Le insegne luminose attirano gli allocchi


Fame e sonno

Il volo della Thai Airlines è durato 12 ore, al termine delle quali, come nel caso di ogni viaggio così lungo, si ha la sensazione di aver scalato una montagna nonostante si sia rimasti immobili (o poco più) per svariato tempo. Dalla partenza fino alle prime ore dell’alba (ora italiana, circa 22:00) la previdente compagnia thailandese ci ha fornito ben due pasti: il primo avrebbe dovuto rappresentare la cena, il secondo, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere una sorta di colazione ma teoria e pratica non coincidono spesso. Anche l’altro volo Thai per Hanoi avrebbe previsto una colazione (9 di mattina): cous cous con lenticchie e, per fortuna, della frutta. Usciti dall'aeroporto, un muro d'umidità e di caldo ci ha assalito e ci ha subito fatto capire che aria avrebbe tirato in Vietnam. La grande strada che porta alla città di Hanoi pullula di motorini che portano qualsiasi cosa. Anche persone, accidentalmente, ma soprattutto merci. Mancano due giorni alla parata del 30 aprile, giorno della riunificazione e della liberazione di Saigon da parte delle truppe nordvietnamite: i cartelloni propagandistici sono ovunque, così come dappertutto sono le immagini di Ho Chi Minh posto di fianco ad una colomba bianca, simbolo di pace, quella riconquistata dopo la cacciata degli statunitensi dal paese. 

Mai Chau

Il villaggio di Mai Chau si sveglia alle 5:30 circa. Case aperte al piano terra come la grande maggioranza delle abitazioni vietnamite: dalle grandi televisioni poste al centro degli spazi aperti nelle case si diffonde ad altissimo volume la musica della parata militare e il discorso del Presidente vietnamita: tutti sono intenti a guardare la parata: si formano capannelli di fronte ai grandi schermi delle case per poter meglio vedere la dimostrazione del governo. È il cinquantesimo della riunificazione del paese, da quando le truppe nordvietnamite hanno liberato Saigon (ora Ho Chi Minh City), da quando gli Stati Uniti sono stati cacciati dal paese. Gli occidentali fanno ancora fatica a comprendere la portata di questo evento: sulla guida della LonelyPlanet viene usata con grande serenità questa descrizione per illustrare, pur brevemente, l'avvicendarsi del colonialismo e dell'imperialismo in Vietnam: «Saigon divenne capitale della Cocincina (sotto la presenza francese): nel '54 dopo la partenza dei francesi, la città divenne capitale della Reubblica del Vietnam. Quando cadde in mano alle forze nordvietnamite nel 1975 venne ribattezzata Ho Chi Minh City». Nessun accenno alla strage statunitense, "partenza" per indicare la fine della colonizzazione francese, "occupazione" per indicare l'entrata delle truppe nordvietnamite in città. Non fa una piega.

Ma siamo a Mai Chau e qui è festa, così come nei villaggi limitrofi, in ogni città, in ogni agglomerato di case (sia esso urbano o rurale). L'auista e l'interprete (necessario perché il vietnamita è totalmente incomprensibile all'orechio occidentale) mi invitano a sedere al tavolo con loro mentre sui loro smartphone scorrono le immagini della diretta del tg nazionale che manda in onda la parata. 

Ogni portone, ogni negozio, ogni motorino e automobile ha con sé la bandiera rossa con la stella gialla al centro. Ed è così 365 giorni all'anno, non solo in questi giorni di festa. Da tempo il Vietnam sta abbracciando il modello cinese: la Cina non è per loro solo un punto di riferimento politico ma anche di organizzazione sociale. Il marxismo-leninismo vietnamita significa semplicemente "democrazia a partito unico", dunque: forte controllo statale, pianificazione economica ma anche libero mercato, libero accesso ad internet e a Google, pagamenti elettronici con QrCode (o con carte Visa) anche nei mercati più lontani dalle città e via dicendo. La moneta locale è fortemente svalutata: il cambio Euro/Dong (1 euro vale 29.000 Dong circa) assomiglia alle immagini della svalutazione del Marco durante la Repubblica di Weimar. È quel che si direbbe "democratura", il Vietnam: quella torsione, di definizione tutta occidentale, che prevederebbe il mantenimento delle istituzioni proprie della democrazia liberale con un potere governativo molto forte e totalmente decisionista. L'opposizione, in certi casi, è più d'intralcio che positivamente dialettica, si direbbe. Qui, semplicemente, non esiste.

Sa Pa 

Nella città più turistica del nord del paese le contraddizioni si manifestano tutte insieme. Stride fortissimamente l'insieme caotico di bandiere rosse con la stella gialla (alternate a quelle del partito) con locali sfavillanti, pieni di lucine («le insegne luminose attirano gli allocchi», avrebbe urlato qualcuno sotto una drum machine e una chitarra acidamente distorta), ristoranti stracolmi di cibo occidentale e trappole per turisti. Estrema ricchezza ed estrema povertà si incontrano prendendo un taxi oppure girando per le strade in cui donne e bambini di varie etnie del nord vietnamita ballano per pochi Dong mentre vengono filmate da avidi turisti (che poi posteranno quei video su TikTok generando, sicuramente, il triplo del profitto).

Ci sono anche hotel e locali per soli vietnamiti i quali tentano di resistere stoicamente all'invasione occidentale e del turismo di massa proveniente da paesi limitrofi (Cina, Sud Corea, India, Malesia e Singapore su tutti) ma tutto si tiene in piedi su un obiettivo comune: soldi. Sa Pa assomiglia a una di quelle città italiane di località termali: Salsomaggiore, Chianciano o Montecatini, ma senza la crisi che attanaglia le strutture del fu turismo anni '80. Il partito è presente in ogni slogan propagandistico affisso nelle strade, in ogni bandiera posta in ciascuna via ma il profitto è l'unico orizzonte di Sa Pa, quasi fosse un porto franco. Puoi pagare anche in dollari o in euro. I locali non fanno storie: il cambio è comunque a loro favore. 


Sa Pa Hope

Basta fare pochi chilometri e allontanarsi dalle enormi strutture alberghiere, dai locali per massaggi stracolmi di asiatici ed europei, dalle lucine abbaglianti del più sfrenato consumismo per andare a toccare con mano l'esclusione sociale generata dalla sfrenata e sfrontata identità di Sa Pa. I villaggi attorno alla città (ad esempio Ta Phin) vivono di agricoltura e sono popolati da un crogiolo di etnie. Ogni volta che si entra in una piccola comunità (sia essa rurale o cittadina) si viene accolti da una grande struttura posta come ideale porta d'ingresso che recita (in vietnamita e in dialetto della comunità locale): «Avanziamo progredendo nell'inclusione di tutte le minoranze». Attorno a Sa Pa quest'assunto non viene molto rispettato. Ragazze e ragazzi orfani delle minoranze Dzao e H'Mong sono totalmente esclusi dal sistema scolastico statale che, seppur capillare, non riesce ad assicurare loro la presenza educativa. Esclusi due volte. «Viviamo alla giornata: abbiamo un certo numero fisso di ragazzi che frequenta la nostra scuola ma molti altri vanno e vengono», a parlare è Phero Thuong ma a noi si è presentato come Peter, Pietro, perché ha abbracciato da molto tempo la religione cattolica e traduce così il suo nome vietnamita. Il posto, che ha chiamato Sa Pa hope village, è suo e i ragazzi sono divisi in tre livelli a seconda dell'età: «con i ragazzi del terzo livello strutturiamo un progetto scuola professionale, così da poter fare in modo di trovare un impiego nella ristorazione o nei campi». Solo che l'intenzione di Peter si è dovuta scontrare, negli anni, con i costi degli alloggi della città: «per molto tempo abbiamo avuto una struttura al secondo e terzo piano: al secondo facevamo scuola, al terzo i ragazzi dormivano». I più grandi, quelli del terzo livello, potevano essere impiegati nella caffetteria al piano terra del palazzo: «i costi, però, erano troppo elevati e adesso questo è il nostro posto». Il punto è che il progetto di Peter vive dei soli soldi di Peter e di donazioni locali: non ha collegamenti internazionali, non ha contatti con altre associazioni od Ong. «Gli unici volontari che, di tanto in tanto, trascorrono una parte dell'estate con noi provengono da Malesia, Singapore o Filippine», dice un po' sconsolato Peter nel suo inglese molto personale.

«Sarebbe bello che qualcuno insegnasse l'inglese ai ragazzi stando insieme a noi», dice Peter mentre ce ne andiamo. I suoi sforzi sono stati (e sono tuttora) immensi ma c'è bisogno di molto ancora. 



Saigon

Umidità. Caldo asfissiante all'esterno e aria condizionata a temperature polari all'interno dei posti al chiuso. Grattacieli, vetrine di Dior, Tiffany, H&M, fast food americani (Burger King, Popeye), gioiellerie costosissime e negozi d'alta moda abbracciano le grandi arterie che portano al centro della città, nella fu zona vecchia, ora una delle più ricche del sud del Vietnam. Arterie stradali ai cui lampioni sono apposti stendardi del partito comunista e bandiere nazionali. Se a Sa Pa il luccichio dei locali era stridente, a Saigon la situazione è ancora più grottesca. Grandi catene dell'occidente capitalista, centri commerciali a sei piani e negozi di lusso si trovano a proprio agio su quella che doveva essere la più bella promenade della città colonizzata dai francesi, avvolta, come tutte le strade (grandi o piccole che siano), dalle bandiere rosse con la stella gialla o con la falce e il martello. Gli americani hanno perso sul campo la guerra proprio 50 anni fa: il paese in questi giorni è in festa da nord a sud. La riunificazione è motivo di unione patriottica della nazione riconciliata da chi aveva messo i vietnamiti l'uno contro l'altro (prima i francesi, poi gli statunitensi) ma è anche l'occasione per guardare ancora più criticamente il doppio volto di questo sistema a partito unico che ostinatamente rievoca il proprio passato glorificandolo (le immagini di Ho Chi Minh sono ovunque, così come due giorni dopo la liberazione di Saigon) ma che ha accettato il libero mercato con una serenità che apre ancor di più crepe e contraddizioni agli occhi occidentali. Starbucks sulla via Le Than Thon ha quattro vetrine, così come ce le ha una banca cinese che propone un tasso vantaggioso per chi depositerà i propri risparmi e deciderà di ottenere una carta Visa per i pagamenti. Gli americani saranno anche stati sconfitti militarmente sul campo ma il mercato ha battuto l'ideologia; gli iPhone hanno sostituito il motto della rivoluzione «mangia la metà, lavora il doppio per raggiungere gli obiettivi dello zio Ho»; TikTok, Instagram e mille altre piattaforme hanno mutato alla radice la consapevolezza della nazione riunificata e riappacificatasi dopo l'ondata di odio statunitense che ha posto le basi per la divisione al diciassettesimo parallelo. Risuona nella testa "Il mio nemico" di Daniele Silvestri che, sulla base di "Alturas" degli Inti-Illimani, aveva inventato un ritornello che fa comprendere bene la situazione che stiamo vivendo in questi giorni e dannatamente attuale (internazionalmente parlando): «il mio nemico non ha divisa / ama le armi ma non le usa / nella fondina tiene le carte Visa / e quando uccide non chiede scusa [...] Il potere non lo logora». L'Italia è andata nella direzione del nemico della canzone, Silvestri è stato (purtroppo) presto dimenticato dalla gran parte degli italiani e i proiettili del grande capitale sono ancora tutti in canna.

E sembra non esaurire mai le sue cartucce. Il potere non lo logora.


Ho Chi Minh city/Saigon, 7.05.2025

(Altre foto saranno caricate nei prossimi giorni, al nostro ritorno, così come altri post - meno polpettoni - saranno pubblicati più avanti).

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