la gente si rivolge alle botteghe».

A Nembro il bar equo-solidale
Non direttamente affiliata ad Altromercato, Gherim a Nembro gestisce in concessione lo spazio del bar, che comprende anche l’Auditorium Modernissimo, in Piazza Libertà. Secondo la responsabile Francesca Signori: «sebbene il prezzo sia lievitato globalmente, il caffè del commercio equo (che utilizziamo per il bar) ha mantenuto i costi di cessione e vendita». «C’è anche da dire – prosegue – che al momento viviamo una fase di crescita grazie alle iniziative che abbiamo messo in atto: c’è tanta partecipazione attorno a Gherim». Non un semplice bar ma punto di ritrovo. Il 31 dicembre [2025] scadrà la convenzione col comune per la gestione dei locali e Nembro potrebbe non vivere più quello spazio. Condizionale d’obbligo. 
 
Articolo pubblicato su L'Eco di Bergamo il 19.5.2025

Tre cose strane del Vietnam

Dopo la serie "Cose strane della Bolivia", direi che un post analogo per il Vietnam sia più che doveroso. 

#1 - Le docce

Vi ricordate le docce boliviane, quelle con i fili elettrici attaccati al soffione? Qui si sono organizzati diversamente. Il rubinetto del lavandino prevede un attacco per il tubo della doccia, così ci si può tranquillamente lavare azionando l'acqua dalle manopole del lavandino. Solo dopo aver visto questa insolita collocazione della doccia abbiamo capito il senso dell'avviso posto nel bagno della stanza di un hotel di Hanoi in cui abbiamo trascorso la prima notte: "Per favore, non utilizzate la doccia al di fuori degli spazi". Ammetto che la richiesta ci aveva lasciati perplessi: aver trascorso dei giorni lontani da posti frequentati da occidentali ci ha fatto facilmente capire il tutto. 


#2 - Il bagno

Rimaniamo sempre in ambito "sanitari" per parlare di come il lavandino non preveda uno scarico dedicato: l'acqua del lavandino finisce direttamente sulle mattonelle del bagno per poi defluire in uno scarico solitamente posto in uno degli angoli dello spazio. Come si può facilmente intuire: il bagno si riempie d'acqua con estrema facilità. 

Al di sotto del lavabo non c'era alcun tipo di scarico e l'acqua finiva letteralmente sui piedi

#3 - Bacarozzi (fritti)

Nell'homestay di Mu Can Chai, in cui abbiamo cenato e trascorso la quarta notte, per farci sentire molto accolti e farci provare delle cose buonissime da mangiare, ci hanno portato un piattino di scarafaggi fritti. Probabilmente la famiglia si sarà arrabbiata moltissimo: non abbiamo avuto coraggio di mangiarli e li abbiamo lasciati lì sul piatto dove li avevano posti. Quando ero bambino e chiedevo a mia madre cosa si mangiasse per cena, la sua risposta giocosa era quasi sempre: "Mah, non so: ti vanno bene dei vermetti fritti?". In Vietnam ci sono andato vicino: letteralmente!

P.s. ciao mamma, no: non li ho mangiati ❤️


Le insegne luminose attirano gli allocchi


Fame e sonno

Il volo della Thai Airlines è durato 12 ore, al termine delle quali, come nel caso di ogni viaggio così lungo, si ha la sensazione di aver scalato una montagna nonostante si sia rimasti immobili (o poco più) per svariato tempo. Dalla partenza fino alle prime ore dell’alba (ora italiana, circa 22:00) la previdente compagnia thailandese ci ha fornito ben due pasti: il primo avrebbe dovuto rappresentare la cena, il secondo, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere una sorta di colazione ma teoria e pratica non coincidono spesso. Anche l’altro volo Thai per Hanoi avrebbe previsto una colazione (9 di mattina): cous cous con lenticchie e, per fortuna, della frutta. Usciti dall'aeroporto, un muro d'umidità e di caldo ci ha assalito e ci ha subito fatto capire che aria avrebbe tirato in Vietnam. La grande strada che porta alla città di Hanoi pullula di motorini che portano qualsiasi cosa. Anche persone, accidentalmente, ma soprattutto merci. Mancano due giorni alla parata del 30 aprile, giorno della riunificazione e della liberazione di Saigon da parte delle truppe nordvietnamite: i cartelloni propagandistici sono ovunque, così come dappertutto sono le immagini di Ho Chi Minh posto di fianco ad una colomba bianca, simbolo di pace, quella riconquistata dopo la cacciata degli statunitensi dal paese. 

Mai Chau

Il villaggio di Mai Chau si sveglia alle 5:30 circa. Case aperte al piano terra come la grande maggioranza delle abitazioni vietnamite: dalle grandi televisioni poste al centro degli spazi aperti nelle case si diffonde ad altissimo volume la musica della parata militare e il discorso del Presidente vietnamita: tutti sono intenti a guardare la parata: si formano capannelli di fronte ai grandi schermi delle case per poter meglio vedere la dimostrazione del governo. È il cinquantesimo della riunificazione del paese, da quando le truppe nordvietnamite hanno liberato Saigon (ora Ho Chi Minh City), da quando gli Stati Uniti sono stati cacciati dal paese. Gli occidentali fanno ancora fatica a comprendere la portata di questo evento: sulla guida della LonelyPlanet viene usata con grande serenità questa descrizione per illustrare, pur brevemente, l'avvicendarsi del colonialismo e dell'imperialismo in Vietnam: «Saigon divenne capitale della Cocincina (sotto la presenza francese): nel '54 dopo la partenza dei francesi, la città divenne capitale della Reubblica del Vietnam. Quando cadde in mano alle forze nordvietnamite nel 1975 venne ribattezzata Ho Chi Minh City». Nessun accenno alla strage statunitense, "partenza" per indicare la fine della colonizzazione francese, "occupazione" per indicare l'entrata delle truppe nordvietnamite in città. Non fa una piega.

Ma siamo a Mai Chau e qui è festa, così come nei villaggi limitrofi, in ogni città, in ogni agglomerato di case (sia esso urbano o rurale). L'auista e l'interprete (necessario perché il vietnamita è totalmente incomprensibile all'orechio occidentale) mi invitano a sedere al tavolo con loro mentre sui loro smartphone scorrono le immagini della diretta del tg nazionale che manda in onda la parata. 

Ogni portone, ogni negozio, ogni motorino e automobile ha con sé la bandiera rossa con la stella gialla al centro. Ed è così 365 giorni all'anno, non solo in questi giorni di festa. Da tempo il Vietnam sta abbracciando il modello cinese: la Cina non è per loro solo un punto di riferimento politico ma anche di organizzazione sociale. Il marxismo-leninismo vietnamita significa semplicemente "democrazia a partito unico", dunque: forte controllo statale, pianificazione economica ma anche libero mercato, libero accesso ad internet e a Google, pagamenti elettronici con QrCode (o con carte Visa) anche nei mercati più lontani dalle città e via dicendo. La moneta locale è fortemente svalutata: il cambio Euro/Dong (1 euro vale 29.000 Dong circa) assomiglia alle immagini della svalutazione del Marco durante la Repubblica di Weimar. È quel che si direbbe "democratura", il Vietnam: quella torsione, di definizione tutta occidentale, che prevederebbe il mantenimento delle istituzioni proprie della democrazia liberale con un potere governativo molto forte e totalmente decisionista. L'opposizione, in certi casi, è più d'intralcio che positivamente dialettica, si direbbe. Qui, semplicemente, non esiste.

Sa Pa 

Nella città più turistica del nord del paese le contraddizioni si manifestano tutte insieme. Stride fortissimamente l'insieme caotico di bandiere rosse con la stella gialla (alternate a quelle del partito) con locali sfavillanti, pieni di lucine («le insegne luminose attirano gli allocchi», avrebbe urlato qualcuno sotto una drum machine e una chitarra acidamente distorta), ristoranti stracolmi di cibo occidentale e trappole per turisti. Estrema ricchezza ed estrema povertà si incontrano prendendo un taxi oppure girando per le strade in cui donne e bambini di varie etnie del nord vietnamita ballano per pochi Dong mentre vengono filmate da avidi turisti (che poi posteranno quei video su TikTok generando, sicuramente, il triplo del profitto).

Ci sono anche hotel e locali per soli vietnamiti i quali tentano di resistere stoicamente all'invasione occidentale e del turismo di massa proveniente da paesi limitrofi (Cina, Sud Corea, India, Malesia e Singapore su tutti) ma tutto si tiene in piedi su un obiettivo comune: soldi. Sa Pa assomiglia a una di quelle città italiane di località termali: Salsomaggiore, Chianciano o Montecatini, ma senza la crisi che attanaglia le strutture del fu turismo anni '80. Il partito è presente in ogni slogan propagandistico affisso nelle strade, in ogni bandiera posta in ciascuna via ma il profitto è l'unico orizzonte di Sa Pa, quasi fosse un porto franco. Puoi pagare anche in dollari o in euro. I locali non fanno storie: il cambio è comunque a loro favore. 


Sa Pa Hope

Basta fare pochi chilometri e allontanarsi dalle enormi strutture alberghiere, dai locali per massaggi stracolmi di asiatici ed europei, dalle lucine abbaglianti del più sfrenato consumismo per andare a toccare con mano l'esclusione sociale generata dalla sfrenata e sfrontata identità di Sa Pa. I villaggi attorno alla città (ad esempio Ta Phin) vivono di agricoltura e sono popolati da un crogiolo di etnie. Ogni volta che si entra in una piccola comunità (sia essa rurale o cittadina) si viene accolti da una grande struttura posta come ideale porta d'ingresso che recita (in vietnamita e in dialetto della comunità locale): «Avanziamo progredendo nell'inclusione di tutte le minoranze». Attorno a Sa Pa quest'assunto non viene molto rispettato. Ragazze e ragazzi orfani delle minoranze Dzao e H'Mong sono totalmente esclusi dal sistema scolastico statale che, seppur capillare, non riesce ad assicurare loro la presenza educativa. Esclusi due volte. «Viviamo alla giornata: abbiamo un certo numero fisso di ragazzi che frequenta la nostra scuola ma molti altri vanno e vengono», a parlare è Phero Thuong ma a noi si è presentato come Peter, Pietro, perché ha abbracciato da molto tempo la religione cattolica e traduce così il suo nome vietnamita. Il posto, che ha chiamato Sa Pa hope village, è suo e i ragazzi sono divisi in tre livelli a seconda dell'età: «con i ragazzi del terzo livello strutturiamo un progetto scuola professionale, così da poter fare in modo di trovare un impiego nella ristorazione o nei campi». Solo che l'intenzione di Peter si è dovuta scontrare, negli anni, con i costi degli alloggi della città: «per molto tempo abbiamo avuto una struttura al secondo e terzo piano: al secondo facevamo scuola, al terzo i ragazzi dormivano». I più grandi, quelli del terzo livello, potevano essere impiegati nella caffetteria al piano terra del palazzo: «i costi, però, erano troppo elevati e adesso questo è il nostro posto». Il punto è che il progetto di Peter vive dei soli soldi di Peter e di donazioni locali: non ha collegamenti internazionali, non ha contatti con altre associazioni od Ong. «Gli unici volontari che, di tanto in tanto, trascorrono una parte dell'estate con noi provengono da Malesia, Singapore o Filippine», dice un po' sconsolato Peter nel suo inglese molto personale.

«Sarebbe bello che qualcuno insegnasse l'inglese ai ragazzi stando insieme a noi», dice Peter mentre ce ne andiamo. I suoi sforzi sono stati (e sono tuttora) immensi ma c'è bisogno di molto ancora. 



Saigon

Umidità. Caldo asfissiante all'esterno e aria condizionata a temperature polari all'interno dei posti al chiuso. Grattacieli, vetrine di Dior, Tiffany, H&M, fast food americani (Burger King, Popeye), gioiellerie costosissime e negozi d'alta moda abbracciano le grandi arterie che portano al centro della città, nella fu zona vecchia, ora una delle più ricche del sud del Vietnam. Arterie stradali ai cui lampioni sono apposti stendardi del partito comunista e bandiere nazionali. Se a Sa Pa il luccichio dei locali era stridente, a Saigon la situazione è ancora più grottesca. Grandi catene dell'occidente capitalista, centri commerciali a sei piani e negozi di lusso si trovano a proprio agio su quella che doveva essere la più bella promenade della città colonizzata dai francesi, avvolta, come tutte le strade (grandi o piccole che siano), dalle bandiere rosse con la stella gialla o con la falce e il martello. Gli americani hanno perso sul campo la guerra proprio 50 anni fa: il paese in questi giorni è in festa da nord a sud. La riunificazione è motivo di unione patriottica della nazione riconciliata da chi aveva messo i vietnamiti l'uno contro l'altro (prima i francesi, poi gli statunitensi) ma è anche l'occasione per guardare ancora più criticamente il doppio volto di questo sistema a partito unico che ostinatamente rievoca il proprio passato glorificandolo (le immagini di Ho Chi Minh sono ovunque, così come due giorni dopo la liberazione di Saigon) ma che ha accettato il libero mercato con una serenità che apre ancor di più crepe e contraddizioni agli occhi occidentali. Starbucks sulla via Le Than Thon ha quattro vetrine, così come ce le ha una banca cinese che propone un tasso vantaggioso per chi depositerà i propri risparmi e deciderà di ottenere una carta Visa per i pagamenti. Gli americani saranno anche stati sconfitti militarmente sul campo ma il mercato ha battuto l'ideologia; gli iPhone hanno sostituito il motto della rivoluzione «mangia la metà, lavora il doppio per raggiungere gli obiettivi dello zio Ho»; TikTok, Instagram e mille altre piattaforme hanno mutato alla radice la consapevolezza della nazione riunificata e riappacificatasi dopo l'ondata di odio statunitense che ha posto le basi per la divisione al diciassettesimo parallelo. Risuona nella testa "Il mio nemico" di Daniele Silvestri che, sulla base di "Alturas" degli Inti-Illimani, aveva inventato un ritornello che fa comprendere bene la situazione che stiamo vivendo in questi giorni e dannatamente attuale (internazionalmente parlando): «il mio nemico non ha divisa / ama le armi ma non le usa / nella fondina tiene le carte Visa / e quando uccide non chiede scusa [...] Il potere non lo logora». L'Italia è andata nella direzione del nemico della canzone, Silvestri è stato (purtroppo) presto dimenticato dalla gran parte degli italiani e i proiettili del grande capitale sono ancora tutti in canna.

E sembra non esaurire mai le sue cartucce. Il potere non lo logora.


Ho Chi Minh city/Saigon, 7.05.2025

(Altre foto saranno caricate nei prossimi giorni, al nostro ritorno, così come altri post - meno polpettoni - saranno pubblicati più avanti).

La [s]cicoria

La battaglia culturale di rivendicazione culinaria tra nord, centro e sud Italia si fonda spesso su luoghi comuni: dal Rubicone in giù si tende con estrema facilità a dare dei polentoni a coloro che abitano al di sopra della fu Linea Gotica. Allo stesso modo, chi abita nell'ex Lombardo Veneto si lascia andare in terminologie bossiane (terùn!) nei confronti di coloro che abitano dalle Marche in giù, fino ad arrivare a paragonare la cucina asiatica (aglio, curry, spezie, peperoncino e via dicendo) a quella del Mezzogiorno d'Italia.
Tanto più è aspra la lotta, tanto più prosegue intrisa di luoghi comuni e prese di posizione che affondano le radici nel «s'è sempre detto così», tale espressione in Bergamo viene condensata nello stringersi di spalle rivolgendo i palmi delle mani verso l'alto, accompagnando tale mimica con uno stentoreo «pota...».

Fatta questa premessa, è bene arrivare alla ragione del post: la cicoria. Parola la cui pronuncia alle orecchie dei non romani viene percepita con la s anteposta alla c, come per qualsiasi altra parola che preveda l'affricata palatale come prima lettera: [s]Cento(s)celle, ba[s]cio e via dicendo. 
Quell'erbetta spontanea così famosa a Roma (che in Veneto viene poco delicatamente chiamata pissacàn), nella bergamasca, semplicemente, non esiste. O meglio, non viene consumata. Si lascia crescere ma poi non viene raccolta e finisce per essere accomunata alle altre erbacce infestanti. A Roma facevo una gran scorta di cicoria sia quando mi trovavo a comprarla ai banchi del mercato di Torre Maura, sia quando mi trovavo presso i punti vendita della grande distribuzione organizzata (meglio noti come: supermercati). L'imperativo era uno: tornare a casa, indossare il grembiule (quello basso) da cucina, pulirla, lessarla e spadellarla. Dopodiché - insegnamento materno - aspettare che l'acqua di cottura si sia raffreddata per innaffiarci le piante. 

In una delle ultime spese romane prima del trasferimento, mi sono detto: «se riesco a trovare la cicoria all'Esselunga del Prenestino, ci sarà pure a quella di Bergamo. Per una volta diamo un merito alla grande distribuzione».
La prima cosa che ho fatto, dunque, una volta in Valle Seriana, è stata controllare la veridicità della mia supposizione: ci sono rimasto malissimo quando ho notato che la cicoria non solo non c'era quel giorno ma non ci sarebbe stata quel mese e non sarebbe mai giunta tra gli scaffali.
Idem per i mercati: cicoria questa sconosciuta. Ammetto che grande fu lo sconforto. 

La medesima sensazione, mista a vivo stupore, l'ho provata quando, a proposito di cicoria, ho iniziato a vedere in vendita barattoli di vetro al cui interno vi era della cicoria essiccata e triturata vicino al caffè solubile. L'etichetta esterna non mentiva: "Caffè di cicoria".
«Da qua a 'r Ventennio è n'attimo», ho pensato. 
Eppure qui al nord il consumo della bevanda surrogata non è così inusuale. Nelle discese romane ho appurato che anche nella Capitale sta tornando a fare capolino tale surrogato, sebbene ancor timidamente rispetto alle zone ex Lombardo-Veneto. 

Due aneddoti a riguardo.

Due aneddoti a riguardo.

Orrore e raccapriccio.
Dopo mesi di astinenza da cicoria, una sera mi trovo fuori a cena in una piccola località montana della media Valle Seriana. Leggo il menù e mi emoziono vedendo che tra i contorni viene proposta la cicoria: tento l'azzardo e ne ordino una porzione. Il cameriere arriva trionfante a portarmi il piattino contenente l'oro verde ma la mia emozione si è spenta come un cerino appena acceso esposto alla proverbiale Bora triestina. Il piatto conteneva sì cicoria ma semplicemente lessata. Bollita. Scondita. Non ripassata. 
Un colpo al cuore. (Però me la sono magnata lo stesso). 

Caffè di cicoria
Con Maria prendiamo la decisione di rimetterci in contatto con le strutture di Altromercato e del commercio-equo. A Nembro c'è una cooperativa che gestisce non solo una piccola bottega ma anche un bar che si regge, come consuetudine nella realtà di Altromercato, da lavoratori e volontari. Martedì scorso inizio il primo giorno al bar da volontario: servizio ai tavoli. Il tempo passa e tutti notano l'accento diverso alle loro orecchie: chi sorride, chi guarda storto, chi prova a fare il TotoProvenienza producendosi in un susseguirsi di grossolani errori.
A un certo punto, a metà mattina, mi sento chiamare da un tavolo: «Tè shcusa: mi porterèshti per favore un caffè di cicoria?».
Mi giro lentamente e c'è ancora il tizio con l'indice della mano destra proteso verso l'alto, sorridente, che nota la mia torsione del busto. Non riesco, stavolta, a mascherare l'accento [non ci riesco mai, a dirla tutta]: «Er caffè de [s]cicoria? Guarda io t'o porto pure ma hai sbajato periodo storico». Il tizio non coglie subito, ci rimane un po' male, però mi fa: «No ma shi beve, neh... ma... di dove shei tè?». Sorride, non è ostile. Io rispondo scherzando e imito l'accento valligiano: «Pota, shono di Vilminore, io!». Lui, ancora più incredulo: « [...] di...di Vilminore? Pota davvero?», quasi ci cascava. Per un attimo mi sono immaginato nella testa di questo tizio: uno che parla così può essere mai di Vilminore? MadonaHignùr è finito il mondo!
Dunque termino il gioco: «Ma no, te pare, sono de Roma. Quindi, abbiamo detto: un caffè di [s]cicoria?». Riprende il normale corso dell'ordinazione e torna a dire: «Shi, ecco, grazie! Ben caldo, per favore!». 
Mi avvicino al bancone per riferire: c'è Jessica (la barista) la quale non aveva ascoltato, intenta com'era a preparare caffè per chi non sarebbe stato da servire al tavolo. Le riferisco la comanda, aggiungendo a bassa voce: «Ma davero questo m'ha chiesto er caffè de [s]cicoria?». Lei, serenamente, sorride della mia totale ignoranza sui costumi della provincia e mi fa: «Si, eh: qui si usa tantissimo». 

Insomma, in Valle la [s]cicoria se la bevono.
Non sanno quello che si perdono.

Caso Almasri, parla Lam Magok che ha denunciato il Governo per favoreggiamento


«La mia lotta è per i rifugiati, per i migranti e per gli italiani tutti. Lo stato non sta rispettando le regole e se succede è un danno per chiunque». A parlare è Lam Magok Biel Ruei: 32 anni, rifugiato politico proveniente dal Sud Sudan. È arrivato in Italia nel 2022 riuscendo a sopravvivere alla prigionia in un centro di detenzione a Tripoli (Libia): «l’ultima prigionia è durata complessivamente 9 mesi», di cui 6 trascorsi a Mitiga. «Ero in una delle cosiddette Almasri prisons [prigioni poste sotto il controllo di Almasri]». Per arrivare in Italia dal sud Sudan esiste un corridoio umanitario  che, però, s’interrompe: le persone finiscono così direttamente tra le braccia dei trafficanti e nei centri di detenzione in Libia. Un approdo non sicuro a tutti gli effetti ma con cui il Governo italiano deve fare i conti per far sì che possa dar seguito alla retorica della riduzione degli sbarchi. Mediaticamente funziona: le percentuali contano più delle vite umane in termini elettorali. È la spietatezza della realpolitik. Il caso dell’arresto e successivo rimpatrio del generale Osama Almasri («Capo della polizia giudiziaria di Tripoli») da parte del Governo italiano ha riacceso il dibattito politico sull’immigrazione e sui centri di detenzione in Libia, da cui proviene Lam e che abbiamo intervistato insieme ad Alice Basiglini dell’associazione Baobab (realtà che gli ha fornito supporto legale per la sua azione). Le parti sono venute a contatto nel 2021 a seguito dell’onda lunga delle proteste condotte dal movimento Refugees in Libya.
Quando Lam ha appreso della notizia dell’arresto di Almasri ha subito pensato che giustizia fosse fatta ma gli eventi non sono andati come avrebbe sperato e la fragile fiducia è immediatamente crollata: «è in quel momento che ho maturato la decisione di denunciare il governo», insieme a David Yambio, conosciuto durante una delle detenzioni.

La vicenda è ormai tristemente nota perlomeno da quando il 28 gennaio [2025] la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha diffuso il video messaggio in cui mostrava l’avviso di garanzia ricevuto e giunto anche «ai ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano» a seguito (sebbene Meloni avesse cautamente detto «presumo») «di una denuncia presentata dall'avvocato Luigi Li Gotti». 
A seguito di quell’episodio, giunge la denuncia di Lam: «L’Italia è un membro della Corte penale internazionale e questo significa che se c’è un mandato a cui non viene dato seguito c’è un problema evidente», afferma. «La ragione per cui denuncio – ha proseguito Lam Magok – è che io sono in Italia in quanto rifugiato e vittima delle torture subite in Libia da Osama Almasri» e la decisione del suo rimpatrio lo ha reso «doppiamente vittima». Lam sta combattendo questa battaglia perché «se il Governo non rispetta le regole non le rispetterà né per gli immigrati né per gli italiani» e lo dice da un punto di vista tutto peculiare, cioè essendo «rifugiato che sta vivendo in Italia», dunque sentendosi parte del Paese. 
La decisione assunta da Lam è stata totalmente d’iniziativa personale ma, con tutta evidenza, non poteva essere condotta da lui solo: «per avviare un procedimento del genere c’è bisogno di un ufficio legale, in questo caso messo a disposizione da Baobab» a cui si è rivolto chiedendo aiuto.
Quando chiediamo a Lam se la Libia sia un paese sicuro per chi arriva dal sud Sudan, lui non esita a rispondere laconicamente: «No, non lo è». «La Libia – prosegue – non è un paese sicuro» ma per arrivare a conoscere, capire e comprendere la situazione presente nel paese bisogna fare uno sforzo. Ci sono vari rappresentanti politici che si contendono il territorio divenuto estremamente granulare dopo la destituzione di Gheddafi: «quando si parla di Guardia costiera libica si potrebbe far riferimento a tre istituzioni diverse», rincara la dose Alice Basiglini. Milizie che si contendono il territorio, generali che sembrano sceriffi dei film spaghetti western: una situazione che sta mantenendosi nel caos generale molto più a lungo di quel che analisti ed esperti prospettavano. «Si tratta di un paese rarefatto – afferma la rappresentante di Baobab – in cui manca un potere centrale con cui confrontarsi ufficialmente e in cui c’è in atto uno scontro fra più parti le quali rappresentano organizzazioni (di fatto) criminali e non sappiamo a chi rispondono». «Le organizzazioni internazionali conoscono qual è la situazione sul terreno ma non danno notizie sulla situazione: c’è la guerra, ci sono le milizie e la situazione è insostenibile», afferma Lam Magok. Sanno ma cercano di ‘salvare il salvabile’ poiché avere una negoziazione con le autorità libiche è praticamente impossibile. Una strategia che potremmo chiamare di «riduzione del danno», sostiene Alice Basiglini. «È chiaro che si tratta di una situazione complicata che deriva dal loro status nonché dal meccanismo di finanziamento, nonostante sappiamo bene che i pochi corridoi umanitari in atto siano organizzati e operati da Unhcr (cioè l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati)». Ma il numero di persone che riesce a passare attraverso i corridoi di Unhcr è esiguo rispetto al totale che finisce tra le maglie dei trafficanti e la stessa presenza delle organizzazioni internazionali non implica – purtroppo – la garanzia della difesa dei diritti umani. Tutto il resto è tortura (e propaganda politica conseguente). 

Articolo pubblicato su L'Eco di Bergamo

PD-M5S? Questione di sangue, ma occhio alle trasfusioni

Le parole di Gaetano Pedullà, europarlamentare
del Movimento 5 Stelle, sono diventate un caso politico per la stabilità dell’alleanza delle opposizioni. Pina Picierno, vicepresidente dell’Europarlamento, nella giornata di mercoledì 19 febbraio [2025] ha rilasciato un intervista a Repubblica, le cui dichiarazione in essa contenute sono poi state contestate in diretta tv (su La7) dall’ex fondatore e direttore del quotidiano La notizia. Picierno sosteneva la palingenesi  «dell’asse giallo-verde», riferendosi alla nota alleanza che ha governato il Paese, salvo poi sconfessarla. A causa della sovrabbondanza
di informazioni che ingolfano i nostri smartphones, il video di Pedullà è noto ai più, meno le reazioni successive. O meglio, meno la situazione che sta alla base dello scontro.

Fratelli coltelli
Partito democratico e Movimento 5 stelle non sono mai andati d’accordo ma si sono riscoperti fratelli all’opposizione del governo Meloni. Ma se da una parte il Pd non ha fatto nulla affinché l’egemonia della destra scemasse, così da erodere consenso sociale (ed elettorale) al blocco alternativo
del quadripartito Fd’I-Fi-Lega-Noi moderati, il Movimento 5 stelle ha fatto di tutto per confondere le acque sulla propria natura portando (direttamente e indirettamente) l'acqua al mulino delle attuali forze di governo. Entrambi gli atteggiamenti hanno portato ad una mutazione così repentina dell’elettorato grillino il cui partito ora (lontanissimi i tempi dei Vday) si aggira cercando di raggiungere la doppia cifra in qualsiasi tornata elettorale, nonché delle proiezioni che vengono commissionate da tv e quotidiani. E se Pd e M5S sono fratelli, va ribadito che non c’è rapporto più conflittuale al mondo se non quello tra persone del medesimo sangue, pronti a rinfacciarsi di tutto e per tutto.

Sinistra?
Sangue, certo, ma con una sfumatura diversa: sebbene di un tipo simile, l’uno è positivo e l’altro negativo, con tutte le restrizioni del caso su trasfusioni e donazioni.
Alle prime elezioni europee a cui prese parte il Movimento, un sondaggio sul blog di Beppe Grillo chiedeva agli iscritti (era il giugno del 2014) di esprimersi sulla collocazione a Bruxelles/Strasburgo: erano riportati tutti i gruppi politici (Liberali dell’Alde, Conservatori dell’ECR, destra radicale di Efd) meno che quello del Gue, ovvero quello che raccoglie varie sigle di sinistra antiliberista (in alcuni casi anche radicalmente anticapitalista) d’Europa. La situazione si è totalmente capovolta nel giro

di due lustri. Non solo il M5S non è più collocabile nella destra all’interno dell’Europarlamento ma dalla precedente tornata elettorale siede nel gruppo della sinistra radicale, non senza perplessità da parte
degli altri partiti e movimenti europei che popolano quell’area.

Eppure Gaetano Pedullà, già direttore de La notizia, che in gioventù orbitava tra Cisl e Democrazia cristiana, coautore di un volume scritto insieme a Renato Altissimo (già segretario del Partito liberale italiano) con prefazione di Giuliano Ferrara, ora è rappresentante dell’unica forza politica italiana collocabile a sinistra a Bruxelles/Strasburgo. Chissà se i dirigenti del Movimento 5 Stelle si sono accorti della loro collocazione politica: l’abuso del cinismo nella tattica politica porta, inevitabilmente, ad una rovinosa mancanza d’identità. Nonostante quel che dica Giuseppe Conte, la crisi è già ben dentro il corpo elettorale e militante (c’è mai stato, strictu sensu?) del partito.

Temperatura impazzita
La tragedia, che in seguito si presenta sempre come farsa secondo l’adagio marxiano, è che quel gruppo parlamentare ha tra i fondatori anche il Partito della sinistra europea, la cui figura di riferimento in Italia è il Partito della rifondazione comunista. L’organizzazione ha da poco terminato i lavori del congresso nazionale e ha consegnato la fotografia di una realtà spaccata letteralmente a metà tra Paolo Ferrero e Maurizio Acerbo (attuale segretario). C’è chi, tra le due parti in lotta, vorrebbe arrivare a dialogare con il Movimento 5 Stelle (i vicini a Ferrero) perché ora siede nel gruppo della left: constringerli a fargli fare la sinistra, insomma, parafrasando l'incoraggiamento morettiano a D'Alema («dì qualcosa
di sinistra!»).
Ma la sinistra che procede per costrizione finisce, seppur lentamente, col trasformarsi in destra: citofonare Marco Rizzo.

Articolo pubblicato su Atlante Editoriale il 21.02.2025

Evo Morales sostiene di essere candidabile, la legge dice di no.

Manifestante pro-Evo nel corso di una manifestazione in Ecuador [2013] - fonte Wikimedia commons

«Siamo pienamente abilitati a presentarci alle elezioni. È impressionante il sostegno che stiamo ricevendo: sono sicuro che vinceremo le elezioni col 60%!». A parlare alla ristretta cerchia di militanti giunti dalle più remote province del paese, è Evo Morales, già presidente dello Stato plurinazionale della Bolivia e da più di due anni diretto avversario dell’attuale presidente Luis Lucho Arce Catacora. Non ci sarebbe niente di strano in quest’affermazione se non fosse che Evo e Lucho fanno parte, perlomeno ancora formalmente, dello stesso partito: il Movimento al socialismo-Strumento per la sovranità dei popoli (Mas-Ipsp).

Da due anni Evo sta spaccando il partito giungendo alla creazione di quel che è stato definito un Mas-parallelo rispetto a quello istituzionale e riconosciuto giuridicamente. In queste settimane, però, Morales è messo alle strette dalla giustizia: il tribunale di Tarija lo ha accusato di violenza sessuale su di una minorenne, fatto che risalirebbe attorno a due lustri fa. L’ex presidente non si sta presentando in tribunale, nonostante le convocazioni, e su di lui ora pende un mandato di cattura: obbligato al domicilio presso la sua residenza, non può uscire dalla regione del Chiapare in cui si sente protetto da settori politici, sindacali e dell’associazionismo legati alla realtà dei cocaleros che pure presiede.

Un outsider?
Il personaggio vicino a Evo che sta emergendo in questa circostanza è Andronico Rodriguez, giovane esponente del Mas-Ipsp, vicepresidente del Senato, è sostenitore della fazione anti Lucho. È lui a rappresentare il volto nuovo della fazione evista nonché la possibile cerniera tra le due correnti politiche. Tuttavia, sebbene la stampa boliviana abbia diffuso notizie che prevederebbero un possibile accordo di pacificazione nel partito prevedendo Arce candidato alla presidenza e Rodriguez come vice, lo stesso senatore si è detto indisponibile al tandem. «Ci sono state speculazioni e informazioni false che hanno attribuito il mio nome addirittura come candidato alla presidenza», ha dichiarato Andronico Rodriguez l'8 febbraio [2025] in un comizio dei sostenitori di Morales tenutosi nella città di Cochabamba, «il movimento popolare che si è unito attorno al nome di Evo Morales lo sosterrà [ancora] alla presidenza in vista delle prossime elezioni». Come a volersi smarcare dalle ricostruzioni della stampa, ha ribadito il proprio sostegno all'ex presidente. Chissà, però, che non succeda il contrario: in fondo alcune dichiarazioni servono in determinate circostanze specifiche ma lasciano il tempo che trovano nel lungo periodo. Succede così anche in Italia, d'altra parte.

Divisioni interne ed esterne
«È evidente che ci sia uno scontro tra gruppi di potere. Poche persone vorrebbero far naufragare il percorso che fece nascere lo strumento politico. Non so, davvero, come mai Evo Morales voglia tornare al potere costi quel che costi, giungendo a voler dividere e spaccare il Mas, così come le organizzazioni sociali che ne fanno parte», ha dichiarato raggiunta al telefono Julia Damiana Ramos Sanchez, vice presidente della direzione nazionale del Mas-Ipsp e direttrice esecutiva delle Bartolinas (l’organizzazione femminile del partito) della regione di Tarija. Già deputata nel primo esecutivo Morales, successivamente ministra, Ramos Sanchez conosce bene quel che orbita socialmente e politicamente attorno all’ex presidente: «C’è stato un referendum nel 2016» – ha aggiunto - «e il risultato ha espresso chiaramente come Evo non possa continuare ad essere candidato all’infinito, tanto più che non può farlo legalmente data la Costituzione». Costituzione che lo stesso Morales modificò una volta al potere, così come mutò anche lo status giuridico della Bolivia divenuto «Stato Plurinazionale» al fine di valorizzare ogni componente indigena e originaria del paese.

Ma questo ora a Evo non importa più.
Vuole tornare al potere a tutti i costi e per farlo incita parti di organizzazioni sociali a lui fedeli di bloccare le principali strade del paese, di scendere in piazza quasi giornalmente, di diffondere notizie false tramite Radio Kawsachun Coca. Da settimane militanti a lui vicini stanno raggiungendo il suo domicilio, riunendosi con lui presso i locali della Seis federaciones, per «dimostrargli l’affetto e il sostegno politico». Una settimana fa una porzione consistente dei presidenti delle municipalità del dipartimento della capitale politica (La Paz) hanno riconosciuto Evo come candidato alla presidenza alle prossime elezioni che si terranno in agosto. Per dare un’idea dello scontro in atto: il 22 gennaio dello scorso anno i blocchi stradali messi in atto dai sostenitori dell’ex presidente sono durati più di due mesi e avevano paralizzato le principali arterie autostradali. Secondo l'Istituto boliviano per il commercio estero, in quei giorni il paese «perse circa 75 milioni di dollari al giorno». Un dato nefasto per la Bolivia che sta affrontando una crisi economica che si riflette in ogni ambito della vita delle persone: produttiva e sociale.

«In Bolivia c’era crisi ieri, c’è oggi e ci sarà domani: non è una novità. Evo sta utilizzando la situazione per scopi politici e soprattutto per coprire le accuse pendenti nei suoi confronti», ha spiegato da El Alto, alla periferia del mondo, don Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita. Bergamasco di Telgate, missionario laico, è in Bolivia dal 1977 ma sacerdote dal 2023, dopo aver ripreso gli studi di teologia interrotti a seguito della vita matrimoniale con Bertha Blanco (tra le fondatrici del Mas-Ipsp) venuta a mancare nel 2020 a causa del Covid.

La violenza è ovunque
L’accusa più grave a cui Morales deve far fronte è quella di abuso sessuale di una minorenne (come s’è accennato sopra): il tribunale della città di Tarija ha sancito che non può allontanarsi dal paese ed è stato anche emanato un ordine di cattura nei suoi confronti. Sollecitato per tre volte a presentarsi in tribunale, Morales ha sempre disertato l’aula. «Il punto è che Evo è dipendente dall’abuso di donne e di ragazze minorenni in termini di tratta e traffico», tuona Giavarini, che di questi argomenti ne sa qualcosa dato il suo impegno quotidiano con la struttura che dirige.

Il quotidiano boliviano «La Razon», che pure sarebbe vicino alle istanze del Mas-Ipsp, nell’edizione di lunedì 3 febbraio [2025] ha pubblicato numeri piuttosto eloquenti riguardo lo sfruttamento minorile nel paese: «In 11 anni si sono registrati 6.001 matrimoni tra uomini e ragazze minorenni la cui età si aggira tra i 16 e i 17 anni». Ancora: «nel 6,06% dei casi registrati l’età dello sposo è fino a tre volte superiore a quella della sposa». Una situazione evidentemente esplosiva che rappresenta, purtroppo, un costume diffusissimo nel paese.

«Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi», afferma Giavarini «manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità e non vengono veicolati messaggi ed esempi positivi da parte delle istituzioni (che siano governative o scoladtiche); si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile solo come strumento di piacere maschile. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità e uguaglianza: qui a El Alto le ragazzine popolano i locali notturni».

La situazione, dunque, sembra non possa giungere ad una soluzione rapida. Anzi. Lo scontro tra fazioni del Mas-Ipsp, così come quello delle organizzazioni sociali ad esso legate, parrebbe essere destinato ad una recrudescenza sempre maggiore: sulle elezioni che si terranno ad agosto aleggia lo spettro di nuovi scontri sociali, com’è avvenuto per il tentato golpe dello scorso anno e per la Marcia per la vita a cui hanno partecipato i sostenitori di Morales il 14 gennaio [2025] terminata in scontri, lanci di molotov da parte dei manifestanti e lacrimogeni da parte della forza pubblica. La Bolivia, secondo paese al mondo per colpi di stato (35, dietro al Cile che ne vanta 36), non ha ancora trovato una stabilità nella democrazia.


Pubblicato su Pressenza il 17 febbraio 2025