La paura delle formiche

Foto di Prabir Kashyap su Unsplash

Da giorni sta facendo discutere quanto affermato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla 50° edizione delle Settimane sociale dei cattolici tenutasi nella città di Trieste. È bastato poco, per la verità, perché i sostenitori del presidenzialismo si scaldassero: Matteo Salvini - in forte crisi nel partito - ha, di nuovo, fatto tremare l'alleanza di centrodestra per cercare di recuperare un po' di consenso interno ed esterno. È servita, come al solito, qualche voce meno leghista e più genericamente popolare (in senso di categoria politica, beninteso) di Forza Italia per cucire la proverbiale toppa provocata dal buco leghista. Quei toni utilizzati dal segretario leghista a proposito di «dittatura delle minoranze» hanno fatto arricciare il naso a molti, costretti a prendere parola anche quando non avrebbero voluto, con tutta evienza: la destra al governo deve mantenersi sul politicamente corretto. Poi la Lega ha smentito, ma il fatt(accio) ormai era già accaduto. Non staremo qui a ripetere le dichiarazioni di Mattarella, di Salvini, di Meloni o di Tajani perché di articoli del genere ne è pieno internet e ne sono stati colmi, fino a non poterne quasi più, anche i quotidiani.

Ci interessa, in questa sede, riportare solo una delle tante interviste di commento alla vicenda che radio, tv e quotidiani hanno pubblicato: quella rilasciata da Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia-Berlusconi Presidente, ai microfoni di Lanfranco Palazzolo, giornalista di Radio Radicale andata in onda il 4 luglio [2024].

Gasparri, avendo Palazzolo chiestogli un parere sull’espressione pronunciata a Cortina da Matteo Salvini, ribadisce il suo pensiero stando nel tracciato della politica parlamentare e della questione legata al presidenzialismo per tutta la durata della breve intervista, riprendendo una proposta di Tatarella riguardo lo «statuto delle minoranze», per quel che riguarda l’ordinamento delle due Camere.

Poi, dichiara: «Guardi, [rivolgendosi al giornalista] io un caso di dittatura della minoranza glielo devo segnalare, così concludiamo la riflessione: il più grave caso della dittatura della minoranza è quello che fa sì che Spalletti rimanga alla guida della Nazionale di calcio. Non lo vuole nessuno: è presuntuoso, ci spiega tutto con quel tono di saccenza … Ecco, quello è un caso di dittatura della minoranza. La maggioranza degli italiani non lo vuole: Spalletti, vattene. Eppure, vede: [noi maggioranza] risultiamo sconfitti».

Pacioso e soddisfatto dell’incongruente paragone, Gasparri sorride mentre Palazzolo si avvicina nuovamente il microfono: «Gliela posso dire una cosa? È comunque meglio la dittatura delle minoranze della dittatura del proletariato».

Gasparri, ovviamente, gongola. Va raccontando da un trentennio dei milioni di morti del comunismo, che ogni lustro aumentano di centinaia di migliaia di unità, senza porre la minima distinzione tra chi è stato comunista fino alla fine dei suoi giorni ma venne ucciso dallo stalinismo. «Certo – annuisce sorridendo – io sono contro tutte le dittature e anche quella de Spalletti… nun se ne po’ più».

Quanto ancora fa paura l’espressione dittatura del proletariato? Fa una paura da matti. I sostenitori del neoliberismo, dunque i rappresentanti di organizzazioni politiche afferenti ai campi popolare e liberale, hanno una paura irrazionale che il loro potere piccolo e la loro esistenza possa essere messa in discussione di nuovo, che parlano sempre come se il pericolo della rivoluzione bolscevica sia dietro l’angolo. Quando è chiaro che non è e non sarà così. Perlomeno non avverrà a breve termine. Entrambi gli attori prima citati, Gasparri e Palazzolo, hanno gli uni timore di non contare più nulla, qualora un giorno i lavoratori decidessero di mettersi in testa di farla finita davvero con lo stato di cose presenti, di essere vessati da tasse, di avere sempre meno possibilità di curarsi, di essere sfruttati ai limiti della schiavitù (la vicenda di Satnam Singh è stato un campanello d’allarme che è durato quel tanto che è bastato a far destare qualche anima bella dal proprio torpore politico-ideologico). Gli altri hanno, invece, il timore che, qualora la dittatura del proletariato giunga davvero, si dovrà dare spazio a chi la pensa differentemente anche sui media più ostili, tanto giungerà lontano l’eco dell’evento prima evocato.

Eppure gli epigoni di Karl Marx e Friederich Engels, così come della tradizione del comunismo leninista (e declinazioni conseguenti), non se la passano troppo bene, quantomeno in Italia, tanto sono divisi da essere giunti alla totale irrilevanza politica e sociale. Così talmente atomizzati da essere paradossalmente - al contrario - testardi nel continuare a perpetuare un lavoro politico di sensibilizzazione e di propaganda (per chi ancora è attivo) ma anche ingenui nel seguitare a riproporsi attraverso uno schema che – a ben vedere – ultimamente non ha portato a successi. Come operosissime formiche, sebbene un po’ schiave della routine.

Nonostante questo dato oggettivo, nonostante i comunisti in Italia non formino classe dirigente da almeno un ventennio, l’incubo peggiore per costoro è e rimarrà sempre la «dittatura del proletariato» per chi ha il potere e lo gestisce con protervia, cattiveria, odio sociale, razziale, di classe.

Che poi l’espressione significa, attraverso l’utilizzo di un linguaggio provocatorio («dittatura») di uno dei due autori in particolare (Marx) e di un’opera pubblicata a metà ‘800, quando il mondo sembrava sull’orlo della rivoluzione, che debbano essere gli sfruttati a decidere e non gli sfruttatori.

E questo fa ancora tantissima paura ai Gasparri e ai Palazzolo.

Da non credere.


Un pomeriggio con Angelo Nazio, partigiano di Torre Maura, classe 1925

Il 30 novembre [2023] il gruppo culturale Terrazzi Letterari di Torre Maura ha incontrato il partigiano Angelo Nazio. La volontà del gruppo dei terrazzari era quella di incontrare di persona Angelo Nazio e consegnargli, per mano di Pierina Nuvoli, animatrice del collettivo, una medaglia realizzata appositamente per quell’occasione in cui c’era scritto: ad Angelo Nazio – Eroe della Resistenza – Torre Maura. L’incontro è stato un profluvio di ricordi e rievocazioni ma anche una chiacchierata sulla Torre Maura che fu, sulla Guerra di Liberazione dal nazifascismo, sulla dittatura e sulla vita che quotidianamente veniva vissuta all’ombra di un governo autoritario, antidemocratico, repressivo. Fascista. Angelo Nazio, classe 1925, ha 99 anni e, nonostante l’età, ha parlato e rievocato tutto come se fosse successo un minuto prima del nostro arrivo in casa sua. Ci abbiamo messo un po’ per riannodare i fili di due ore e trentacinque minuti di registrazione del pomeriggio trascorso insieme, ma finalmente abbiamo pubblicato e reso noto a chi vorrà leggere quanto detto quel giorno.

Grazie ad Angelo Nazio.

Parlare, pensare, agire. «Matteotti è stato ucciso dai suoi compagni», questo ci avevano detto a scuola. Ricordo che rimasi molto basito da questa affermazione. Ma non è che potessimo parlare, anzi…

C’è chi si confidava con amici e poi lo stesso che si era confidato veniva carcerato. Era il 1942. Orazio Scuderi [confinante con la nostra casa a Via delle Rondini] costruì un recinto per un federale di zona [di Torre Maura]: Merlandi. Scuderi aveva sette figli e io sono andato a scuola con una delle sue figlie, Graziella, poi morta di tubercolosi. Scuderi ricevette un acconto da Merlandi ma il Federale, anziché pagarlo, nicchiava e rimandava il saldo finale. Una sera, mentre Scuderi usciva dal negozio della Sora Checchina, mia madre la quale aveva una rivendita di vini e oli, si imbatte con Merlandi e gli riferisce che aveva da pagare vari conti che aveva in sospeso (all’epoca c’era il vizio di segnare le cose dai fornai, dai lattai e via dicendo) pregandolo di saldare i conti che avevano in sospeso. Merlandi lo scansa e lo tratta da ubriacone: si alzarono i toni, le parole si fecero grosse e poi tornarono a casa. La mattina dopo successe che due carabinieri si presentarono a casa di Scuderi e lo portarono via a Regina Coeli: s’era fatto sei mesi. L’accusa che gli veniva rivolta era d’aver accusato Benito Mussolini in persona. Evidentemente non era così. Capirai era n capoccione, quello. [riferito al Federale - intervento di Marisa Nazio Fabriani, sorella di Angelo Nazio] Uno dei fratelli di Scuderi era una guardia e raccolsero testimonianze sul fatto, le chiesero anche a mia madre indagando se si fossero alzati i toni a tal punto da parlare male del Re e di Mussolini: mia madre disse di no andando perfino al processo a testimoniare. Ma comunque Orazio Scuderi s’è fatto sei mesi da innocente a Regina Coeli. Ecco, oggi si può parlare. Allora non si poteva.

«Fettuccine e polli». Uno neanche se lo immagina il pericolo che abbiamo corso e le cose che facevamo, col senno di poi. Io e Camillo Del Lungo (classe ‘23, abitava a via degli storni) camminavamo verso Centocelle [1]: eravamo all’altezza di San Felice da Cantalice (che ancora non era stata costruita, se non ricordo male). Il giorno dopo sarebbero scaduti i termini da rispettare per rispondere alla chiamata alle armi. Se non ci si presentava, si diventava renitente alla leva e le pene potevano variare: se ti andava bene, ma è un eufemismo, ti caricavano su un treno per farti andare a lavorare in Germania; se ti andava male ti fucilavano. Chiesi a Camillo: «Tu che farai domani, ti presenterai?», lui mi rispose che si sarebbe presentato. La mattina prestissimo presi il trenino verso Fiuggi [2] e me ne andai. Il trenino, che poi lo conosciamo tutti come Laziali-Grotte Celoni o Laziali-Pantano, ‘na volta arrivava a Fiuggi e faceva delle fermate intermedie, sebbene non a tutte le corse. Me ne volli andare a Capranica Prenestina [3] da mio zio che faceva il procaccia (portava la posta da Palestrina a Capranica) con cui mi sarei dovuto incontrare a Palestrina: persi la coincidenza e me la dovetti fare a piedi. Sono arrivato alla piazza del paese che sembravo un mugnaio, tanto ero impolverato.

Da mangiare, però, non c’era: deperii molto, tanto che mi venne la febbre e tornai a casa a Torre Maura. Vedendomi così, i miei si preoccuparono a tal punto da chiamare il dottore Anagni, che allora esercitava a Torrenova. Lui, laconicamente, disse: «Servono solo fettuccine e polli».

A proposito di Camillo: addirittura, ma ve la riferisco così come m’è arrivata [questa notizia], diventò anche repubblichino prima di passare ad essere dissidente e partigiano. Per un periodo, però, mi distaccai da queste vicende, non perché non mi interessasse, ma perché volevo concludere gli studi e volevo fortemente riuscire a diplomarmi

[Intervento di Pierina Nuvoli] Il padre, Carlo Del Lungo era militare ma, sebbene lo fosse, aveva costruito un rifugio sotterraneo e molti a Torre Maura vissero lì per un periodo.

[Riprende a parlare Angelo Nazio] Ma anche a Capranica Prenestina la situazione fu simile: due militari, ad esempio, furono giustiziati. Guer(r)ino Sbardella fu fucilato a Forte Bravetta, un altro Angelo Martella finì alle Fosse Ardeatine.

Azionista a Centocelle. Dopo essermi rimesso, iniziai a prendere contatto con il Partito d’Azione nell’ottava zona partigiana. Era una zona piuttosto estesa che andava da Tor Pignattara fino alla Borgata Finocchio, praticamente. Era il 1943-1944: avevo 18 anni, nonostante avessi comunque già iniziato l’attività a 17 anni. Distribuivo il giornale Giustizia e Libertà, principalmente, così come d’altra stampa, volantini. Era un giornale stupendo: ti apriva gli occhi con quello che veniva riportato. Beninteso: Giustizia e Libertà constava di uno, massimo due fogli, non era come i giornali di oggi. Mi attraevano e mi appassionavano tantissimo gli articoli di Lussu.

Un giorno, però, presero il responsabile del gruppo di Centocelle, lo chiamavamo Primo: eravamo molto preoccupati sul futuro del gruppo, se fosse stato opportuno o meno continuare a riunire il gruppo di azionisti. Spesso si effettuava un lavoro politico senza conoscere gli altri componenti del gruppo: se avessimo fatto una riunione pubblica, per assurdo, in mezzo alla strada, non ci saremmo neanche riconosciuti. Una decina di giorni dopo, però, Primo, lo videro passeggiare a Piazza dei Mirti. Fummo presi da sgomento: «Ha parlato», pensavamo. La situazione era ancor peggiore di quando l’ebbero arrestato.

La delazione era un’incognita, un imprevisto che coglieva tutti di sorpresa e che spaventava moltissimo. Chi faceva la spia a volte si vendeva per cinquemila lire. Per l’epoca era una somma cospicua, senza dubbio: ma mettevano a repentaglio la vita di tanti per un proprio immediato tornaconto personale.

A tal proposito vale la pena ricordare un dato: tra i gruppi che pagarono maggiormente in termini di vite umane, ci fu il Partito d’Azione, anche in rapporto ai numeri dell’organizzazione. Anche il Partito comunista italiano venne falcidiato, ma soprattutto a Centocelle il Partito d’Azione fu l’organizzazione che venne maggiormente colpita e che pagò il tributo maggiore. E non sto utilizzando il termine vittime per identificare, ad esempio, anche chi venne sbattuto in galera, ma solo considerando i morti.

Non potevamo stare con le mani in mano: io e altri, essendo stati raggiunti dalla voce della probabile delazione, aderimmo ai Gap (Gruppi d’azione patriottica) del Partito comunista italiano, più rigidi nelle regole. Se la memoria non m’inganna: fu il febbraio del 1944. Rimasi con i Gap fino alla Liberazione di Roma.

Ribadisco: col senno di poi uno non si capacita di quel che ha fatto. Il punto è che tante cose, tante azioni le abbiamo fatte – benché pericolosissime – perché ci si sentiva davvero di farle. Nessuno mi ha mai obbligato a farlo, eppure l’ho fatto. Ed è stato possibile perché mio padre ha dato aiuto e supporto alle azioni.

I mitra sotto al letto. Mio padre rischiò la vita con e come noi e lo ha fatto perché sentiva il peso di vent’anni di dittatura fascista. Quando vennero i tedeschi a casa nostra, quindi durante l’occupazione, lui ebbe davvero un colpo di genio.

Io avevo nascosto dei mitra sotto al materasso: la mia stanza era a piano terra e quando dei soldati tedeschi chiesero (non cortesemente, diciamo, con il piglio nazista delle truppe occupanti) la mia stanza, mio padre subito iniziò a dire che non si poteva perché io stavo studiando alacremente per il diploma e non era proprio il caso. Mi sarei diplomato solo nel 1945. E poi non abbiamo letti disponibili per voi, gli aveva detto mio padre. Loro, ovviamente, cercarono di imporsi verbalmente con le cattive, ma se quelli entravano nella mia stanza e disgraziatamente controllavano sotto al letto, mettevano al muro tutti quanti. Luigi [il fratello] se la sarebbe vista bruttissima: era in fasce ma avrebbero ucciso anche lui.

Alcuni nostri vicini (si chiamavano Luppini) avevano un bel casale, un bell’edificio, che oggi sarebbe la casa rossa a fine di Via delle rondini: i Luppini presero la via del settentrione e andarono via da Torre Maura, ma mio padre aveva un amico (Antonio) il quale aveva le chiavi del loro stabile. Mio padre prese tempo coi tedeschi e si recò dal suo amico, senza stare troppo a spiegare (c’erano pur sempre dei fucili sotto al mio materasso!), chiedendo la chiave dei Luppini. Tornati i tedeschi, ottenute le chiavi da parte di Antonio, l’ufficiale nazista rimase meravigliato, ed era tutto un profluvio di «Ja Ja!»: il posto gli piaceva, sicuramente era più agevole di una sola stanza, la mia, pur al piano terra. Si trattava di uno stabile che aveva cinque-sei stanze ma non c’erano materassi e c’era bisogno di paglia: gliele rimediò mio padre, purché stessero lontani dalla mia stanza-polveriera!

Facevamo sul serio A Via delle rondini (il mese non lo ricordo) fui avvicinato da un ragazzo più grande di me, di cognome faceva Tafuro, ma non ricordo bene. Allora ero ancora nel Partito d’azione: mi avvicinò e mi disse che voleva prendere parte al Pd’az anche lui. Io trasecolai: chi gli aveva detto che stavo facendo attività clandestina? Il Partito d’azione, almeno per quel che ho vissuto io, non era così rigido come i Gap e, spesso, qualche informazione usciva dalle maglie dell’organizzazione. Gli risposi affermativamente, anche se non conoscevo le sue intenzioni, dandogli appuntamento di lì a due giorni: sarebbero venuti dei compagni da Centocelle a confezionare delle armi nella stalla dove i miei avevano una cavalla. Si presentò puntuale ma, una volta viste le armi, si spaventò a tal punto che scappò via e non lo vidi mai più. Chissà che si era messo in testa, urlò: «Ma siete matti?!». I giorni successivi eravamo in allerta: se avesse parlato, addio gruppo rivoluzionario. Non parlò mai: si doveva essere spaventato a tal punto da rimanere sempre in silenzio.

«La Russa? Un criminale». Come si fa a definire una banda musicale l’SS Polizeiregiment Bozen? Come si fa ad avere questo coraggio nel dire una cosa simile di un reggimento che sfilava armato per le vie di Roma? Il riferimento è, ovviamente, all’attacco partigiano dei Gap a Via Rasella. È pure, però, stupido chi ce crede a quello che ha detto.

Odio la guerra. Molti pensavano – e pensano tutt’ora – che uno ha intrapreso la scelta della Resistenza (dunque della lotta armata di Liberazione) perché gli piaceva fare la guerra, perché gli piacevano le armi. Io la guerra la odio. Non ho mai amato le armi e ho educato i miei figli a una cultura antimilitarista tanto che sono stati obiettori di coscienza al momento della leva obbligatorio. Il più piccolo, Massimiliano, che è sacerdote e missionario, ha svolto il suo periodo di obiezione di coscienza con l’esperienza creata da Don Luigi di Liegro.

Loro hanno succhiato il latte della famiglia: a casa non sono mai entrate armi. Pino, che ora è giornalista anche con la Rai, quando andò in Siberia mi riportò un coltello di pregevole fattura. Era davvero un bell’oggetto. Lo vidi una volta sola: mia moglie Rosy (Rosina) e Pino lo fecero sparire perché a casa non dovevano esserci armi.

Aneddoto familiare a parte, io davvero non avevo simpatia per le armi e per la guerra. L’ho fatto perché sentivo di doverlo fare, perché sentivo che non c’era alternativa, perché chi paga sono sempre i popoli: prima eravamo noi, ora sono quello palestinese e quello israeliano, quello ucraino e quello russo.

«Li abbiamo lasciati andare» La mattina della Liberazione di Roma (era prestissimo) io e altri tre percorrevamo a piedi la Via Casilina: all’incrocio tra Via di Torre Spaccata e Via di Tor Tre Teste abbiamo notato i primi carri armati e blindati degli Alleati. Un graduato tedesco, visti i mezzi nemici, rimase intrappolato: voleva, probabilmente, andare a raggiungere una consolare che non fosse la Casilina (magari la Tiburtina) per cercare di scappare. Partirono dei colpi dalla torretta dei blindati americani per cercare di colpirlo. Noi quattro, vedendo il fatto, abbiamo visto l’ufficiale tedesco che cercava di scappare: l’abbiamo rincorso e consegnato agli Alleati. Dovevamo raggiungere il comando a Via delle robinie ma non volevamo percorrere la Casilina, preferendo tagliare per Tor Tre Teste. Notammo quattro soldati tedeschi, appiedati, che stavano in ritirata. Eravamo pari di numero ma loro stavano battendo in ritirata: potevamo consegnare anche loro ma non l’abbiamo fatto. Tutti noi eravamo d’accordo su un fatto: non erano loro i responsabili, non la truppa (sebbene quella nazista realizzò delle nefandezze con una tale cattiveria e irrispettosità che tutti conosciamo). Li abbiamo salvati, anche se loro non l’avrebbero mai fatto. Anni dopo raccontai l’episodio a mio figlio: sussultò in un moto di riprovazione.

Grazie ad Angelo Nazio. Grazie ai ‘ribelli’ di allora.

NOTE:

[1] Il libro Torre Maura di Laura Dondolini e Pierina Nuvoli riporta la medesima testimonianza in cui Angelo Nazio riferisce di essersi lasciato con Camillo a Torre Maura e non a Centocelle. La sostanza del discorso, al di là dell’ubicazione geografica nella periferia romana, rimane immutata.

[2] «Torre Maura era raggiungibile, oltre che con il carretto o a piedi, percorrendo la Via Casilina, anche con il Tram. La linea ferroviaria Roma-Alatri-Fiuggi-Frosinone, il cui progetto fu presentato nel 1907 dall’ingegner Antonio Clementi, che operava per conto di una società belga presente in Italia, prevedeva una linea a scartamento ridotto. La concessione venne data alla Società per le ferrovie vicinali (SFV) […] Il 28 aprile 1927 venne inaugurata la diramazione urbana Centocelle-Piazza dei Mirti».

Dondolini Laura; Nuvoli Pierina; Torre Maura, p.34, CivilMente edizioni, 2015, Roma.

[3] La famiglia di Nazio era originaria di Capranica Prenestina, come hanno scritto Laura Dondolini e Pierina Nuvoli nel loro prezioso volume Torre Maura, riportando le interviste svolte sul campo frutto di anni di ricerca. Marisa Nazio Fabriani «La mia famiglia è originaria di Capranica Prenestina. Abitavamo a Centocelle, dove mio padre lavorava in una grande fattoria di proprietà di Falchetti. Aveva gli orti e seminava tanto grano. Un anno ne ha dato ‘all’ammasso’ ben 60 quintali. […] Avevamo 25 vacche ma a Torre Maura ne abbiamo portate solo 4 o 5». Dondolini Laura; Nuvoli Pierina; Torre Maura, p.42, CivilMente edizioni, 2015, Roma.














Cosa sta succedendo (e cosa succederà) in Bolivia

«L’unico soggetto che può rovesciare il governo è il popolo: la democrazia boliviana può difenderla solo il popolo boliviano», è stato Luis Arce (presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia) a dirlo, a scandirlo nel microfono e nel megafono che gli veniva posto davanti alle labbra, insieme al suo vice David Choquehuanca, dal balcone del Palazzo del Governo (Palacio Quemado) in Piazza Murillo, nel pieno centro di La Paz. Sono le 17:30 di mercoledì 26 giugno [2024] e il tentato golpe promosso dall’ormai ex capo delle forze armate boliviane Juan José Zúñiga è durato solo tre ore e parrebbe essere già terminato. Zúñiga è stato destituito e il presidente Arce ha nominato un nuovo comandante dell’esercito (il quale ha provveduto immediatamente a liberare la Piazza e a ritirare le truppe), azzerando anche le cariche dei graduati che hanno prestato il fianco all’operazione. Attorno alle 14:30, la città di La Paz, la Bolivia intera, ha dovuto fronteggiare una situazione che per la storia del paese non è affatto nuova, ma certamente è stata inaspettata in questa circostanza, nonché per Arce e il suo vice Choquehuanca. Blindati e componenti dell’esercito hanno bloccato i quattro lati di Piazza Murillo e un automezzo armato di mitragliatrice è riuscito ad arrivare a un passo dalla porta d’entrata di Palacio Quemado: dentro probabilmente, come hanno riferito fonti della stampa locale e dell’America Latina, c’erano i due ex, gli unici arrestati al termine della giornata. Ovvero: Juan José Zúñiga e il vice ammiraglio Juan Arnez Salvador.

Zúñiga, per la verità, non parrebbe aver agito senza sapere quel che stava facendo: nei giorni scorsi antecedenti al tentativo di golpe era stato raggiunto dai microfoni della trasmissione No mentiras e, intervistato dalla popolare giornalista Jimena Antelo, rispondeva così: «Gli altri comandanti non erano come me: io non ho paura. Sono un militare e un militare giura sulla Costituzione per difendere la sua patria e il suo popolo». Secondo l’ex capo dell’esercito, lo Stato non era più in grado di mantenere la legalità attraverso la Costituzione, anche a causa del fatto che si stia tacitamente permettendo che l’ex presidente Evo Morales potesse ancora proporsi per un nuovo mandato alle prossime presidenziali: «Quell’uomo – ha dichiarato l’ex graduato a No mentirasnon può più essere Presidente di questo Paese […]. Legalmente non può farlo. La Costituzione dice che non può essere (Presidente) per più di due mandati ed è già stato rieletto tre, quattro volte. Le Forze Armate hanno la missione di far rispettare la Costituzione Politica dello Stato». Una tensione vibrante che a La Paz e Sucre (le due capitali) si respirava già da giorni, evidentemente. Mentre il tentativo di golpe era in atto, Zúñiga ha continuato a rilasciare interviste alla stampa, in particolare una dichiarazione, ripresa anche da Correo del Sur farebbe riflettere sul senso dell’operazione e darebbe una chiave di lettura dell’azione: «La prenderemo [la Casa Grande del Pueblo]: ripristineremo la democrazia, libereremo i nostri prigionieri politici». Così come al termine del tentato golpe, e prima di essere portato via dalla forza pubblica, stando al Correo del Sur, Zúñiga avrebbe affermato che la movimentazione di soldati e mezzi blindati sarebbe stata concordata col presidente Arce al fine di aumentarne la popolarità. Affermazioni di cui risponderà l’ex capo militare all’interrogatorio a cui verrà sottoposto. Il partito di governo, il Mas (Movimento al socialismo), sembrerebbe essere il grande nemico dell’ex capo dell’esercito Zúñiga, sebbene la sua azione si fosse rivolta verso Evo Morales (ne aveva annunciato l’arresto in diretta tv), l’intenzione si rivolgerebbe effettivamente allo Stato a guida del partito di cui fanno parte anche Arce e Choquehuanca.
«Abbiamo vissuto, quel che si direbbe, "un giorno anomalo"», ha raccontato all’AtlanteDon Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundaciòn Munacim Kullakita di El Alto. «Ora si sta vivendo una relativa calma a La Paz: Arce ha pronunciato un discorso volto a rassicurare la popolazione, ha detto che la situazione è rientrata ed è tornata sotto controllo. Certo, di argomenti per contestare il governo ce ne sono, a partire dallagiustizia, se vogliamo fare un solo esempio dato che è uno dei miei campi». La gente, però, ha risposto: «È scesa in strada sostenendo la democrazia e rigettando il tentato golpe dei militari – ha detto Giavarini – quindi effettivamente la situazione è tornata alla normalità». Al momento pare di capire che in Bolivia ci sia più una sensazione di stasi, dunque bisognerà capire quale sarà la normalità a cui giungerà il paese.

«No hay plata!»

La situazione in Bolivia non è propriamente rosea. David Choquehuanca, vicepresidente dello stato Plurinazionale, in più di un’occasione nel corso del suo mandato ha ripetuto – pur senza fare nomi esplicitamente – che alcuni esponenti politici avrebbero rifiutato di approvare i crediti di cui vanta lo Stato. Sulle reti sociali dell’America Latina è diventato virale il primo video in cui Choquehuanca, durante un’iniziativa del suo partito, si è lasciato andare ad un commento quasi liberatorio, tanto era il peso specifico di quelle parole: «Stiamo in una situazione difficile: non ci sono soldi! (no hay plata!)». Un’eco di quella stessa espressione pronunciata durante il primo discorso da presidente dell’Argentina di Javier Milei: «No hay plata», scandendo ogni singola parola. Difficile, ad ogni modo, dare torto a Choquehuanca, al netto dei soldi che devono tornare allo Stato e che non starebbero prendendo la via di Palacio Quemado: 1 boliviano attualmente vale 0,13 centesimi di Euro, viceversa per un Euro ci vogliono 7 bolivianos e 70 centavos. Lo stipendio medio di un meccanico si aggira attorno ai 500 bolivianos, poco più di 60€. Da mesi perdura, poi, una situazione di instabilità legata alle riserve di carburante e l’evento di ieri ha scatenato una ancor maggiore irrazionalità da parte dei consumatori e dei trasportatori, tanto che l’Agenzia nazionale idrocarburi (Anh) ha dovuto emettere un comunicato in cui si invita alla calma e assicura come la «fornitura di combustibili» sia «garantita in tutto il paese». Si può ancora comprare carburante, dice l’autorità, ed è anche garantita la vendita ma le lunghe code di camion al confine con l’Argentina che durano da settimane suggerirebbero l'esatto contrario. Eppure, nonostante la situazione di crisi politica e di difficoltà economica, la Bolivia continua ad essere vista come meta d’emigrazione per persone provenienti da Haiti e dal Venezuela.  
 
L’eredità di Evo: i «due Mas»
Ma perché Zúñiga ce l’aveva con Morales, al punto di dichiarare di volerlo arrestare, per la faccenda della candidatura alle presidenziali? Tutto è cominciato più di un anno fa, quando l’ex presidente boliviano Evo Morales ha annunciato di volersi candidare nuovamente alle presidenziali del 2025. Una data cruciale per la Bolivia: è l’anno in cui si celebra il Bicentenario. Ad ottobre dello scorso anno [2023], Evo Morales ha tentato il colpo di mano sul Mas, di cui è tutt’ora Presidente (la carica giuridicamente più importante) convocandone la parte del partito a lui fedele in un congresso-farsa nel dipartimento di Cochabamba, nella cittadina di Lauca Ñ e da lì è cominciata a venir giù la metaforica e proverbiale slavina. Il partito si è spaccato ed ora esistono due parti del Mas (una evista e l’altra arcista) che sono letteralmente l’una contro l’altra. Si aggiunga la questione della cosiddetta auto-proroga dei giudici: il Presidente Arce sostiene la proroga dei giudici di quella che in Italia chiameremmo Corte Costituzionale e che invaliderebbe la candidatura di Morales alle presidenziali. Non essendosi ancora tenuta la votazione popolare che sostituisca i membri decaduti a dicembre 2023, il Governo li ha prorogati de facto. Evo ha mostrato i muscoli e ha proceduto con i suoi mezzi: blocchi stradali in tutto il paese. Dal 22 gennaio a metà febbraio i sostenitori di Morales (che guida la sua corrente dal fortino di Cochabamba) hanno paralizzato le principali strade e autostrade del paese, in particolare l’arteria Oruro-La Paz, attuando blocchi stradali, interrompendo commerci, trasporti pubblici e privati. Secondo Gary Rodriguez, portavoce dell'Ibce (l'Istituto boliviano per il commercio estero), in quei giorni «l'economia boliviana ha perso circa 75 milioni di dollari al giorno». Ma la faccenda non si è conclusa neanche in quel caso. Se Morales ha convocato il congresso ad ottobre [2023], riconvocandone poi un secondo nel marzo di quest’anno (chiamato ampliado), Arce ha risposto chiamando l’assemblea congressuale a El Alto nel mese di maggio. Per l'amministrazione e la burocrazia boliviana, però, nessuna delle convocazioni è giuridicamente valida: nessuna delle assemblee è stata riconosciuta come propria del Mas così come nessuna ha avuto il placet per la registrazione del nuovo statuto che entrambe le parti hanno riscritto in separata sede. Nel corso di questo braccio di ferro politico si è inserita la divisione all’interno di ogni singola organizzazione sindacale, sociale e interculturale che orbita attorno al Mas tanto che il 2 marzo il grande incontro (in aymara: Jach’a Tantachawi) tenutosi a Oruro e promosso dal Conamaq (il consiglio nazionale delle popolazioni indigene del Qullasuyo) è terminato a pugni e sediate, con tanto di intervento della forza pubblica. E sì che l’organizzazione doveva scegliere un nuovo rappresentante tra due entrambi del Mas (uno arcista l’altro evista). I rapporti tra le due ali del Mas sono andati deteriorandosi sempre di più quando ad inizio giugno [2024] il presidente del Senato Andronico (Mas, vicino a Morales), in sostituzione al presidente assente e al vice Choquehuanca in missione all’estero, ha fatto in modo di far approvare la destituzione dei componenti del tribunale che invaliderebbero la candidatura di Evo nel corso di una seduta parlamentare. Le elezioni popolari non sono state, tuttavia, ancora indette e la proroga dei giudici continua ad esserci de facto. L’azione di Andronico non ha fatto altro che inasprire ancora di più le parti in lotta nel Mas e nella società boliviana.  
 
«Autogolpe!» 
Eppure, dopo tutto quello che è successo, le organizzazioni di Cochabamba vicine alla Seis federaciones e fedeli a Morales, hanno serenamente parlato di autogolpe. L’esecutivo della Seis ha parlato esplicitamente di «pagliacciata». Elena Almendras, dirigente della Federazione delle Comunità Interculturali di Chimoré (Cochabamba), ha dichiarato che il tentativo di golpe è stato uno «spettacolo mediatico preparato mesi fa dal Governo» con l'obiettivo di aumentarne la popolarità. La stessa Almendras, insieme alle organizzazioni sociali del Tropico, ha aggiunto: «poiché l'“autogolpe” non è andato come previsto, cercheranno di arrestare l'ex presidente Evo Morales». Ancora una volta le realtà sociali, civili e associative vicine all’ex leader del Mas ingaggiano lo scontro frontale con l’altra fazione del partito, citando anche (e soprattutto, verrebbe da dire) la questione del golpe che sarebbe stato programmato. Tesi confermata anche nel corso della conferenza stampa del dipartimento di La Paz del Mas (evista): «Il Presidente e il suo Vice stanno generando paura nel popolo boliviano. Quello che è accaduto ieri [26 giugno] è stato chiaramente pianificato dalgoverno: un autogolpe». Non si arriverà all’arresto di Morales, come ha dichiarato Almendras, ma certamente l’eredità di Evo è pesante, tanto quanto quel blindato che è andato a "bussare la porta" di Palacio Quemado. Un peso specifico, quello di Morales, con cui non solo il Mas, ma anche la società boliviana tutta dovrà fare i conti. E se una gran folla di gente è scesa in piazza sostenendo la democrazia e il presidente Arce nel momento di maggior tensione nel pomeriggio di ieri, è altrettanto vero che attorno ad esse si stava iniziando a radunare una piccola (ma rumorosa) folla di evisti in cui veniva scandito: «Esto no fue golpe, esto fue teatro [non è stato un golpe, è stato un teatro]». La società boliviana si è atomizzata ed è stata polverizzata a tal punto che è impensabile che le due parti in lotta all’interno del Mas possano siglare un accordo di tregua. Certo è che oggi si è giunti ad un punto da cui difficilmente si riuscirà a tornare indietro serenamente.

L'antidoto al razzismo è una corsa verso Lupionòpolis

Il disco americano di Peppe Voltarelli, a due anni dalla pubblicazione di Planetario, a dieci da «Lamentarsi come ipotesi» (ultimo disco di inediti), si chiama «La grande corsa verso Lupionòpolis» (Visage, 2023). È americano per un’ovvia ragione: è stato registrato negli Usa e alle canzoni hanno collaborato dei musicisti statunitensi che hanno non di poco impreziosito le canzoni di Voltarelli.  

«Era un desiderio covato per molti anni – ha dichiarato Voltarelli a BlogFoolk Magazineho passato dei lunghi periodi a New York City con residenze artistiche in club della città che mi hanno fatto scoprire ed amare la sua congestione urbana il suo linguaggio i suoi abitanti le sue difficoltà».
La complicità artistica con Simone Giuliani e Marc Urselli ha fatto il resto ed è nato «La grande corsa verso Lupionòpolis». Le atmosfere newyorkesi hanno fatto bene al cuore artistico di Voltarelli e alla sua voglia di tornare a registrare: «[…] poi, il saluto alla signora che stava all'uscita della metro che ogni mattina mi diceva "Come on Pepe, today it’s the day” […] Quando entravo in studio e traducevo dal calabrese in italiano i testi dei pezzi e poi con Simone dall'italiano in inglese, sentivo una grande responsabilità ma sono abituato a giocare in trasferta»

Un antidoto al razzismo
«La grande corsa verso Lupionòpolis» rappresenta un ritorno a quello che Voltarelli sa fare meglio: raccontare storie di migrazione italiana, cantare la saudade italiana in terra straniera, sognare di essere felici anche nel posto meno ospitale del mondo. Basta saper guardare il mare: «si guardo u mare ‘un signu sulu mai» (Nun signu sulu mai – La grande corsa verso Lupionòpolis). 

Voltarelli riannoda con sapienza e maestria i fili che lo hanno reso ancor più celebre dopo la separazione da quel funambolico esperimento di contaminazione che era Il parto delle nuvole pesanti. Ogni canzone del nuovo disco sembra voler raccontare di quanto sia sofferta e unica l’esperienza di sentirsi italiani in terra straniera per i più disparati motivi. Un’alterità che Voltarelli ha saputo raccontare con svariate canzoni, facendone la cifra del suo essere, del suo cantare e anche del suo vestire (nel senso letterale del termine).

Sembra che non sia passato un giorno da Onda calabra (pubblicata con Il parto delle nuvole pesanti) la cui visione del video era indispensabile per capire e comprendere a fondo le parole del ritornello («Onda calabra / In doichlanda / Und die kleine / Und die spiele / Und die arbeite») da Sta città. Italiani, calabresi in Germania. 

L’autore si spinge ancor più lontano: ben oltre il Brennero e le Alpi e decide di varcare l’Oceano, un «mare niro funno chi fa paura» (Mareniro). E anche se Mozza può apparire una canzone di poco conto al primo ascolto, al secondo si coglie subito il velo di tristezza, reso meno consistente dalla melodia e dal divertente ritornello: «Nu stamo caminammo ppe ri strade e Montrial / Simo troppo bell e ni volimo semp scialà / Tu dici all'improvviso iamuninn au cinema / Va bono sì ma prima ma prima fammi mangià» e ancora: «Trasimo ntra nu posto piccolino a San Michel / All'intra poca gente e tante foto e l'Italie / C'è pure nu cantante quanto è bravo poverino / Arriva ru mangiare forza sona Peppino […] Si po essere felici pure dintra u Canadà». Certo, si può essere felici, vanno bene la mozzarella e i panzerotti, ma il cantante è «bravo» e «poverino». 

Il Mino Reitano del XXI secolo è certamente Peppe Voltarelli non solo perché canta d’emigrazione riuscendoci in un modo non banale, ma perché lo fa in totale controtendenza a quello che è il clima presente nel Bel Paese. Le destre al governo cercano di esaltare la cultura italiana (o meglio, una piccolissima parte di essa) per far sì che l’identità nazionale si saldi in contrapposizione con la paura del diverso rappresentato da migranti, dai richiedenti asilo e dagli stranieri in cerca di patria, di cittadinanza. Ma il risultato è solo quello di fornire un’idea di Italia fatta di luoghi comuni, come ha fatto Giorgia Meloni al G7 parlando ed esaltando la cultura enogastronomica italiana in un luogo che non c’è: «un resort di lusso dove non ci sono abitanti ma solo lavoratori». 

Lavoratori, laureati, professionisti che ogni anno lasciano l’Italia per diventare cittadini di altri paesi. Italiani in terra straniera che diventano inglesi, statunitensi e tedeschi. L’emigrazione è cosa seria e gli italiani lo sanno benissimo. E Voltarelli la canta ancor meglio.


Europee ed egoismo: anticamera del presidenzialismo [Atlante editoriale]


Foto di Elimende Inagella su Unaplash

C’è speranza? Forse sì. Ma la speranza passa per l’autocritica che, al momento, non parrebbe essere all’ordine del giorno dalle parti di Bruxelles/Strasburgo. 

«Gli elettori europei hanno parlato. […] Si ipotizzeranno vecchie e nuove maggioranze, si inizieranno anche le trattative per nominare i nuovi vertici. Si cercherà lo schema classico: un presidente della commissione al Partito popolare europeo, un presidente del consiglio ai socialisti del Pse, un altro rappresentate ai liberali e qualche altro strapuntino per i sovranisti considerati frequentabili. Si approverà un’agenda europea piena di slogan già vecchi ma ripetere la solita stanca liturgia della politica europea non ha senso». A scriverlo è stato David Carretta, giornalista tra gli altri del Foglio e di Radio Radicale, all'indomani dei risultati delle europee in Italia. Che la struttura (politica) europea non potrà più essere la stessa risulta evidente, perfino ai più sostenitori dell’UE così come si è mostrata nel corso di questi decenni e il risultato elettorale non è, in effetti, tra i più scontati (come invece parrebbe essere stato dalle parti di Libero, Giornale e La verità). Da mesi politica e giornali parlano dell’onda nera che avrebbe travolto l’Europa e in effetti, al netto dell’astensione dal voto, così è stato. L’Europa – o meglio: il suo establishement – dovrà mettere in discussione se stessa per far sì che riesca ad essere percepita nei confronti degli elettori e dell’opinione pubblica, ma l’autocritica non parrebbe all’ordine del giorno dalle parti di Bruxelles/Strasburgo. Antonio Tajani, eco del Ppe in Italia, non parrebbe porsi sul chi-va-là dell’astensionismo o del clima generale di un Presidente (Macron) che scioglie le camere e indice le elezioni nel suo paese nel corso dei primi exit polls: «Noi siamo il Ppe, primo partito: saremo centrali ed essenziali», come ha dichiarato nel corso della notte elettorale al Corriere della Sera

Respinti all’uscio 

Evitando la ripetizione di percentuali raggiunte dai partiti e dalle liste, dati che il lettore potrà trovare visitando qualsiasi sito di quotidiani allnews, scorrendo sul proprio smarphone tra le Google news o anche accendendo una televisione, in questa sede proviamo a tracciare un profilo diverso di questa tornata partendo da chi non sarà rappresentato al Parlamento Europeo, nonostante tutti i pronostici. Il riferimento è all’area liberal-democratica: le due liste che facevano riferimento a Renew Europe (e all’Alde), ovvero Stati Uniti d’Europa e Azione, si fermano al di sotto del quorum. I due rassemblement liberal-democratici non hanno convinto pienamente coloro che si sono recati alle urne e molti commentatori hanno notato che le due liste hanno finito con l’annullarsi. Perché «i due rassemblement»? Perché sia Stati Uniti d’Europa che Azione miravano a rappresentare un variegato mondo liberal-democratico, ora con sfumature socialiste liberali ora con nostalgie da Prima Repubblica (Psi e Pri erano alleati rispettivamente con Stati uniti d’Europa e con Azione). L’operazione ha finito col rappresentare una propagandistica testimonianza, come spesso accadeva per le liste della sinistra radicale (o comunista) da essi spesso dileggiate per la ripetuta mancanza di consensi necessari ad accedere all’Europarlamento. Le matrioske liberali non hanno funzionato e sono state sonoramente bocciate, nonostante i nomi scesi in campo a supportare i cartelli elettorali (Renzi e Caiazza su tutti). Allo stesso modo, cambiando fronte, l’operazione della lista Santoro (Pace terra dignità) è sembrata l’ennesimo tentativo di una sinistra che non sa elaborare un progetto di lungo periodo: gli elettori hanno preferito premiare l’alleanza tra Europa Verde e Sinistra italiana (Avs), intrisa di moderatismo e realpolitik data la riproposizione di candidati provenienti dal Partito democratico (Orlando e Marino su tutti) ma anche di Ilaria Salis su cui si dovrà vedere ora il confronto diplomatico con Budapest come procederà. 

«Prima io» 

La destra gongola e Meloni si lascia andare sui social con la pubblicazione di un selfie con la V di vittoria, gesto che fu caro a Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale. Secondo il parlamentare Fd'I Donzelli, raggiunto la notte del 9 giugno [2024] dal Corriere della Sera, l’operazione di Meloni di candidarsi in tutti i collegi, compresa quella di indicare il voto per Giorgia non è stato altro che «un atto d’amore nei confronti di tutti gli italiani». Il deputato ha proseguito: «[Meloni] non lo ha fatto per sé, non ne aveva bisogno […] tranne la manifestazione del 1 giugno a Pescara non ha tolto un solo minuto al suo lavoro di Governo».

Per sé sicuramente no, tuttavia per il partito certamente. E il discorso vale tanto per lei quanto per la segretaria del Partito democratico. Il bottino delle preferenze di Giorgia Meloni detta Giorgia fa urlare di gioia un già sgolante Nicola Porro che, sul suo blog, mette nero su bianco: «da sola “Meloni detta Giorgia” vale più del Movimento Cinque Stelle nel suo complesso (2,2 milioni di voti) ma anche più di Lega (2 milioni) e Forza Italia (2,2 milioni). Più di un terzo dei voti di FdI porta il nome del leader».

Il messaggio è chiaro. Le elezioni europee erano una sorta di elezione di mid term in salsa italo-europea: tanto più è forte la Presidente del consiglio (che è leader di Fratelli d’Italia), tanto più sarà imponente la sua campagna sul referendum riguardo il presidenzialismo. I rimpasti c'entrano poco e non sono all'ordine del giorno. Quantomeno per ora.

Egoismo. Questo è stato il fattore maggiormente presente e imponente nel corso di questa bassa (si veda la polemica sulle parolacce) campagna elettorale. Ideologia assente (jamais!) e dibattito completamente annichilito dall’onnipresenza leaderistica della figura forte di partito che puntava tutto su di sé.

È l’anticamera del presidenzialismo: un referendum permanente su una figura. Che sia Giorgia detta Giorgia o Elena Ethel Schlein detta Elly la medaglia ha due lati identici. 

Chi ne fa le spese sono gli elettori. Quelli che a votare ancora ci vanno, s’intende.


Articolo pubblicato su Atlante editoriale https://www.atlanteditoriale.com/europee-ed-egoismo-anticamera-del-presidenzialismo/

«Nun me po' nterogà domani?»


Foto di Stefan Spassov su Unsplash

Dice: «Quindi oggi non me 'nteroga? »
Dico: «Caro *** devo già interrogare cinque persone che il penultimo giorno di scuola si sono rese conto di essere insufficienti: non c'è troppo tempo, non credi?»
Dice: «C'è sempre domani»
Dico: «I voti però li devo inserire oggi» 
Dice: «Quindi lei domani nun lavora?»
Dico: «Certo che lavoro e tu domani verrai a scuola»
Dice: «Eh ma se nun me nterroga che ce vengo a fa»
Dico: «Perché comunque conta come assenza»
Dice: «Quindi lei lavora sempre tranne l'ultimo giorno de scola?»
Dico: «Io lavoro sempre, o ti è risultato diversamente? A me pare che so più le volte che non sei venuto a scuola de quelle quando c'eri. Come la mettemo?»
Dice: «Vabbè ma quindi se io me voglio fa interroga domani? L'altri prof ce nterogano»
Dico: «Okay: domani è l'ultimo giorno, però, caro ***»
Dice: «Vabbè io comunque oggi me giustifico»

Cosa importa se è finita, che cosa importa se ho la gola bruciata o no? [una amara splendida giornata a Rocca di Papa]

Cosa scrivere? Da che punto partire?
Spesso il modo migliore è partire dalla fine: la Borgata ha perso 4-1 in casa dei Canarini Rocca di Papa ed è sprofondata in terzultima posizione. Proprio quando il gioco stava migliorando e le vittorie (ad esempio contro il Monteporzio) stavano tornando.
Terzultima posizione significa play-out contro la Polisportiva Ciampino.
Il dato in sé è implacabile. Dopo un campionato che, come si dice in gergo, è stato tiratissimo, in cui la squadra (davvero) non si è mai risparmiata, giunge la scure implacabile dell'ulteriore prova da dimostrare nell'ancor-più-ultima-giornata, peraltro contro dei rivali con cui la Borgata non ha ottimi trascorsi.
Per chi volesse rileggere i precedenti scontri col Ciampino, può farlo a questo link: https://sostienepiccinelli.blogspot.com/search?q=polisportiva+ciampino.


Stop that train: I wanna get... off
Domenica il clima era quello delle grandissime occasioni: la squadra di Rocca di Papa (Canarini Rdp) aspettava questo scontro per laurearsi campionessa della Prima Categoria ed approdare al campionato di Promozione, il gradino successivo del dilettantismo.
Partiamo con un pullman come quando si va in gita scolastica e i prof fanno l'appello [abbiamo fatto pure quello]. Cinquanta magliette granata salgono diligentemente sul pullman in direzione Campi d'Annibale: troviamo il paese intero sui gradoni dello stadio del Rocca di Papa e un numero piuttosto ingente di forze dell'ordine.

Una volta arrivati, nonostante fossimo consci di essere in netta minoranza, e che già gli avversari si stessero preparando mentalmente alla vittoria, ho percepito che il clima fra di noi fosse quello di esserci. (Heidegger ora pro nobis).

Che, in un certo qual modo, la Borgata poteva farcela, poteva dire la propria in un campo complicato, all'ultima giornata di un campionato complicatissimo.

Il primo tempo dà l'illusione che la Borgata potesse davvero, con un inatteso coup de théâtre contro la prima della classe, affermare il proprio gioco: al 6' Mascioli (Moreno) calcia una punizione delle sue ma il portiere dei Canarini riesce a prendere l'imprendibile e deviare in angolo.
E, come in quelle storie in cui niente deve andar bene dall'inizio alla fine, anche i calci d'angolo della Borgata (marchio di fabbrica delle tattiche di mister Amico) non vanno bene fin dall'inizio.
Due minuti dopo l'attacco dei Canarini fa vedere la sua potenza e per poco la gialla non passa in vantaggio due minuti dopo la punizione di Mascioli.
Al 15' il gol del centravanti arriva davvero. La gialla continua a spingere e la Borgata è in difficoltà: ha accusato il colpo e, sebbene provi a reagire, gli avversari non cedono terreno. Gli affondi dell'attacco canarino riescono a divorare metri del centrocampo granata (Cassatella ci manchi!).

A metà primo tempo i nostri sembrano aver accusato così tanto il colpo che i Canarini si limitano a gestire gli errori che la Borgata commette a centrocampo: così, si soffre ancora di più, sia in campo che sugli spalti. Voci incontrollate (alias Tuttocampo) dicono che l'Oir stia vincendo contro il Trigoria. A un certo punto (attorno al 40') viene aggiornato il risultato su 1-10 per il Trigoria. ¡Mentirosos!
Cerchiamo il conforto di Rizzotto, presente al campo dell'Oir per aggiornarci sul risultato dell'altra gara importantissima in chiave salvezza: gli ingegneri stanno vincendo.
Al 36' Colavecchia, neanche lui sa come ha fatto, riesce a sventare il possibile raddoppio dei Canarini. Il fortino granata è sotto attacco da ogni lato.
Quarantacinquesimo. Il Direttore di gara manda tutti negli spogliatoi: i nostri restano in panchina guidati da mister Amico. Il clima è rovente, e non solo per le scottature che ci siamo presi sui gradoni.


Nella ripresa la gialla dilaga: al dodicesimo Piccardi viene saltato dal 18 locale che serve per il centravanti e batte Capostagno. Un errore a centrocampo al 16' regala un'azione d'attacco per i canarini che ne approfittano subito: 3-0. Dieci minuti dopo Mascioli (Moreno) commette una fin troppo grande leggerezza (non da lui) a centrocampo e regala il contropiede ai Canarini: pallonetto dell'11. 4-0.

L'Oir vince. Il Nuova Lunghezza anche, vince anche il Ciampino. Lo spettro dei play-out.

Ferma il treno: voglio scendere.
Stop that train: I wanna get... off
È vero che "non c'è partita, sconfitta né diffida" che ci possa tenere lontano dalla borgata, ma anche il morale comincia a vacillare. In campo i nostri provano a destarsi ma la salita è fin troppo impegnativa: mancano meno di 20 minuti e siamo sotto di quattro gol.
Al 36' Cicolò tenta un tiro dalla linea mediana che fa sognare tutti per una frazione di secondo. Un lampo, un fulmine a ciel sereno, un guizzo.
Poi il gol arriva davvero, il gol della bandiera: Soru insacca mentre la squadra locale sembrava essersi distratta per un secondo e anche il tifo non se ne accorge davvero. Sul pullman di ritorno c'è stato qualcuno che ha negato il gol fino alla fine.

Play-out.
Arriverà il Ciampino a casa della Borgata, al 'Vittiglio', e sarà uno scontro fino all'ultimo secondo, fino all'ultima goccia di sudore per rimanere in Prima Categoria.

Torniamo a casa. Tristi perché ci sarà ancora un'altra gara, infelici perché ci sarà ancora un'altra prova da dimostrare ma con la «gola bruciata» e con la consapevolezza che c'è ancora speranza.

Personalmente non riuscirò ad esserci, e questo è un rammarico grande,  per impegni familiari che giungono una volta nella vita come la comunione della prima nipote.

Il rammarico è ancor più grande perché quella di Rocca di Papa è stata davvero l'ultima per me spettatore: se l'anno scorso era in forse, quest'anno il trasferimento è sicuro e alla ripresa del campionato non ci sarò.
Mi mancherà, la Borgata.
Mi mancheranno i gradoni del Pro Roma.
Mi mancherà avere «la gola bruciata».
Mi mancherà incontrare casualmente mister Amico all'incrocio con Via Grotta di Gregna in motorino.
Mi mancheranno gli urli che chiedono: «A che minuto stamo, professò?!».

La Borgata vincerà!

Cosa importa se è finita?
E cosa importa se ho la gola bruciata, o no?
Ciò che conta è che sia stata
Come una splendida giornata...

Ultima giornata di campionato | Prima Categoria Laziale | Girone G

Per quanta polizia, carabinieri (c'era pure la protezione civile, a far che non è dato sapere) c'erano, andare a chiedere le liste delle due squadre all'arbitro era piuttosto difficoltoso. Ho provato ma il tabellino, stavolta, sarà solo dei nostri con i numeri dei Canarini per ammoniti e gol. Anche i titolari della Borgata non sono scritti in ordine numerico come al solito.

CANARINI RDP - BORGATA GORDIANI 4-1

BORGATA GORDIANI: Capostagno, Caporalini, Piccardi, Colavecchia (35'st Barsotti), Chimeri, Mascioli M. (7'st Cultrera), Mascioli F., Pompi (24'st Soru), Di Stefano (24'st Ciamarra), Cicolò, Marku (1'st Seydi).
ALLENATORE: Fabrizio Amico.
ARBITRO: Matteo Altobelli (Frosinone).
NOTE: AMMONITI: 17'pt 9 Rdp, 15'st 3 (Rdp), 18'st 10 (Rdp), 42'st Mascioli M. (BG), 44'st 13 (Rdp). Angoli: Borgata Gordiani 3 - 7 Canarini Rocca di Papa. Recupero: 0'pt - 2'st.

Un altro manifesto [sempre a Santa Maria del Soccorso]

  

Foto di Adriano Pucciarelli su Unsplash

Non c'è più il manifesto di Lenin a Santa Maria del Soccorso. È stato strappato del tutto, fino agli ultimi brandelli. Per tre settimane il muro è rimasto "pulito" da ogni affissione.

Attorno al 15 del mese l'organizzazione italiana della Tendenza marxista internazionale ha provato ad attaccarvi due manifestini riguardo un'iniziativa che stavano promuovendo in quei giorni sulla lotta partigiana: uno è stato strappato e ne è rimasto uno solo. Ancora coraggiosamente attaccato al muro d'ingresso della fermata di Santa Maria del Soccorso.

È il giorno dopo il 25 aprile, in cui un lungo fiume di persone ha invaso le strade tra Villa Gordiani e Quarticciolo. È il giorno dopo la lieta marea.

In una delle due scuole in cui presto servizio quest'anno il ponte non è il 25 e il 26 aprile ma il 29 e 30, dunque mi incammino verso l'entrata della Metro B alle 7:30. Mentre cammino verso l'ingresso faccio un controllo delle cose toccandomi le varie tasche della giacca e dei pantaloni una dopo l'altra: moderna e attualizzata versione del tuca tuca di Raffaella Carrà. C'è tutto, anche la mascherina FFP2: per insegnare alla sezione ospedaliera serve ancora, nei reparti dell' Umberto I è ancora obbligatoria. 

Finito il servizio torno indietro con pensieri e sguardi avvolti dalle pagine di Meneghello e dai racconti di Malo, ma purtroppo arriva il momento di scendere. Salgo le scale per riemergere alla luce del sole e noto sull'altro muro di destra, quello che dà verso l'uscita di Largo Viola, un altro manifesto. È scritto a vernice rossa e a caratteri cubitali: «W Mario Fiorentini».
Non c'è la firma: la scritta è rossa.
Mi fermo immobile, anche questa volta, oltre i cancelli dell'uscita della metro e resto a contemplare la scritta rossa qualche secondo. Non vedevo un manifesto per Mario Fiorentini da un po' e vederne uno mi ha fatto respirare aria fina di montagna.

È proprio vero, penso, quello slogan che ci ripetiamo (benché ovunque collocati, dispersi e divisi): quando muore un compagno o una compagna ne nascono altri cento.
E vanno in giro ad affiggere i manifesti in ricordo di Mario Fiorentini.

Lo spirito di chi crede non si abbatte facilmente, come nella scena di Italiani brava gente in cui i nazisti e i fascisti, tedeschi e italiani occupanti le zone limitrofe al Don, stuzzicano un gruppo di civili russi facendo cantare loro L'Internazionale a mo' di sfregio.
Ma loro l'hanno cantata davvero e quasi non si fermavano neanche coi colpi dei mitra tedeschi.

Sono teste dure, i comunisti.
Menomale.

Corri, Borgata! Pompi e Mascioli stendono il Monteporzio (2-1)

Chi se la ricorda la partita d'andata in casa dell'Atletico Monteporzio?
Sfortunatamente sugli spalti eravamo in pochissimi ma non è stata una domenica positiva. Iniziata male e terminata peggio: 0-2 e senza una reazione vera da parte granata.
Ma oggi è andato in scena tutto un altro spettacolo e gli undici di mister Amico hanno conquistato una vittoria importantissima.

Ma riavvolgiamo il nastro.

Il primo gol arriva al settimo minuto del primo tempo ma nessuno l'ha visto. Cioè: sappiamo che Pompi ne è stato l'autore ma un attimo prima erano giunti dei Borghetti in dono per tutti i presenti sui gradoni. Il tempo di una torsione del busto verso i bicchierini di plastica, che contenevano la necessaria benzina per la giusta e animosa prosecuzione del tutto, e la Borgata va in vantaggio.
Clamoroso al Vittiglio!
L'inizio è scoppiettante: Marku e Di Stefano sono letteralmente due furie che non riescono, in nessun modo, ad essere fermate dalla difesa del Monteporzio. Più d'una volta l'11 granata tenta di incornare il pallone per trafiggere De Angelis ma non ci riuscirà mai, sfortunatamente. 
Otto minuti dopo l'arbitro indica il dischetto: è rigore.

Dice: Ma per chi?
Dice: Oh! È rigore per noi!


In un attimo sembra di assistere alla scena in cui Fantozzi è costretto a lasciare la visione di Inghilterra-Italia per andare a vedere il film cecoslovacco (ma coi sottotitoli in tedesco) in cui il commentatore radiofonico inizia ad urlare tutte le parti del corpo colpite dal pallone dicendo «erano centosettantanni che non si vedeva un inizio così scoppiettante dell'Italia».
 

Mascioli (Moreno) trasforma il rigore e va a -2 da Pompi nella classifica marcatori di quest'anno.
La Borgata continua a spingere senza sosta e il Monteporzio sembra rintronato: fino al 25' della prima frazione di gioco la squadra di Tripodi non riesce ad organizzarsi per una pur minima reazione. Al 37' ancora un guizzo del duo Marku-Caporalini: il 2 tenta un tiro-cross ma non riesce a cogliere prontamente Di Stefano.
Gli undici granata sembrano non volersi più fermare e cercano il terzo gol con tutte le forze. Ma proprio mentre la squadra spinge, arriva l'unica distrazione difensiva della Borgata: ne approfitta Confaloni che accorcia le distanze al 44' del primo tempo.

Certo: andare in vantaggio sul 2-0 al termine della prima frazione di gioco sarebbe stato ottimo per il morale, ma - come dice il proverbio - «il diavolo ci ha messo la coda» e ora è la Borgata a dover dimostrare, di nuovo, quanto vale. Come se non lo avesse già dimostrato abbastanza contro una delle prime della classe del girone.

Il primo quarto d'ora della ripresa è tutto biancorosso: la squadra di Tripodi spinge ma la Borgata sa soffrire e chiudersi a dovere. Niente distrazioni: c'è solo la volontà di serrare ogni pertugio che possa portare al potenziale gol del pareggio.
La tensione che c'era sugli spalti era tale che di appunti - francamente - ne ho presi pochi: il fortino granata ha resistito fino all'ultima vera occasione del Monteporzio (al 32'), poi gli schemi sono saltati.

La Borgata riesce a sfruttare ogni benedetto contropiede: ogni varco lasciato dagli ospiti è un'autostrada per Piccardi e Soru. Proprio capitan Piccardi al 40' riesce a macinare chilometri e ad arrivare all'altezza della linea mediana, la difesa del Monteporzio è sfilacciata, c'è solo il portiere davanti a lui, sopraggiunge Proietti dalla destra che tira a portiere battuto. Dovrebbe essere gol ma un centesimo di secondo dopo aver visto la rete gonfiarsi, l'arbitro alza il braccio: fuorigioco, gol annullato. Non sappiamo cosa abbia detto Proietti, ma l'arbitro gli mostra il rosso diretto.
Borgata in 10.
Sisifo ce fa un baffo.

È ancora assedio Monteporzio e, ancora una volta, è una grande Borgata a resistere e ripartire.
Al 43' Cultrera si mangia un gol dopo aver controllato la palla con la faccia (Sparwasser, ora pro nobis) ma la partita è ancora lunga.
Attorno al 50' l'arbitro indica altri tre minuti addizionali di recupero arrivando ad otto totali: nel frattempo il Monteporzio perde la testa e resta in 9

Mancano due giornate, l'ultima fuoricasa contro la prima in classifica. In tre punti sono racchiuse sei squadre che si giocano la permanenza in Prima Categoria. 
Hic manebimus optime!
 

Il tabellino della ventottesima giornata di campionato | Prima Categoria Laziale | Girone G

BORGATA GORDIANI - ATLETICO MONTEPORZIO 2-1

MARCATORI: 7'pt Pompi (BG), Rig. 15'pt Mascioli M. (BG), 44'pt Confaloni (AM).

BORGATA GORDIANI: Pagano, Caporalini (20'st Capostagno), Piccardi, Pompi, Chimeri, Colavecchia, Di Stefano (34'st Soru), Mascioli F., Cicolò (28'st Cultrera), Mascioli M. (31'st Seydi), Marku (28'st Proietti). PANCHINA: Minotti, Segatori, Ciamarra, Martucci. ALLENATORE: Fabrizio Amico.

ATLETICO MONTEPORZIO: De Angelis, Bonamici (1'st Gagliassi), Torregiani, Brunetti (28'pt Laurenzi), Cupellini, Bono, Stornaiuolo, Tiberi, Composto, Kammou (37'st Lucci), Confaloni. PANCHINA: Litterio, Calicchio, Vasari, Schiavoni, Casale, Terenzio.
ALLENATORE: Domenico Tripodi 

ARBITRO: Matteo Altobelli (Frosinone)

NOTE: ESPULSI: Proietti (BG) al 44'st; al 47' espulso per doppia ammonizione Confaloni (AM). Contrariato, ha dato uno schiaffo al cartellino facendolo cadere dalla mano dell'arbitro che lo stava mostrando al giocatore; al 48' eslpulso Tiberi per doppia ammonizione (AM).  
AMMONITI: 26'pt Pompi (BG), 15'st Di Stefano (BG), 17'st Composto (AM), 31'st Pagano (BG) per perdita di tempo, 38'st Cultrera (BG), 41'st Tiberi (AM), 42'st Seydi (BG).
ANGOLI: Borgata Gordiani 2 - 3 Atletico Monteporzio.
RECUPERO
: 2'pt - 5' più 3' addizionali indicati al 50' (dunque 8 in totale secondo tempo).


Tra Gesù di Nazareth e Karl Marx: la scelta (e la vita) di “Miguel”


Lo scorso anno, prima della partenza per la Bolivia, ci [a Maria e me] è stato regalato un libro [grazie Giusi!] scritto da Luca Bonalumi attorno alle disavventure rivoluzionarie di Antonio Caglioni a Viloco e nel paese che l'ha ospitato per molti decenni. Una volta giunti dall'altra parte del mondo, siamo andati a conoscere Antonio Caglioni e abbiamo trascorso del tempo con lui, pur alloggiando a Cairoma (cittadina vicina a Viloco).

Per chi volesse, questi sono i due link agli articoli scritti a Cairoma su Antonio Caglioni e sul sistema sanitario a 5200 metri d'altitudine: Il sacerdote rivoluzionario alla fine del Mondo e Sanità pubblica e privata in Bolivia. Cercando l’assistenza capillare, trovando disordine generale.

L'introduzione al libro di Bonalumi è firmata da Don Emilio Brozzoni, sacerdote come Antonio Caglioni (a cui è davvero difficile anteporre il don davanti al nome, ma questo - a parere di chi scrive - rientra tra i pregi piuttosto che nell'ambito opposto dei difetti), bergamasco come lui, ma fenomenologicamente agli antipodi.

Don Emilio nell'introduzione racconta di un episodio curioso: una volta ricongiuntosi con Riccardo Giavarini a La Paz (don anche lui ma da soli due anni), decidono di andare a trovare Antonio Caglioni a Viloco. Il viaggio è lungo, le strade non sono agevoli ma finalmente - dopo varie ore di fuoristrada - riescono ad arrivare là, "alla fine del mondo", a cinquemila metri d'altezza, ai piedi delle montagne popolate dai minatori di stagno in cerca della vena grande.
È il 1990, è notte e - c'è da immaginarselo - c'era una stellata meravigliosamente impressionante, data l'assenza di lampioni e illuminazioni per le vie della cittadina. Don Emilio, che immaginiamo si fosse già abituato alla mancanza d'ossigeno, riesce a prendere sonno e a dormire piuttosto bene, almeno fino a quando viene svegliato di soprassalto.

Di colpo, i tre (Caglioni, Giavarini, Brozzoni) sentono di non essere più soli: Don Emilio si sveglia e pensa ai ladri. Poi si guarda intorno: "ma che si ruberanno mai, qua" (di certo lo avrà pensato in bergamasco).
È un attimo: un uomo armato fino ai denti gli punta un fucile: «Eres Miguel?! [Sei Miguel?]» gli chiede insistentemente.

Non sa di cosa stia parlando e il commando armato si fa insistente: stanno cercando un Miguel, ex prete mezzo italiano, mezzo tedesco, e loro, tutti e tre italiani (due consacrati e un laico), senza documenti, sembravano essere il bersaglio perfetto. Miguel si sarà nascosto da quelle parti, ai piedi delle montagne popolate dai minatori per sfuggire allo Stato.

Però don Emilio non era Miguel e, nel testo d'introduzione al libro di Bonalumi, scrive un aneddoto molto divertente di quella notte in cui, dopo aver conosciuto personalmente Riccardo Giavarini, sono sicuro che si sia verificato esattamente come don Emilio ha raccontato: nel mezzo del trambusto, di uomini armati che fanno irruzione a casa di don Antonio, Riccardo cerca di placare gli animi chiedendo se - in piena notte - prendessero un caffè per poter parlare e chiarirsi.

«[…] Mi fanno alzare dal letto (mani in alto), mettere pantaloni, scarpe e giacca a vento. Bontà loro, niente manette ai polsi. Mi vogliono immediatamente portare a La Paz. Riccardo intuisce che la situazione è grave e vuole intavolare un minimo di dialogo: “Prendete un caffè o un tè? Siete stanchi e la strada è lunga”»1.

Ma chi era Miguel?

Michael Miguel Nothdurfter era un italiano-sudtirolese di Bolzano che ha avuto una vita piuttosto intensa, una di quelle storie da raccontare, sebbene il tragico epilogo che ha avuto, ovvero ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia boliviana.

Scrive ancora don Emilio nell’introduzione al libro di Bonalumi:

«[…] Alle tre di notte cinque di loro con il mitra circondano la casa di don Antonio e tre in borghese sfondano la porta. Sono i tre che mi ritrovo davanti con le pistole puntate. Finalmente viene a galla il motivo di questo trambusto. È stato rapito il figlio del padrone della Coca Cola in Bolivia. È ricercato un “terrorista” (così lo definiscono) altoatesino, da ragazzo studente in un seminario di gesuiti, impegnato politicamente con gruppi estremisti… Il filo logico è chiaro. Hanno davanti un italiano, senza passaporto, col breviario, nella casa di padre Antonio2, in una regione fuori dal mondo. È lui. È Miguel. Sentono già profumo di promozione».

Ma facciamo un passo indietro e riavvolgiamo il nastro.

A te che leggi: abbi pazienza. Sarà piuttosto lunga.

Il comandante Gonzalo va alla guerra

La vicenda di Nothdurfter viene raccontata dettagliatamente da Paolo Cagnan in un libro pubblicato nel 1997 [Il comandante Gonzalo va alla guerra, erremme, 20.000 lire, 175 pagine] ed è colmo di riferimenti, racconti, testimonianze raccolte in loco, chilometri macinati tra le città boliviane.

«Caro Fratello, il tempo speso con i minatori di Potosì mi ha avvicinato alle persone. Le cose per la Bolivia si stanno mettendo molto male. Il peso è stato svalutato, i salari sono rimasti stagnanti: per le strade è possibile vedere persone che piangono. Sono molto scioccato e solo a vederli anche i miei occhi si appannavano»3.

Nothdurfter giunge in Bolivia il 26 agosto del 1982 dopo aver contattato la Compagnia del Gesù richiedendo di entrare a farne parte. Prima di questa sua decisione c’è stato il diploma di liceo classico e l’aspirazione a diventare prete:

«All’ultimo anno del liceo, in occasione degli esami di maturità, Michael conosce un missionario del seminario teologico di San Giuseppe di Bressanone, e resta così colpito dalla sua figura che decide di seguirne la strada. Quando comunica ai genitori la volontà di farsi prete e diventare missionario, la sorpresa non manca, ma i segni premonitori dii una vocazione religiosa erano già stati avvertiti in famiglia»4.

Parte per Londra e segue il primo anno di noviziato al «Mill Hill» per poi approdare a Roosendal, in cui trascorrerà il secondo anno.

Si rende conto di essere in un’isola dorata e quel mondo, l’Occidente, già non gli basta più: vuole stare a contatto con chi ha davvero bisogno del messaggio di Cristo e della sua potenza rivoluzionaria.
Si rende conto di essere fortemente attratto dalla Teologia della Liberazione e dal comunismo: studia gli scritti di Karl Marx, si interessa di quel che accade in America Latina e di quello che i Gesuiti stanno portando avanti nel Continente.
Nel 1982 è a Cochabamba dopo un viaggio di «147 ore fra autobus e treno»5 ma, anche lì, i vestiti sono stretti, metaforicamente parlando:

«La mia opzione politica è un’opzione per il marxismo. Marx ha dato al mondo dei lavoratori se non una soluzione, per lo meno un compito e una speranza. Per questo motivo non esiste, nel mondo dei lavoratori, un solo gruppo politico che non sia in qualche modo marxista […] il marxismo è la via maestra per risolvere le straordinarie ingiustizie sociali che costituiscono la fonte principale dell’oppressione. E questo non con alcuni cerotti, ma con un cambiamento radicale dell’attuale sistema»6.

Le parole di Michael sono macigni: sta cercando di essere e di porsi come cerniera tra il mondo dell’utopia socialista e quello del cristianesimo agìto, reale, praticato e non clericalizzato in rigide strutture opprimenti.

Seguire l’insegnamento di Cristo significa uscire all’esterno e aprirsi al mondo e non rimanere ancorati alla realtà del noviziato, scrive ancora Michael nell’aprile 1984 da Cochabamba:

«In confronto al “popolo semplice” viviamo in una casa di lusso. […] Con alcuni colleghi abbiamo pensato di modificare l’orario delle lezioni, della preghiera e della celebrazione eucaristica in modo tale da avere la possibilità di fare qualcosa, di parlare con la gente, di condividere i suoi problemi. Questa possibilità ci è stata negata. […] “È come se io non vivessi in Bolivia, ma in un’isola”, pensa uno di loro. Dobbiamo imparare ad amare i poveri. Lo chiamiamo “giocare ad esser poveri”. Al contrario noi non vogliamo giocare, ma vivere a contatto con i poveri in maniera autentica. E questo signiffica, in maniera molto semplice, condividere la loro vita. […] Se dovessimo arrivare alla conclusione che questa nostra strada nella Compagnia dle Gesù non ci può portare laddove noi vorremmo, siamo pronti a cercarla altrove»7

A maggio dello stesso anno scriverà al fratello Othwin di aver abbandonato i Gesuiti.

L’animo di Michael è in continuo fermento e ricerca: si iscrive all’Università Mayor “San Andrés” (Umsa) in cui entra in contatto con i gruppi marxisti (trotskysti, marxisti-leninisti ma anche socialisti e socialdemocratici. La Bolivia è un paese che non trova mai quiete, politicamente e socialmente parlando: sono anni difficili e quel che in Italia abbiamo definito “trasformismo” a fine ‘800, nel paese più povero dell’America Latina rappresenta la normalità.

Scriveva il «Manchester Evening News» nel 1960:

«In Bolivia le rivoluzioni sono quasi [da considerare] uno sport nazionale. Ce ne sono state 179 negli ultimi 130 anni. Una volta è capitato che ci fossero anche tre presidenti in uno stesso giorno»8.

Veduta di La Paz dal mirador Killi Killi
 
Certo, sono passati ventiquattro anni da quando Nothdurfter è arrivato in Bolivia, ma la situazione non pare essere cambiata più di tanto: sono gli anni post golpe di Garcia Meza (1980-1981) in cui viene creata una nuova parola per indicare quel governo. Narcodictadura.

Tutti i presidenti, non militari, succeduti all’ultimo golpe, sono riconducibili al Movimento nazionalista rivoluzionario e al Movimento della sinistra rivoluzionaria ma è un chiaro esempio di “socialist sounding”: le alleanze, pur di conservare il potere ottenuto dalle elezioni, fanno convergere interessi molteplici. Interessi rappresentati anche dai partiti di ex militari e apertamente anticomunisti-socialisti e dichiaratamente fascisti.

Strana idea della rivoluzione, strana idea di sinistra.

Nothdurfter guarda, vive tutto questo ed è esterrefatto: il paese langue, la politica sbandiera una rivoluzione che non vuole iniziare (figurarsi se voglia un giorno portarla a compimento!) e i marxisti sono divisi. Bisogna far qualcosa, pensa Michael.

Inizia la sua esperienza con il teatro popolare nelle «borgate proletarie e nelle zone minerarie» mettendo in scena spettacoli che denunciano ingiustizie sociali e lo sfruttamento delle masse. Insieme a quest’attività, si avvicina sempre di più alle idee di Ernesto Che Guevara: c’è bisogno della rivoluzione. Quella vera, però, quella che si fa con le armi.

Nel novembre 1986, in un’altra lettera ad Othwin, dichiarerà la sua intenzione ma in lingua spagnola:

«D’ora in poi ti scriverò sempre in spagnolo, perché non mi va che la mamma legga le mie lettere dirette a voi. Non potrebbe capire le mie attitudini “estremiste”»9.

Non c’è altro tempo da perdere: i poveri sono sempre più poveri, i ricchi vedono accrescere sempre di più il loro patrimonio, la sinistra è divisa, la politica strizza l’occhio ai grandi capitalisti e affama il popolo.

«[…] La sinistra boliviana sta vivendo una crisi profonda nella quale nessuno si salva. Per questo motivo bisogna costruire qualcosa di nuovo. […] Non sarà facile. […] Occorreranno molte ore di discussione, ma soprattutto molti giorni di silenziosi sacrifici, e semplice dedizione, molte vite e molti morti, molte lacrime e molto sdegno, innumerevoli momenti di solitudine politica, di dubbi e debolezza ideologica. Io, però, sono deciso – assieme alla mia organizzazione – per dare tutto ciò che posso dare d me stesso, poco a poco, accelerando ogni giorno il ritmo»10.

E ancora, l’anno successivo:

«Mi trovo più o meno d’accordo con quanto sostiene Lenin in Stato e Rivoluzione in relazione alla necessità di farla finita con lo Stato stesso, che implica violenza rivoluzionaria. O con quanto dice il Che: “Non esiste pratica rivoluzionaria senza lotta armata”. Senza dubbio, però, bisogna contestualizzare. Tatticamente la violenza può essere controproducente, ma dal punto di vista strategico rappresenta una necessità imperiosa»11.

Inizia a militare davvero: aderisce prima ad un partito, poi ad un secondo entrambi marxisti, rivoluzionari e nazionalisti ma nessuno di essi ha quel che fa per lui, che ormai è diventato pienamente boliviano e non è più Michael ma Miguel. Abbandona entrambe le organizzazioni e decide di creare un gruppo insieme ad altri fuoriusciti. È la fine del 1988 e l’inizio del 1989. Il Muro di Berlino sta già scricchiolando e l’Unione Sovietica è a un passo dalla fine, ma questo, Miguel, ancora non lo sa né vedrà la fine dello stato sovietico.

Passano gli anni, cruciali, 1986 e 1987, dopodiché è rivoluzione: il clima politico (o, per meglio dire: il caos politico) presente in Bolivia favorisce l’inclinazione e l’opzione – per citare Nothdurfter – per la lotta armata.

«Considero un compito principale della mia vita contribuire a condurre una vera rivoluzione in Bolivia e in qualunque altro posto mi tocchi vivere»12.

Il 1989 è l’anno del primo “esproprio proletario” con cui Michael Nothdurfter e il suo gruppo di rivoluzionari, che nel frattempo s’è coagulato attorno a lui.

La prima vera operazione (e anche l’ultima) si chiama operazione Bautizo: si dovrà rapire un pezzo grosso del capitalismo boliviano, uno che ha implicazioni anche con l’economia americana. Il nome ricade su Jorge Lonsdale, presidente di Vascal S.A., azienda concessionaria unica per la distribuzione della Coca-Cola (e bevande del gruppo statunitense) in Bolivia. C’è anche il nome, ora, del gruppo: Comision Nestor Paz Zamora (Cnpz)
 

Il nome scelto non è casuale: Jaime Paz Zamora, presidente boliviano appena eletto, è rappresentante del Movimento della sinistra rivoluzionaria ma per mantenere il controllo dello Stato – e traffici a cui s’è accennato sopra – non ha esitato ad allearsi con i fascisti dell’alleanza nazionalista vicini a Banzer Suarez. Scrive Miguel:

«Nestor è il fratello dell’attuale Presidente della repubblica ed è morto durante un’azione di guerriglia a Teoponte. Nestor è l’opposto di Jaime: il primo era un rivoluzionario e cristiano convinto e come tale si è comportato sino alla morte. Il secondo si è alleato con l’ex dittatore Hugo Banzer»13.

Poi arriva davvero il colpo: il sequestro riesce e dura mesi senza che la famiglia dell’industriale sia realmente interessata a riavere Lonsdale. Attorno al sequestro e al suo epilogo ci sono un mucchio di cose che non quadrano e che sia il libro di Paolo Cagnan sia i due docufilm prodotti espongono come criticità attorno al fatto. Tra i fatti che non tornano14 ci sono: Lonsdale presenta dei fori da arma da fuoco che non quadrano con le dichiarazioni della polizia, Miguel venne accusato subito (anche perché straniero, dunque elemento ancor più perturbatore del “semplice” fatto di essere un rivoluzionario15) di aver ucciso l’industriale ma senza una prova concreta, non ci sarebbe stata trattativa tra polizia e sequestratori e le forze dell’ordine hanno sparato subito anche di fronte a uomini che si stavano arrendendo e poi... il volto di Miguel, sfigurato dai proiettili «al punto da rendere impossibile l’identificazione attraverso i tratti somatici». Le autorità boliviane «hanno voluto impedire il nascere di un nuovo mito guerrigliero».

Per quanto possa essere crudo e atroce, è l’epilogo di chi aveva, senza troppi mezzi, dichiarato guerra, spinto dall’idealismo e dall’ardore romantico e rivoluzionario ad un nemico più grande, meglio organizzato e, sebbene rappresentante una “democrazia dalle ginocchia fragili”, sicuramente più strutturato della Cnpz. Nel documentario di Pichler, uno dei sopravvissuti agli arresti (tutti venticinquenni, cristiani e comunisti), chiamato in causa dal regista, dirà che Miguel era il più idealista e che dava a tutti una grande forza d’animo (sebbene negli ultimi tempi si sentisse molto isolato16) ma era anche molto impreparato.

«Lo eravamo tutti [molto impreparati]: era una cronaca di una morte annunciata».

Eppure Miguel, in una lettera-testamento ai genitori e alla famiglia, racconta il suo percorso, dalla partenza all’epilogo (senza essere troppo esplicito) ma che restituisce un animo in cerca di giustizia, libertà, equità e solidarietà. Di questo, penso, è bene occuparsi nell’analisi della vita di Nothdurfter e di quanto è accaduto nella vicenda del sequestro Lonsdale: andare alla ricerca, insieme a Miguel, di quanto l’occidente fosse malato allora e di quanto non sia cambiato oggi; di quanto il primo mondo sfrutti, di quanto sia impelagato in una riflessione di giustificazione e autoassoluzione senza la minima autocritica. Non assolvere Miguel per la sua guerra, ma stare dalla parte della sua anima e del suo spirito. Lo spirito di un uomo innamorato della vita a tal punto da voler ingaggiare una lotta senza quartiere contro le ingiustizie che rendono il povero ancor più schiacciato da un capitalismo selvaggio e da una borghesia sfrontata e superba. Talmente innamorato della vita da aver deciso che valesse la pena anche perderla, pur di continuare nella sua lotta.

Tra le strade della regione di Araca


Dalla lettera-testamento, scritta nell’agosto 1990 da Miguel ai suoi genitori:

«[…]

So bene che nessuna delle persone con cui convivo potrà mai darmi un diploma o un titolo di studio, ma secondo questa logica Gesù sarebbe diventato un fariseo e non sarebbe mai stato crocefisso. Io non sono Cristo, ma non intendo in alcun modo diventare un fariseo, ce ne sono fin troppi.

[…]

Dopo la guerra fredda arriva la calda “pax capitalista”, la pace che per noi si chiama “guerra di bassa intensità-alta probabilità”, la pace dei ricchi che hanno sempre di più e dei poveri che hanno sempre di meno. Per l’Est e per l’Ovest “libera economia di mercato” e “stato di diritto”; per il Sud, la guerra e lo scambio di merci, soverchiante e iniquo: il neoliberismo.

La principale questione è l’alternativa. Ieri, tutti coloro che premevano per una svolta dicevano chiaro e tondo: socialismo! Il cosiddetto socialismo reale è, però, in crisi profonda e ora troppi gioiscono per la presunta fine del comunismo. In questa logica, però, non dovrebbe più esistere un solo cristiano, perlomeno dai tempi dell’Inquisizione.

La teologia della liberazione, invece, esiste e non ha nulla a che fare con l’Inquisizione. I movimenti di liberazione dell’America Latina hanno così poco a che vedere con Stalin...

So di non essere stato un buon figlio per voi. Posso anche immaginare che il contenuto di questa lettera vi possa far preoccupare, ma dovete sapere che io faccio ciò che devo fare. Non pretendo che mi comprendiate, ma dovete capire che io agisco secondo coscienza, e che auguro solo il meglio a voi e a tutti gli altri. Avrei preferito tacere, ma credo di esservi debitore della verità. E la verità è che la passione e l’amore per il mondo mi spinge all’azione. Anche col rischio di commettere degli errori».

La paura delle formiche

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