Studenti-atleti: tra "dual career" e frustrazione

Chi sono? Ragazzi di scuole superiori: quasi 50mila in tutta Italia. Per le società sportive sono numeri ma spesso cadono in forme depressive con ricadute sul rendimento scolastico.

«Il problema non è lo studio in sé ma il peso che ne deriva a causa dello sport: oltre ai quattro impegni settimanali e la partita, la società di cui faccio parte mi ha chiesto anche un piccolo extra per poter allenare dei bambini, affiancando l’allenatore della squadra». A parlare è Alfonso (nome di fantasia) studente di una scuola secondaria di secondo grado della provincia di Varese, nonché calciatore a livello dilettantistico regionale. Quattro impegni sportivi pomeridiani più la partita nel fine settimana si traducono nell’attivazione del Pfp, sigla che sta per Percorso formativo personalizzato. Nel suo caso l’extra richiesto dalla società consiste nell’«affiancare l’allenatore dei più piccoli» così da diventare figura di riferimento per loro «anche se spesso le partite dei bambini le seguo io dall’inizio alla fine».
Tripla sollecitazione e triplo impegno.

Didattica personalizzata

Il Pfp va a definire lo status della peculiare condizione di studente-atleta nell’ambito dell’agonismo e in quello della sperimentazione di «studente-atleta di alto livello». Stando al decreto ministeriale 43 del 3 marzo 2023 che disciplina ulteriormente la questione per questi ultimi, il Pfp è: «uno strumento» che favorirebbe «l’adozione di metodologie didattiche personalizzate finalizzate al successo formativo dello studente» per cui è concesso che egli possa fruire in modo alternativo delle lezioni «fino al 25% del monte ore» attraverso «videoconferenze», «piattaforme di e-learning predisposta a livello nazionale» o «altri strumenti individuati dagli Istituti scolastici». Non solo, nel decreto viene stabilita anche la possibilità di prevedere verifiche personalizzate.

Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione e del merito nel corso dell’anno scolastico 23-24 sono state approvate 48.520 domande riguardanti studenti-atleti di alto livello su una popolazione scolastica nazionale di 2.727.637 studenti iscritti agli istituti secondari di secondo grado (dati Istat relativi all’a.s. 22-23). La maggior parte di essi fa riferimento a federazioni sportive calcistiche (Figc o Lnd).

Chiara Sicoli, dirigente scolastica dell’I.I.S. Pacinotti – Archimede di Roma, racconta in proposito all’Atlante che queste organizzazioni «trattano meno bene i ragazzi» rispetto «ad altre organizzazioni afferenti ad altri sport». Stando al racconto della dott.ssa Chiara Sicoli, i calciatori portano con sé «problemi di disciplina» dal momento che «i ragazzi che praticano calcio tendono a ‘fare spogliatoio’ anche in classe: le stesse società sportive si interessano pochissimo del rendimento scolastico dei loro iscritti tendendo piuttosto a trasmettere loro valori non propri dello sport» cioè «quelli tipici della finzione ai fini dell’ottenimento del rigore a proprio favore», roba da VAR o da moviolone di biscardiana memoria.

«Quando ho preso parte al campionato in serie A2 di futsal ero in quinto superiore e non avevo un Pfp: erano già scaduti i termini in cui si poteva inoltrare la richiesta per la certificazione. La scuola non considerava, evidentemente, il fattore escludente delle finestre di mercato e il fatto che un atleta possa cambiare squadra da un momento all’altro», a parlare ad Atlante è Arianna (nome di fantasia) ex studentessa di Liceo scientifico sportivo della provincia di Roma. Arianna si è ritrovata «ad essere catapultata in una realtà completamente diversa e con differente routine», rispetto a quella imposta da un campionato minore, «ma questo alla scuola non è interessato», anche se lei era parte integrante dell’indirizzo sportivo del liceo scientifico.


Studente-atleta o atleta-studente?

Essere parte dello sportivo non rappresenta, tuttavia, un automatismo che preveda l’istituzione de iure dello status di studente-atleta: «qualsiasi istituto può attivare i Pfp», ha dichiarato ad Atlante Paolo Notarnicola, presidente della Rete degli studenti medi (sindacato studentesco). «Lo sportivo non è necessariamente popolato da studenti che praticano sport ad alti livelli» ed entrare a farvi parte pare non sia cosa facile: «l’indirizzo non nasce per offrire un’offerta formativa peculiare ma è sorto ‘al contrario’: la scuola prende atto che ha degli studenti impegnati in attività sportive, dunque trova il modo di armonizzare quelle attività con la formazione scolastica. Di fatto è come se vigesse lo status di atleta-studente e non di studente-atleta: l’offerta formativa si è adattata alle esigenze delle società sportive e non è accaduto il contrario». Sarebbe stata migliore, secondo Notarnicola, la condizione che avesse previsto: «una scuola pubblica che apre la possibilità a tutti gli studenti (anche a coloro che non hanno potuto avere accesso all’attività agonistica a causa di impedimenti economici) di poter trovare il proprio aggancio con società sportive». La graduatoria prodotta dalle scuole che attivano l’indirizzo sportivo assomiglia più «ad un numero chiuso» che ad una vera e propria graduatoria di merito. Il parere del sindacato studentesco è confermato da Camillo (nome di fantasia), insegnante della scuola secondaria di secondo grado della provincia di Ancona: «l’impegno sportivo è del tutto predominante e la scuola viene percepita come ancillare rispetto alle esigenze delle società sportive: si tratta di una scuola disegnata attorno ai bisogni e alle necessità dell’atleta che, incidentalmente, è anche studente». «Di fatto» spiega Camillo «si tratta di un indirizzo a numero chiuso» anche se non lo è formalmente. «Nonostante non si preveda una prova d’ammissione (come avviene per il Liceo musicale o coreutico), si opta per una scrematura che tenga conto dei voti della scuola secondaria di primo grado e che riguardi anche l’impegno sportivo pregresso dei ragazzi», racconta ancora il docente. Se non sei già tesserato di una società sportiva «il punteggio, ai fini della graduatoria, risulta essere basso: diventa una questione di classe sociale e di chi può permettersi che il figlio pratichi sport agonisticamente», sostiene Camillo.

Dual career e frustrazioni

Che sia semplicemente la sana attività sportiva ad essere praticata a livello agonistico o che, invece, rappresenti il salto d’essere studente-atleta d’alto livello, la problematica è multiforme e variamente sfaccettata: la dual career [doppia carriera] può essere interrotta bruscamente per un brutto infortunio o a causa del fatto che si realizzi di non riuscire a sfondare davvero. Ancora Camillo: «il passaggio alla maggiore età dei ragazzi è cruciale: tra la fine del quarto e l’inizio del quinto si determinano una serie di delusioni amarissime – soprattutto per quel che riguarda i calciatori – se dovessero rendersi conto che quella non è più una strada percorribile, o comunque non sicura come avevano sperato che fosse fino a quel momento. Capiscono, insomma, di essere soltanto numeri in un mare di migliaia di ragazzi come loro: la prospettiva del professionismo è lontana. In tredici anni di servizio ho visto solo due miei ex studenti entrare a far parte dello sport-che-conta». Numeri che sembrano essere implacabili e che determinano anche «forme depressive generali con inevitabili ricadute sull’andamento scolastico». Arianna, d’altra parte, racconta: «nella mia classe solamente due su trenta sono riusciti ad arrivare al professionismo». Gli altri? «Ci hanno puntato e sperato ma poi, come nel 99% dei casi, non ce l’hanno fatta. Il problema è chi decide di puntare tutto sullo sport e poi non riesce: spesso non ha un ‘piano B’. Ti ritrovi catapultato ai 20 anni realizzando che con lo sport non ci stai facendo più di tanto, non ti ha dato un futuro e hai pure snobbato la scuola». La Preside Sicoli conferma: «è un fenomeno che dovrebbe essere attenzionato maggiormente: se un ragazzo non riesce a sfondare, entra in uno stato di frustrazione che si ripercuote sulla scuola». Tuttavia, secondo Sicoli, questo non si verifica in tutti gli sport: «nel calcio si contano più casi: se si infortuna un [giovane] calciatore, nonostante sia promettente, viene generalmente abbandonato dalla società sportiva». Il ragazzo non è lo sportivo o il promettente calciatore ma «il suo cartellino», afferma amaramente la Preside.

Notarnicola fa eco: «l’idea che si possa acquisire il cartellino di prestazioni del ragazzo (di fatto è come comprare un atleta, una persona) rappresenta l’impossibilità di scelta da parte sua, quasi una negazione del diritto allo studio. La società compie un ragionamento di mercato sul ragazzo, come accade nel calcio moderno anche se in nuce, facendo prevalere il contratto sulla sua formazione».

Si potrebbe pensare ad un alto tasso di abbandono scolastico da parte di costoro e invece Sicoli smentisce: «si tratta di una bassissima percentuale: durante il mio lustro di dirigenza ho contato un pugno di casi che hanno optato per l’istruzione parentale, dunque una scelta specifica per intraprendere una carriera che rappresentava un impegno [sovra ordinario] in quella fase».

La sperimentazione che riguarda lo status di studente-atleta di alto livello dura, tuttavia, da dieci anni e Sicoli ritiene che sarebbe da porre a regime con almeno tre fattori da cambiare radicalmente. Prima di tutto, «va fatta formazione ai docenti dal momento che non sono pienamente preparati ad affrontare la dual career». Secondo, elargire più fondi alle scuole e ai docenti: «per la sperimentazione è richiesta la figura di un tutor che tenga contatti tra docenti e la società sportiva; va redatto il Pfp e bisogna controllare che i documenti provenienti dalle società siano idonei e poi vanno caricati sulla piattaforma [preposta]». Generalmente nelle scuole si contano «7 od 8 studenti-atleti di alto livello: il Pacinotti-Archimede ne ha 125. L’ordine di grandezza è molto diverso». Terzo e ultimo: «le famiglie devono essere supportate e le società sportive responsabilizzate».


Articolo disponibile su Atlante Editoriale al link: https://www.atlanteditoriale.com/studenti-atleti-tra-dual-career-e-frustrazione/

Siamo tutti Aronne Piperno

La cartolina spedita dal Ministro prof. Giuseppe Valditara a tutti i docenti, supplenti o di ruolo, come augurio in vista delle Festività Natalizie.

Non molti giorni fa, ogni insegnante della scuola pubblica ha ricevuto un messaggio di posta elettronica recante una cartolina di auguri trasmessa a nome del Ministro dell'Istruzione e del Merito prof. Giuseppe Valditara.  

 Dato che il Ministro si premura di ringraziare i docenti per il lavoro che svolgono quotidianamente, vorrei ricambiare i sentiti ringraziamenti a S.E. il Ministro del Mim prof. Valditara. Lo ringrazio perché ho appreso, grazie al nuovo sistema di reclutamento dei docenti, una nuova condizione sociale, psicologica, nonché esistenziale, propria di chi scrive e di tutti coloro che hanno preso parte all'ultimo concorso ordinario che sono stati esclusi (nonostante avessero raggiunto un punteggio non basso). Quale condizione? Quella di essere Aronne Piperno. L'aronnepipernismo è una nuova categoria antropologica e rappresenta una particolare condizione dell'animo. Sicuramente qualcuno ricorderà la scena del Marchese del Grillo. Un Marchese del Grillo stanco, dopo una nottata di scherzi e di bagordi, rientra in casa firmando (sommariamente e con superficialità) tutto quello che gli viene messo davanti agli occhi dal suo contabile personale. Lo stesso gli annuncia la presenza dell'ebanista Aronne Piperno, il quale chiedeva di essere regolarmente pagato a seguito di un lavoro di restauro chiesto dal Marchese stesso.

  

Non ripeterò le battute della scena perché sono stra famose. Mi soffermo, tuttavia, su un momento in particolare dello scambio fra i due. Il Marchese acconsente di far entrare Aronne Piperno ma Alberto Sordi (che nel film interpreta il nobile romano) vuole solo andare a dormire e non ha voglie di scocciature: decide, per puro sfizio, piglio e ribalderia, di non pagare il lavoro svolto dall'ebanista:

« [...] Marchese del Grillo: Aronne tu lavori bene...
Aronne Piperno
: Grazie!
Marchese del Grillo: ...bella 'a boiserie, bello l'armadio, belle 'e cassapanche... bello, bello, bello tutto... bravo... grazie, adesso te ne poi pure annà.
Aronne Piperno
: Non ho capito, Eccellenza.
Marchese del Grillo: Ah n'hai capito? Ho detto: adesso te ne poi annà!
Aronne Piperno
: Me ne devo annà? Ma io c'avrei...
Marchese del Grillo
: Che c'avresti?
Aronne Piperno: ...il conticino!
Marchese del Grillo
: Ah c'hai er conticino? E dammelo sto conticino!
Aronne Piperno
: Ecco...
Marchese del Grillo: Ecco er conticino! Ecco fatto! [il marchese del Grillo strappa il conto di Aronne Piperno]».
Ma sono sicuro di non essermi spiegato. Sarò, dunque, più chiaro. Un gran numero di insegnanti ha partecipato al concorso ordinario ma, date le regole prescritte dal bando, si è visto respinto all'uscio nonostante abbia superato scritto e orale. Bene, bravo: «mo poi rifà er concorso», parafrasando la battuta di Alberto Sordi. Se la cosa fosse successa poco più di un trentennio fa, lo scandalo sarebbe stato enorme. Eppure ci stiamo abituando a tutto. Sappiamo, però, grazie al Ministro, di essere tutti Aronne Piperno. Perlomeno: io ho inteso di esserlo a pieno titolo. Ho «il conticino» in tasca, lo porgo al Marchese ma lui lo strappa davanti ai miei occhi: addio soldi (e addio ruolo!). Grazie, dunque a S.E. Ministro dell'Istruzione e del Merito prof. Giuseppe Valditara, per  avermi fatto scoprire di appartenere a questa nuova categoria antropologica.
Contro la protervia della nobiltà, contro ogni ingiustizia: sempre viva Aronne Piperno! Aronnepiperni di tutto il mondo: uniamoci!

Fùtbol o futbòl? Certo non «soccer»...

Quando Pino Cacucci pubblicò San Isidro futbòl era il 1991: trentatré anni fa. La prima edizione venne curata dall'editore Granata Press di Bologna, la cui esperienza (a cui rimandiamo a questo link per una lettura più approfondita) terminò nel 1996. L'edizione che ho tra le mani costava 10.000 lire ed era la prima ripubblicata dalla Universale economica Feltrinelli cinque anni dopo la prima apparizione al pubblico. Gli anni in cui venne pubblicato questo agevole romanzo (93 pagine) erano gli anni in cui il Messico era attraversato da una nuova consapevolezza: in una parte remota della sua geografia, stava formandosi una nuova esperienza di autodeterminazione rivoluzionaria. Di lì ad un battito di ciglia, il Chiapas sarebbe diventata una parola bisbigliata e conosciuta in gran parte del mondo, uscendo prepotentemente fuori della zona tra Messico e Guatemala in cui si trova; Ezln, l'esercito zapatista di liberazione nazionale, sarebbe stato un riferimento culturale per una parte di movimento altermondista e anticapitalista così come, allo stesso modo, l'enigmatica figura del Sub Comandante Marcos. Il riferimento allo zapatismo, nel libello di Cacucci, è più che evidente: San Isidro si trovava in un punto imprecisato del Messico, in una remota regione di uno stato regionale (anzi, tre) e conteso fra le giurisdizioni di: Puebla, Veracruz, Oaxaca. Ma siccome San Isidro non era riportato neanche sulle mappe militari, il governo non si preoccupava di dirimere la questione dell'appartenenza del villaggio, nonostante gli abitanti desiderassero saperlo. E prima di loro desiderava conoscerlo l'alcalde Don Cayetano Altamirano, che alcalde non poteva essere dato che San Isidro non era un villaggio riconosciuto da nessuno dei tre stati. Insomma, la vicenda era decisamente complessa. All'inizio del romanzo, si legge:

«Ventidue case di legno e lamiera non giustificavano alcuna menzione nelle mappe federali [...] Il problema, semmai, era stabilire se San Isidro appartenesse allo stato di Veracruz, di Puebla o di Oaxaca, poiché era proprio a nord di Santa Maria Chilchotla che i tre confini si univano. Questo aveva occupato dodici riunioni fiume del Consiglio, quattro votazioni di cui una invalidata per ubriachezza scomposta di Fulgencio Murillo, e una delibera salomonica che assegnava l'appartenenza al primo dei tre stati che avesse asfaltato la strada fino a Cerro Mojarra».
Un simile incipit lo troviamo nel primo dei due volumi del Subcomandante Marcos intitolato: Dal Chiapas al mondo. Libri coevi a San Isidro futbòl dato che sono stati pubblicati nel 1996 dall'editore laziale Roberto Massari. L'introduzione denominata «Guida turistica alla conoscenza dello Stato messicano del Chiapas, in due venti, una tempesta e una profezia» e contenuta nel primo dei due volumi, sembra descrivere e raccontare l'imprecisata e immaginaria ubicazione di San Isidro:
« [...] Supponga di non notare il posto di blocco che il Servizio immigrazione del Ministero dell'interno ha messo in questo punto (che fa pensare che si esca da un paese e si entri in un altro). Supponga adesso di voltare a sinistra e di prendere decisamente l'indicazione per il Chiapas. Alcuni chilometri più avanti lei lascerà Oaxaca e troverà un grande cartello che dice: "Benvenuto nel Chiapas". Lo ha trovato? Bene, supponga di sì».
San Isidro è chiaramente una propaggine sentimentale del cuore e dell'anima di Cacucci, così ben innervata nella cultura dell'America Latina, nonché del Messico in particolare. Ma a San Isidro non esiste il fùtbol, con l'accento sulla u come prescrive la lingua, lascito del colonialismo spagnolo. A San Isidro c'è il futbòl:
« [...] occorre spiegare che sei mesi prima [nella comunità] era stata decisa con grande entusiasmo la costituzione di una squadra di calcio, che ormai tutti pur con varie sfumature di pronuncia chiamavano equipo de futbòl».

Con l'accento sulla o, contrariamente a quello che la norma prescrive. Ma la storia di Cacucci (e di questa parte di mondo) ha così poco a che fare con le norme e con le leggi in generale. Capita che nella fitta foresta, più o meno adiacente al luogo in cui è ubicato San Isidro, sia precipitato un aereo, uno di quelli piccoli che trasportava un modesto carico e pochi elementi dell'equipaggio. Cosa trasportava l'aereo? Sacchi pieni di cristalli di polvere bianca. Droga, ovviamente, ma che viene scambiata per fertilizzante: a San Isidro quel tipo di dipendenza non era conosciuta, perlomeno fino a quel momento. La scoperta della polvere bianca dà spunto a Cacucci di sviluppare una storia che, benché smilza nelle pagine, fa correre veloce la lettura come Quintino Polvora sul campo di calcio nella partita contro gli acerrimi nemici del rancho La Pizpireta. È in quella circostanza che il matador Quintino (specifico e peculiare ruolo del calcio giocato nelle parti della Sierra) scoprirà lo speciale fertilizzante: era stato usato, estorcendone un sacco con la forza allo scopritore del carico, per segnare le linee del campo. "In fondo è bianco come la calce", avranno certamente pensato gli incaricati alla delimitazione del campo. Da quel momento in poi il lettore non riuscirà a staccare le dita dal libro: dovrà continuare a conoscere nel dettaglio la storia del misterioso carico di fertilizzante, ad immergersi nelle vicende di San Isidro (in cui il futbòl era una cosa seria, anzi, serissima), a lasciarsi trasportare da nomi e luoghi esotici, dal linguaggio iperbolico volutamente ricercato dall'autore per generare un immaginario davvero assurdo. Fiabescamente assurdo, quindi a tratti futuribile. Perché se il soccer è quello dei gringos del Nord America, il fùtbol è certamente quello del Sud America. 

E il futbòl, beh, quello non esiste. Ma ci piacerebbe tanto che esistesse davvero.

 

La "cancha" di Coroico (Bolivia) si trova a 2000 metri sul livello del mare. Ma non è il più alto campo da calcio che esiste nel paese. In Bolivia si gioca fino a oltre 4000 metri d'altitudine nelle città di El Alto e di Potosì. Fonte foto: pagina Facebook "Camino al mundial 2026".


Un rigore condanna la Borgata: 2-1 contro la prima della classe

Sarà un po’ più lunga del solito. Quindi, a chiunque stia leggendo, chiedo scusa in anticipo.

Premessa (lunga pure questa. Che palle, eh?)
«Cosa ti manca di più di Roma?». A questa domanda, a chiunque me la ponga, rispondo placidamente: «La Borgata Gordiani». Certo: mi mancano i miei, le nipoti, i tramonti sui palazzi di Torre Maura ma è ovvio. Anche se il quartiere è sempre uguale, anche se è sempre più sporco, anche se ci sono le stesse buche nell’asfalto, anche se ci sono gli stessi tossici agli stessi incroci delle strade, ma non importa quanto brutto sia il luogo in cui sei nato e vissuto: è pur sempre il tuo posto, come avrebbe detto Luigi Meneghello del suo paese in Libera nos a Malo. Eppure, quando mi sono messo in viaggio dalla Val Seriana per tornare a Roma, non pensavo a nient’altro che alla Borgata e che sarei tornato a vederla.
Capita talvolta che i ragazzi bergamaschi delle mie classi notino gli adesivi della squadra che ho appiccicato sul pc e sulla borraccia e, incuriositi, a fine lezione mi fermino per chiedermi: «Prófe, ma cos’è Borgata Gordiani?». E allora comincio a raccontare della squadra in cui non ci sono presidenti, in cui decide l’assemblea, in cui si è proprietari della squadra e il modo in cui la si vive ogni domenica, col trasporto di star partecipando a qualcosa di tuo e di unico, di prezioso e di bellissimo perché lo hai visto crescere insieme a te.
I loro occhi si fanno curiosissimi e inizia una conversazione a parte sul calcio popolare di Roma cercando paragoni con le loro realtà ma per loro è diverso: ogni paese ha una squadra (a volte due), c’è molta competitività tra le compagini cittadine ma tifo ce n’è poco, a parte qualche eccezione, ma tutti i soggetti dei paesi (specie in valle) sono coinvolti nel sostegno della squadra. Una forma di azionariato popolare civico che non mobilita un gruppo specifico ma che riesce a far vivere una realtà per la necessità che la comunità abbia una propria rappresentanza ideale oltre ai luoghi che la caratterizzano in senso stretto.

Insomma, tornare a vedere la Borgata è stato emozionante sotto molteplici punti di vista, specie per il calore ricevuto che mi ha fatto immensamente bene.

Ma veniamo a noi: la partita contro la Virtus Santa Maria delle Mole.

Presenze illustri.
La squadra di Santa Maria delle Mole gioca al campo della medesima cittadina che la Borgata ha imparato a conoscere due stagioni fa, in Seconda Categoria: era il campo casalingo della Ciampino City Futsal (che però giocava a calcio a 11), di cui ora si sono perse le tracce nei meandri del dilettantismo laziale. Ricordi funesti di quel pomeriggio in cui non c’erano portieri titolari e il secondo portiere si infortunò nel corso del primo tempo. Ma ora è il 10 novembre e la Borgata è in Prima Categoria: ha cambiato modulo e la rosa si è ringiovanita con nuovi elementi.

Mentre aspetto l’arbitro per fare la foto alle liste, passa sotto ai miei occhi tutta la rosa locale in tinta bianco-celeste e noto un volto conosciuto nell’ambito del dilettantismo laziale: Orlando Fanasca.
Lo scorso anno aveva annunciato in pompa magna che avrebbe allenato e si sarebbe ritirato dal calcio giocato ma: alle promesse dei calciatori «non credere mai».
Dalla coppia con Renan Pippi alla Lupa Castelli Romani e nuovamente con la Nuova Monterosi in Eccellenza e Serie D, passando per Viterbese e un numero imprecisato di presenze in altre piazze laziali, rieccolo qui: orfano della fu Bi.Ti. Calcio, sua ultima esperienza calcistica, è ora in forza nella squadra di Santa Maria delle Mole il cui sponsor è quello della società edile sopra citata: uno spin-off della Bi.Ti. Calcio, in sostanza.
La Virtus non perde mai. Non ha perso una partita fino ad ora e, per sfortuna della Borgata, non ha perso neanche oggi.

Foto della irreprensibile Elisa Vannucchi.
Subito sotto

Fanasca, proprio lui, regala il gol del vantaggio dopo due giri d’orologio: calcio d’angolo, pallone spiovente in aria e tocco di testa che trafigge Repetto. Non è neanche troppo alto, per la verità: era stato lasciato forse troppo libero. Due minuti dopo un altro calcio d’angolo fa pensare al peggio a tutti ma, fortunatamente, la palla esce e si spegne sul fondo. L’attacco della Virtus si produce in altri affondi al quinto e al settimo minuto ma la Borgata, sebbene scossa da subito, reagisce ordinatamente. Gli ospiti, i granata, c’è da dire che hanno una marcia in più rispetto alla squadra di casa: il tifo anche oggi è accorso numeroso ed è gagliardamente, come al suo solito, sostenitore degli undici in campo. Ogni palla recuperata somiglia al pareggio raggiunto ma è la Virtus che prova, in verità, a raddoppiare. Al 22’ il duo Audisio-Di Stefano si producono in un’ottima azione ma, una volta nell’area piccola, sbagliano i tempi e l’occasione non si concretizza, lasciando il pallone al possesso dei locali. La Borgata non vuole stare a guardare e blocca ogni iniziativa dei locali: il tempo è maturo per il pareggio.
Cinque minuti dopo, al 27’ arriva il pareggio: Mascioli (Moreno) batte una punizione delle sue che sarebbe entrata tranquillamente, se non fosse stato per la respinta di Carpani (postosi sulla linea di porta). È un attimo, una frazione di secondo, non lo vede arrivare nessuno: Piccardi supera tutti e sfrutta quel pallone respinto dal numero 3 locale per insaccare il gol del pareggio, battendo un non brillante Fracassi.

È la Borgata ora a mostrare i muscoli: vuole il raddoppio, cercandolo a tutti i costi ma per una punizione (stavolta calciata da Pompi) che non trova l’incornata di Mascelloni, il Santa Maria si produce in un contropiede velenosissimo (pallone smistato dal solito Fanasca) che fa bruciare fulmineamente porzioni di campo all’attacco locale. Repetto compie il miracolo e la sua mano devia, con l’aiuto della traversa, il pallone in angolo.

Locomotiva Piccardi
Nel corso della ripresa entrambe le squadre cercano il pareggio: la Virtus tenta l’assedio nei primi dieci minuti senza riuscire a concretizzare le palle inattive (un angolo e una punizione) per sbloccare nuovamente il risultato in proprio favore.
All’11 è la Borgata che si fa vedere di nuovo. Fattorini smista un pallone delizioso pescando Audisio che macina metri di campo trovandosi a tu per tu col portiere, tiro potente ma centrale: Fracassi respinge di pugno.

Ancora purgatorio granata: due angoli e un’altra punizione bianco-celeste costringono gli undici di mister Amico a indietreggiare e a chiudersi. Al 19’, però, è la Borgata ad avere un’occasione ghiottissima. Piccardi toglie la palla all’ala locale (Acciari) e prende in giro tutta la fascia sinistra superando, uno dopo l’altro, tutti gli uomini che provano a venirgli incontro per togliergli il pallone.
Ma il capitano è in modalità Orient Express: lascia tutti sul posto e costringe Fracassi, giunto inspiegabilmente a ridosso del centrocampo, a tornare indietro velocemente. Piccardi percorre tutta la linea dribblando l’ultimo ostacolo locale: avrebbe bisogno di un attaccante che in quel momento non c’è. Sopraggiunge Mascioli (Moreno) ma il suo tiro si staglia contro il corpo di un avversario.
Il 10 granata reclama il fallo di mano ma l’arbitro fa proseguire.
Era davvero un’occasione d’oro. Un pugno di minuti dopo e la partita compie un’inversione a U. Repetto, nel togliere il pallone ad un attaccante biancoceleste (chiedo scusa al calciatore della Virtus ma proprio non sono riuscito a vedere il numero), commette fallo. O, almeno, così stabilisce il direttore di gara. La Virtus si affida all’esperto Fanasca: raddoppio.

Il triumvirato granata Nicchio, Cicolò, Zannini.

La Borgata lotterà fino alla fine ma il risultato rimarrà inchiodato sul 2-1 per i locali fino al 48’ della seconda frazione di gioco. C’è rammarico, è vero, ma la Borgata ha dimostrato di esserci e di sapersela giocare su un campo duro e contro un’avversaria ostile come la Virtus, compagine creata ad hoc per far sì che possa passare rapidamente di categoria e approdare nuovamente in Promozione, là dove lo sponsor (ex proprietario della squadra omonima Bi.Ti.) aveva lasciato un posto nel Girone D.

Me ne torno a casa pieno di abbracci, di saluti e di «quando torni, prof?».

Grazie, Borgata!

p.s. Comunque, tra i due (Fanasca e Pippi), il più forte era Pippi. Tiè.



Il tabellino della sesta giornata di campionato | Prima Categoria Laziale | Girone F

VIRTUS SANTA MARIA DELLE MOLE - BORGATA GORDIANI 2-1

MARCATORI: 2'pt Fanasca (VSMM), 27'pt Piccardi (BG), Rig. 26'st Fanasca (VSMM)

VIRTUS MARIA DELLE MOLE: Fracassi, Colabello (1’st Kalaj), Carpani, Pruiti, Galeotti, Cortese, Bordi (31’st Empoli), Capolei, Fanasca, Spina, Acciari. PANCHINA: Rugghia, Cellini, Fortini, Santarelli (34’st Querini), Basili, Serafini.
ALLENATORE: Livio Rocconi.

BORGATA GORDIANI: Repetto, Capostagno, Piccardi, Pompi, Mascelloni, Colavecchia, Di Stefano, Mascioli F. (8’st Cultrera jr poi sostituito nuovamente: 30’st Tarisciotti), Audisio (32’st Proietti), Mascioli M., Fattorini (44’st Di Giambattista). PANCHINA: Cherubini, Barsotti, Ranallo, Speu, Tarisciotti.
ALLENATORE: Fabrizio Amico

ARBITRO: Arman Gabriele (Frosinone).

NOTE: AMMONITI
: 31'pt Capolei (VSMM) per proteste nei confronti del Direttore di gara, 8'st Capostagno (BG), 23'st Mascelloni (BG), 39'st Fracassi (VSMM) per perdita di tempo, 39'st Fattorini (BG). RECUPERO: 0'pt – 3'st. ANGOLI: VIRTUS SANTA MARIA DELLE MOLE 4 – 2 BORGATA GORDIANI.
Tra le note mi sembra doveroso citare le calzature dell’arbitro, sceso nel rettangolo di gioco in scarpe da ginnastica. 

Davvero non c'è alternativa a Trump e Harris?


Poco più di due milioni di voti. Due milioni, centocinquantanove mila e quarantanove è la cifra mostrata dall’Associated Press. Si tratta del bottino, se così si può dire, di tutti i third parties americani (terzi partiti) a spoglio ancora non chiuso in vari stati ma a vittoria repubblicana già certificata: avendo ottenuto la maggioranza dei grandi elettori al Congresso e avendo superato la soglia dei 270 necessari, Trump può gioire di fronte ai suoi elettori.

Le cifre racimolate dai terzi partiti statunitensi sembrano essere risibili in confronto allo strapotere espresso dalla diarchia repubblicana-democratica, roba da quinto quarto della politica: basti pensare che Jill Stein, candidata del Partito verde (Green party) e terza assoluta alle spalle di Kamala Harris, si è attestata su un misero 0,4%, pari a poco più di seicentoquaranta mila voti, in netto calo rispetto ai dati delle precedenti elezioni: nel 2016, ad esempio, gli ecologisti riuscivano a raggiungere il milione di voti a livello nazionale. Certo, i verdi riescono a sorpassare il terzo partito più popolare degli Stati uniti d’America, il Partito Libertario (Libertarian party), ma si tratta di una magrissima consolazione, data la percentuale di entrambi che prevede uno 0 prima della virgola.
Sembra essere ancora più lontano il 1996: l’anno in cui venne fondato il Reform Party of the Usa (tradotto, forse un po’ liberamente, Partito dei Riformatori degli Stati Uniti d’America) che raggiunse l’8,40% alle Presidenziali di quell’anno, che ebbe tra le proprie linee anche Donald Trump per un breve periodo di tempo, che nel 1998 riuscì a strappare il governo del Minnesota al blocco repubblicano-democratico e che nel giro di pochissimo tempo implose sotto il peso di scandali e mala gestione all’interno della stessa organizzazione politica.

Stavolta è andata nettamente male a tutti i terzi partiti, perfino ai libertari che pure nel 2016 erano riusciti a strappare più di quattro milioni di voti (3,28%) a livello nazionale e ad ottenere cifre ragguardevoli perlomeno in New Mexico e South Dakota (sfiorando la doppia cifra, il 10%, nel primo stato e attestandosi sul 6% nel secondo). La lunga crisi del Partito libertario si è mostrata drasticamente a seguito dei risultati elettorali: affidatisi alla candidatura di Chase Oliver, pur se a seguito di sette votazioni nella convention preposta, i libertari non hanno avuto la capacità di attestarsi come nuova forza che sosteneva di avere con sé una «nuova classe dirigente per gli Stati Uniti d’America». «Oltre 40 milioni di elettori della Gen Z sono pronti ad ascoltare un messaggio che non provenga dal sistema bipartitico», aveva dichiarato Oliver alla National public radio.

Ma, anche se pochi, i voti dei terzi partiti fanno gola ai grandi, per quella legge non scritta che tanto più si ha, quanto più si vorrebbe avere. Il 25 maggio [2024] Trump, facendo seguito alla legge di cui sopra, ha tenuto un discorso all’assemblea nazionale libertaria mantenendo lo ‘stile’ che lo contraddistingue, dichiarando: «Vincerete solo se sosterrete la mia campagna, altrimenti potete continuare a ottenere il vostro 3% ogni quattro anni». Pur se tra i fischi del pubblico, come ha testimoniato un articolo pubblicato nel maggio di quest’anno dalla National public radio, Trump ha fatto il suo show in casa libertaria continuando a spaccare le fazioni interne del partito, promettendo un libertario tra i ruoli di comando della nuova presidenza repubblicana. Così facendo, il partito non ha neanche lontanamente raggiunto il vituperato, da parte trumpiana, 3%.

Non solo i repubblicani hanno volutamente tarpato le ali ad ogni iniziativa che vedesse un’autonomia di organizzazione al di fuori della campagna pro-Trump, è stato così anche in casa democratica. A fine agosto l’iniziativa giudiziaria dei democratici di ricorso alla presenza di chi avrebbe potuto offuscare anche solo lontanamente l’immagine di Harris, ha avuto i suoi frutti: Cornel West (indipendente di sinistra) e Claudia de La Cruz (Socialismo e liberazione – PslParty for socialism and liberation) non hanno potuto partecipare con il proprio simbolo e hanno dovuto ricorrere al write-in nella campagna elettorale – ad esempio – nello stato della Georgia. La stessa candidata socialista, de La Cruz, rappresentava la forza politica che in agosto, a Detroit (Michigan), aveva interrotto con slogan pro Palestina l’evento di Kamala Harris che reagì stizzita: «Ogni opinione conta: amiamo la democrazia, ma ora sto parlando io! Se volete che Donald Trump vinca, ditelo [chiaramente]». Da quel momento in poi la strada del Psl per l’accesso al voto in determinati stati è stata completamente in salita. La candidatura dell’ambientalista Jill Stein, che – a tal proposito – ha indossato la kefiah per tutta la campagna elettorale, è stata il refugium peccatorum anche della variegata galassia della sinistra trotskysta statunitense, assente perfino in termini di write-in candidate. Ma tutto l’appoggio ricevuto non è servito a far raggiungere cifre migliori alla candidata Stein.

Cos’è il write-in?
Se un partito o movimento non è riuscito ad esser presente sulla scheda col proprio simbolo, sia per ragioni amministrativo-giudiziarie che per altre più prettamente politiche, il sistema elettorale statunitense prevede che l’elettore possa scrivere il nome del candidato che intende votare nello spazio preposto della scheda. Una possibilità non da poco, se ci fosse stata pari risonanza mediatica per ognuno dei candidati presidenti. Di fatto, a tutti gli altri candidati progressisti o indipendenti presenti in dieci o meno stati, il write-in non è servito a molto: non è stata solo la sinistra radicale ad essere stata esclusa (Socialist equality party, Socialist workers party, American solidarity party) ma anche gli ultra conservatori del Constitution party e del Prohibition party. Se i libertari hanno avuto accesso elettorale in 47 stati su 50 e i verdi in 38, pur essendo entrambi matematicamente già tagliati fuori dalla corsa presidenziale per ovvie ragioni matematiche, tutti gli altri candidati, nonostante il write-in, sono stati ben lungi dall’avere un minimo riconoscimento da parte dell’elettorato, avendo raccolto nel loro complesso, sommando tutte le candidature, lo 0,3% a livello nazionale.

Forse è una battaglia donchisciottesca, quella dei terzi partiti, ma tanto più vitale affinché il pluralismo americano non soccomba sotto i colpi della propaganda politica e del capitale a disposizione dei grandi gruppi finanziari, nonché dei miliardari che sostengono i due blocchi principali. Elon Musk, ad esempio, nell’ultima fase della campagna elettorale ha promesso (e realizzato) che avrebbe regalato 1 milione di dollari al giorno, fino al giorno delle elezioni, per coloro che «avrebbero firmato la petizione del suo Comitato di azione politica» riguardo modifiche costituzionali. Modifiche che si rivolgevano al secondo emendamento, ovvero alla libertà di detenzione di armi da fuoco. Eppure, nonostante alcuni autorevoli pareri raccolti dall’Associated Press in queste settimane abbiano parlato di iniziativa fuorilegge o ai limiti della legalità, Elon Musk ha potuto agire indisturbato grazie anche alla sua enorme influenza nel dibattito politico.

La polarizzazione dello scontro, in una campagna elettorale che ha lasciato ben poco spazio a qualsiasi candidato che non fosse Harris o Trump e i loro rispettivi insulti, promesse altisonanti, dichiarazioni sulla necessità estrema di votare per l’uno o per l’altro candidato senza disperdere il voto, ha rappresentato così la sublimazione del ‘fine utile’ del proprio diritto-dovere.

Nonostante le piazze dei sostenitori pro Palestina, in sostegno alle lotte dei lavoratori aeroportuali (vicenda Boeing) e in sostegno alle istanze ecologiste siano state sempre più partecipate dalla società civile americana nell’ultimo lustro, nonché talvolta guidate in grandi città proprio da uno di questi terzi partiti menzionati (Green party e Psl su tutti), la grande domanda di alternativa non ha trovato (né trova da decenni nella granulosità politica e sociale statunitense) una via di rappresentanza che possa trasformarsi anche in consenso elettorale.

E anche stavolta il copione elettorale è parso essere il medesimo di sempre.

Pubblicato su Atlante Editoriale atlanteditoriale.com

Profe

La biblioteca del Prof(e). Richard Macksey a Guilford,
Baltimora, Stati uniti d'America
All’inizio c’erano le maestre dell’asilo che si facevano chiamare rigorosamente per nome, posto immediatamente dopo la qualifica: maestra Daniela, maestra Silvia, maestra Chiara e via dicendo. Gli si dava del tu quasi per legge: quel posto doveva essere l’estensione di un luogo familiare che avevi lasciato sul letto di casa poche ore prima.
«Scusa, maestra posso andare a bere?», e lei con un cenno della testa ti diceva che si, potevi andare, l’importante era utilizzare il tuo asciugamani con le iniziali cucite da tua madre ad hoc per evitare che il tuo andasse troppo in giro o che, peggio ancora, venisse scambiato con quello di altri.

Maestra era anche il modo con cui ci rivolgevamo alle elementari ma, già verso la quinta, si iniziava a dare del lei perché alle medie non c’erano più loro ma le professoresse. Il ruolo era lo stesso ma la figura si discostava leggermente: si faceva più imponente e più autoritaria. Quel lei conferiva distanza e vicinanza: la prima era tutta a vantaggio di chi stava «dall’altra parte della barricata», la seconda era – paradossalmente – a vantaggio del discente che iniziava a prendere le misure con il mondo oltre la maestra.

La professoressa era una sorta di übermaestra: sapeva tutto di te anche se non ti aveva mai visto e si sforzava a dirti che dovevi rivolgerti a lei con la terza singolare e con il verbo coniugato al congiuntivo. Se coniugavi male o pronunciavi un fantozziano vadifacci ti toccava la flessione del verbo.
Inflessibile: appena sentiva un tu, diceva: «scusa, come?!».
Meravigliosa era la professoressa Fosca che, appena sentiva uno studente della classe dire «dai» rivolgendosi a lei, scattava incalzandoti: «dai?!? DAI?!?». Il più creativo era chi rispondeva: «DIA, DIA!» oppure c’era chi si sentiva già in odor di medioevo rispondendo: «Scusi, scusi: suvvia!»

Capitava, però, che nella foga del voler rispondere, in quel frangente simile alla lotta fra oppressi chiamata “interrogazione dal posto”, il termine professoressa si abbreviasse in «pessoré!»: tutte le altre sillabe, evidentemente inutili, erano state sacrificate per poter estendere verso l’alto il braccio destro o sinistro con l’indice ben visibile. Più lo si alzava, più si era sicuri della risposta che si dava.
Capitava, però, che l’abbreviazione da pié-veloce (pessoré!) venisse attribuita anche agli unici due professori maschi del consiglio di classe: don Angel e Pernaselci di musica. Un’anomalia bella e buona. In quel caso l’accento sulla e finale non rappresentava l’invocazione al genere femminile dell’insegnante: jamais!
Era piuttosto un rafforzativo del professore in sé: come se l’espressione fosse “OH, PROFESSOREE”. Con quella immaginaria doppia e che evidentemente andava a caratterizzare l’interlocutore uomo con cui si voleva intrattenere una conversazione, pur limitata in ambito scolastico.

Con le superiori si dichiarava finita l’esperienza del pessoré: quel termine veniva abbandonato alla chiusura dei cancelli delle medie (scuolasecondariadiprimogrado). Varcare le porte del liceo significava abbracciare l’idea che la professoressa (donna) poteva anche essere un professore (uomo): non più un’anomalia. Allora il termine si abbreviava naturalmente in «prof». L’abbreviazione era una vera e propria ancora di salvezza: veniva accettata dall’insegnante, uomo o donna che fosse, ed era tanto sbrigativo quanto professionale: «hai sentito il prof. di greco?». Improvvisamente diventavamo tutti grandissimi perché utilizzavamo le abbreviazioni.

E così è stato anche nei primi anni di servizio dall’altra parte della barricata: «buongiorno prof», «salve prof», «ciao prof». Talvolta i più audaci ti chiamavano «professò», riprendendo l’abbreviazione che fu tipica del genere femminile riservata alla parte docente delle medie (scuolasecondariadiprimogrado). Qualche ragazzo di qualche scuola di periferia osa, ma solo verso la fine dell’anno e solo se c’è stato un buon rapporto, con un «ciao professò» mentre si accinge ad entrare in aula con lo zaino su entrambe le spalle, strascicando le suole delle scarpe grosse come carri armati (ma rigorosamente alla moda).

Qui a Bergamo è diverso. Non c’è il prof ma il profe. Con la o chiusa. Ed è una abbreviazione che calza a pennello sia in caso di insegnante uomo, sia in caso di insegnante donna. «Profe, buongiorno!», ti dicono. Lo scrivono anche nei messaggi di posta elettronica. Ma è una cosa che vale solo a Bergamo: in nessuna altra zona della Lombardia c’è il profe: è tipicamente bergamasco.

È strana, neh, una sorta di unicum delle valli bergamasche nel rapportarsi con l’insegnante.
Strana… Ma, proprio perché è così, è anche molto tenera.

Morales accusato di stupro ma in Bolivia la violenza sessuale è ovunque

«In Bolivia lo sfruttamento sessuale è praticamente endemico». Così come la violenza «che sia sessuale o dopo una partita di calcio», a parlare è don Riccardo Giavarini, Direttore generale della Fundacion Munacim Kullakita [dall’aymara: ti voglio bene, sorellina] e nel lavoro quotidiano si occupa di sfruttamento ai danni di ragazze minori e adolescenti, di tratta e traffico. Bergamasco di Telgate, ordinato sacerdote a seguito della ripresa degli studi per il sacerdozio dopo la prematura scomparsa della moglie Berta (tra le fondatrice del Mas-Ipsp, impegnata nella tematica della liberazione della donna, poi uscitane per divergenze con la dirigenza), è a La Paz dal 1977. La Bolivia la conosce piuttosto bene. Raggiunto da Pressenza, ci risponde dalla sua abitazione alla periferia di El Alto.
Alla periferia della periferia del mondo.

In queste settimane la stampa boliviana, internazionale e anche italiana (sebbene nel nostro paese la notizia non abbia avuto una grande eco), sta dando conto di uno scandalo che avrebbe coinvolto l’ex presidente boliviano Evo Morales, attualmente figura di spicco del Mas-Ipsp di cui ne è presidente e ufficiosamente candidato alle prossime elezioni presidenziali. Morales sarebbe accusato di stupro di una ragazza adolescente: un’accusa su cui una giudice di Tarija sta lavorando e per cui ci sarebbe stato il caso di un figlio nato da una unione con Morales. Le prove ci sarebbero e per questo questo è stato emesso un ordine di cattura nei confronti dell’ex presidente il quale non si è presentato all’udienza al tribunale di un pugno di giorni fa, preferendo un aureo isolamento nella regione del Chapare.

I casi di violenze sessuali, domestiche e di genere sono tuttavia in costante aumento in tutta la Bolivia: «Nel carcere minorile di Qalauma [nella città di Viacha] i delitti riconducibili alla violenza sessuale sono tra i più commessi». Ci sono varie motivazioni, secondo Giavarini: «la prima è che manca una vera educazione sessuale, alla reciprocità. Né in famiglia, né a scuola e né da parte istituzionale vengono veicolati messaggi ed esempi positivi» quindi «i ragazzi prendono alla leggera il rapporto uomo/donna e lo interpretano solo come occasione di ‘divertimento’». La relazione non è basata sul rispetto quanto, piuttosto, sulla volontà di dimostrare che esiste una disparità tra sessi. Una condizione così pervasiva tale da essere presente anche negli altri istituti penitenziari non minorili, ad esempio in quello di San Pedro (La Paz). «La seconda motivazione – continua il sacerdote – è quella legata al fattore culturale». In altre parole: «machismo e cultura dello stupro». Già quando nasce una bambina «si sente spesso dire da parte dei genitori “è solo una femmina”», come a voler sottintendere una sconfitta sociale.
Nella parte di mondo che abita Giavarini: «si sono naturalizzati dei comportamenti che vedono la figura femminile come strumento di piacere maschile», si ragiona per «stereotipi diffusi» da più parti. La donna non è vista come portatrice di soggettività, partecipazione, dignità, uguaglianza: «qui a El Alto le ragazzine popolano locali notturni: è una cosa naturale che loro siano lì disponibili a fornire prestazioni sessuali». Nei colloqui informali che conduce don Giavarini, nel contesto carcerario e nel settore di competenza della Fundacion Munacim Kullakita, è ravvedibile una pervasività della violenza domestica perpetrata dai mariti nei confronti delle mogli, più in generale da parte degli uomini.

Quella di Evo Morales sembra essere – purtroppo – solo la punta di un proverbiale iceberg di violenze e soprusi nei confronti delle persone e delle donne in particolare. «Le notizie di questi giorni parlano delle accuse rivolte a Morales ma – precisa Giavarini – qui in Bolivia stanno uscendo dati secondo cui non sarebbe accaduto solo un caso ascrivibile a questa tipologia di reato, anzi: più d’uno». Alcune deputate boliviane hanno accusato pubblicamente Evo Morales nel Palazzo rincarando sui suoi possibili rapporti con delle minorenni «addirittura facendo illazioni su contropartite sessuali in cambio di progetti e realizzazioni di opere presso comunità rurali o montane», da sempre più vicine all’ex Presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia.

Ma il silenzio assordante è quello delle Bartolinas, l’organizzazione femminile del Mas-Ipsp: «le donne del partito sono spaccate tanto quanto lo è l’organizzazione, che, per la verità, lo è da due anni a questa parte: le strenue sostenitrici di Morales continuano a incoraggiarlo mentre quelle pro Luis Arce lo accusano».
Una situazione piuttosto delirante.
Tanto più che Morales ora starebbe accusando la giustizia boliviana di persecuzione contro la sua persona e non si è mosso dal Chapare, la regione in cui si sente politicamente (e psicologicamente) più forte, sicuro e tutelato dalla federazione dei coltivatori di coca (i cocaleros, riuniti nella Seis federaciones del Tropico de Cochabamba) di cui è tutt’ora presidente. Sindrome dell’accerchiamento più volte manifestata da Morales nel corso degli ultimi 24 mesi.
Certo è che finché presidenti (o ex) o figure pubbliche di spicco nella società (siano esse di appartenenti a organizzazioni politiche di maggioranza o di opposizione), si mostrino come esponenti del più bieco machismo, significa che il problema è molto più imponente di quel che è emerso nel corso di questi giorni.
Il rischio di impunità per questi fatti, secondo Giavarini, è altissimo: «c’è da sviluppare un lavoro di rete che sia il più articolato possibile a tutti i livelli sociali, così come di interlocuzione con lo Stato» per far sì che si giunga «ad una seria consapevolezza riguardo i temi della tratta e dello sfruttamento sessuale non soltanto a seguito dell’onda mediatica di uno scandalo come questo ma tutti i giorni».


Articolo pubblicato su Pressenza.com


Fitto c’è, Meloni esulta. Ma il paese reale langue

Una vittoria. O, almeno, per i canoni dell’esecutivo Meloni una netta vittoria. E no, non stiamo parlando della contrarietà della Presidente del consiglio dei ministri all’utilizzo di missili a lungo raggio contro la Russia, cui pure la dichiarazione condita da avverbi e da intercalari ("chiaramente", "ovviamente", "semplicemente"), farebbe presagire ad un prendere tempo rispetto alla reale posizione che dovrà assumere il governo italiano. Stiamo parlando della nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo della Commissione Europea: all’italiano andrà il compito di «gestire i fondi del Pnrr insieme a Valdis Dombrovskis». Mancava l’ultimo nome e nella calcistica zona cesarini c’è stato l’accordo che ha sancito l’ingresso dell'unico componente Ecr (Conservatori e riformisti europei, gruppo a cui appartiene Fratelli d’Italia) nella Commissione. Il ministro italiano avrà anche la delega ai fondi di coesione e alle riforme. La lunga fase dialettica tra le due presidenti, Ursula Von der Leyen e Giorgia Meloni, si è conclusa con l’accoglimento da parte della prima al nome di Raffaele Fitto. In questi giorni politica e stampa sembrano aver archiviato il caso Boccia-Sangiuliano proiettandosi sulla questione della composizione della nuova Commissione Europea, nuovamente a guida Von der Leyen (Partito popolare europeo). 

La maggioranza esulta e il governo plaude alla vittoria nettissima che sarebbe stata percepita come tale da tutta l'Italia, tuttavia il sistema-Paese (come si sarebbe detto un decennio fa) non beneficerà effettivamente della nomina di Fitto a Bruxelles/Strasburgo. «Andiamo al dunque: al di là delle funzioni di coordinamento dei vicepresidenti che, per l’esperienza che ho io, sono chiacchiere e distintivo. Senza chiacchiere e distintivo avevamo Gentiloni all’economia. Adesso con chiacchiere e distintivo abbiamo "coesione e riforme"», a dichiararlo è stato Pier Luigi Bersani, componente della direzione nazionale del Partito democratico, nel corso della serata di ieri [17 settembre 2024], durante la trasmissione DiMartedì, condotta da Giovanni Floris.
Chiacchiere e distintivo
. E ora il dibattito – o quel che potrebbe definirsi tale – si è avviluppato sulla questione delle votazioni conseguenti: «Su Gentiloni cinque anni fa esprimemmo parere favorevole anche su indicazione dell’allora presidente di Ecr [Raffaele] Fitto. Confidiamo in un atteggiamento responsabile da parte della sinistra. Poi sta a loro. Certo, risponderanno del loro voto davanti al popolo italiano», tuona Nicola Procaccini al Corriere della Sera di ieri, 18 settembre [2024]. Come se il popolo italiano fosse davvero realmente consapevolmente informato su quanto accade a Bruxelles/Strasburgo, una delle istituzioni più blindate al mondo (con tanti saluti alla trasparenza e all’accessibilità pubbica). 

Ma le dichiarazioni roboanti sulla stampa lasciano il tempo che trovano, Italia od Europa che sia. Nel Belpaese i quotidiani ne sono la testimonianza concreta: non c’è una dichiarazione che sia di lungo respiro o che porti con sé un poco di dibattito che vada oltre l’immaninza di questo o quel fatto. Solo due giorni fa [16 settembre 2024], a proposito di gruppi e composizioni parlamentari, La Verità, attraverso la penna di Federico Novella, pubblicava un’intervista a tutta pagina ad Enrico Costa (deputato, già ministro negli esecutivi Renzi e Gentiloni). L’ex ministro ribadiva di aver lasciato Azione ma di non aver intenzione di ritornare in Forza Italia: «Non c’è nulla di ufficiale, farò le mie riflessioni. Ma con Forza Italia ho sempre avuto un confronto costruttivo». Neanche 48 ore dopo ed Enrico Costa effettua ufficialmente il ritorno nella formazione fondata da Silvio Berlusconi. 

Nonostante la conquista ottenuta a Bruxelles/Strasburgo, il paese (quello vero, non quello dei comunicati stampa) langue. Non bastano gli annunci roboanti della Presidente Meloni all’assemblea di Confindustria riguardo l’occupazione («mai così tanti italiani avevano lavorato dall'unità d'Italia oggi») talmente alti da non avere un termine di paragone: un esercito di decine di migliaia di insegnanti precari vincitori di concorso, abilitati e in attesa di abilitarsi (ovvero idonei dei nuovi concorsi Pnrr) sono in attesa di una cattedra e un’altra morte sul lavoro si aggiunge al già imponente numero di decessi. Stavolta si è trattato di un operaio di 34 anni che ha perso la vita schiacciato da una pressa in una fabbrica del varesotto, assunto non direttamente dall’azienda ma da «una cooperativa». Ma forse per il governo non conta: l’operaio era "solo" un uomo nato in Marocco. Non era mica italiano.

 

Pubblicato su Atlante editoriale.

Certo, un centro! Forza Italia in permanente gravità

Una proposta concreta sullo ius scholae non è ancora stata messa nero su bianco da Forza Italia. Se ne parla da settimane ma di scritto non c'è ancora nulla. Non ci sono nemmeno state iniziative isolate di deputati o senatori. Ma è proprio sullo ius scholae che il presidente del partito fondato da Silvio Berlusconi sembra aver puntato, provando ad introdurre l’elemento della cittadinanza nella dialettica e nel confronto tra le organizzazioni politiche della maggioranza di centrodestra, nonché nel dibattito pubblico. Antonio Tajani vuole dare una svolta a Forza Italia per dare una nuova identità al partito, pur rimanendo nell’alveo della coalizione di centrodestra.

L’idea "geniale" di Antonio Tajani
e della direzione del partito è quella di voler rappresentare il centro politico politico. Non che non ci siano altre organizzazioni politiche che non ci abbiano già pensato o che non ci abbiano provato. Matteo Renzi ha tentato l’operazione Italia Viva (parafrasando la più celebre espressione berlusconiana che ha dato il nome al partito) ma è sembrata arenarsi fin da subito: le elezioni europee non hanno fatto altro che certificare le enormi difficoltà del partito renziano. In realtà l’amo lanciato da Tajani è verso l’elettorato cattolico di destra così come verso coloro che votano Partito Democratico per mancanza d’alternativa: l’area cattolica interna al Pd potrebbe veder bene un dialogo con una Forza Italia rinnovata nei temi e ripulita dal passato berlusconiano. Areadem sta a guardare. Anche l’ex Beppe Fioroni, uscito tempo fa dal Pd dopo l’arrivo alla segreteria di Elly Schlein, potrebbe essere interessato.

L’asso calato da Tajani è stato lo ius scholae
. Al momento - ribadiamo - non c’è nulla di depositato in Parlamento, ma "solo" l’iniziativa (mediatica e personale) del presidente di FI: «Ho dato mandato ai gruppi di fare uno studio sulla questione della cittadinanza e sulle normative e orientare una proposta di legge. E prima di presentarla in Parlamento, presenterò la proposta alla maggioranza, perché un centrodestra moderno deve porsi questo problema». Il Ministro per gli Affari Esteri ha stabilito così nei giorni scorsi la linea del partito durante la manifestazione La Piazza organizzata da Affaritaliani.it.
Apriti cielo, squarciati mare
: la Lega frigge.
Massimiliano Romeo, capogruppo leghista al Senato, ha dichiarato il 30 agosto ad Avvenire: «Salvini è stato molto chiaro: no allo ius scholae». L'orlo della crisi è sempre vicino, ma la maggioranza è una maionese che non impazzisce mai. C'è un interesse che tiene tutti insieme  il premierato à la Meloni. Quella prospettiva lega e mette tutti d'accordo. Ma la progettualità nel lungo periodo manca. E prima dello ius scholae c’è stato altro.

Un’estate al fresco

Tanto per cominciare, Antonio Tajani ha riallacciato i rapporti con l’area radicale, quella orfana di Marco Pannella che è andata a coagularsi attorno al fu Prntt (Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito), ora semplicemente Partito Radicale. Anche in questo caso la tattica è chiara: i radicali buoni stanno con noi, sembra voler dire l'unione tra Pr e FI, andando così a spezzare ancora una volta l'elettorato diviso fra +Europa/Radicali italiani, Pr e altri soggetti della fu galassia (Nessuno tocchi Caino, Non c'è pace senza giustizia, Certi diritti e via dicendo). La ripresa dei rapporti con Maurizio Turco e Irene Testa (rispettivamente segretario e tesoriere del Pr) ha prodotto prima l’appoggio elettorale dei radicali alle elezioni europee in favore di Antonio Tajani in particolare e di Forza Italia in generale; successivamente una comunione d’intenti riguardante la giustizia e il sistema carcerario. Si tratta dell’iniziativa denominata: «Estate in carcere – Iniziativa di "comune sentire operativo" con il Partito Radicale». Certo, poi la destra compatta (Forza Italia inclusa) alla Camera e al Senato ha votato favorevolmente al Decreto Legge Carcere sicuro. E Atlante ha già mostrato come il nome dato al decreto non sia stato altro che un ossimoro. Ma poco importa. Quel che conta è l’iniziativa del doppio binario: il treno di Forza Italia può permettersi cambi di rotta improvvisi ma non un deragliamento.

«Il governo arriverà fino alle prossime elezioni»

Lo ha ribadito Antonio Tajani ai microfoni di Le 20h de Darius Rochebin. Forza Italia non è uno sparring partner della maggioranza ma un componente essenziale del triumvirato di governo. Se Fratelli d’Italia e la Lega si rincorrono su chi stia collocando più a destra, reagendo nervosamente qualora nasca qualcosa alla loro destra (telefonare generale Vannacci), Forza Italia ha imparato una lezione preziosissima: in fasi di tempesta, meglio rimanere fermi. Ribadendo le posizioni care alla politica della prima repubblica: anticomunismo e antifascismo. Più si sta fermi, più si attrae personale politico (i passaggi dal Movimento 5 Stelle a Forza Italia nell'ultimo anno ne sono una riprova) e allora tanto vale continuare a presentarsi agli elettori come una forza rassicurante e moderata. Liberale, (perché no) democristiana ma sempre rimanendo immobile.

Pubblicato su Atlante Editoriale https://www.atlanteditoriale.com/certo-un-centro-forza-italia-in-permanente-gravita

«Los viejos soldados», una guerra lunga una vita

Jorge Sanjines con Roberto Choquehuanca e Cristian Mercado. Fonte foto: "Fundacion Grupo Ukamau" ©.

«Questo film indaga nella profondità della società boliviana e cerca di porsi la domanda: è possibile l'amicizia fra un bianco e un originario [aymara]?». A parlare è Jorge Sanjinés, tra i più celebri registi della Bolivia, durante un'intervista di promozione del suo ultimo film Los viejos soldados (I vecchi soldati). La trama segue un adagio politico e sociale: a partire dall'amicizia di due soldati [Guillermo (bianco) e Sebastiàn (aymara)] si dipana la matassa della storia contemporanea boliviana a partire dalla Guerra del Chaco. Vale la pena citare nuovamente il regista:

«[Il film] parla di un disaccordo [desencuentro] presente nella società boliviana: tra città e mondo rurale, dunque tra abitanti originari, indigeni e discendenti bianchi e meticci degli invasori spagnoli [...] Il film che abbiamo realizzato cerca di produrre una profonda riflessione su questo fenomeno pernicioso che ha radici profonde, forse tanto immense da essere impossibile analizzarle e contenerle, ma è inevitabile provare a fare luce, fare appello alla fantasia e all'amore per risolvere questo pericolo in agguato se non viene affrontato».
A tal riguardo, è bene citare anche un documento del 2004 prodotto dalle Nazioni Unite intitolato Disuguaglianza, cittadinanza e popolazioni indigene in Bolivia che analizzava in questo modo la discrepanza esistente tra i bianchi e la popolazione indigena:
«Circa il 62% della popolazione boliviana si considera indigena, di cui la maggioranza è di origine quechua e aymara. Di questo totale, il Il 52,2% vive nelle aree urbane e il 47,8% nelle aree rurali. Il 78% delle famiglie indigene povere non ha accesso all’acqua potabile, il 72% di esse non dispone di servizi igienico-sanitari e il loro tasso di mortalità infantile è il più alto del Sud America».
La descrizione fornita dal documento dell'Onu cattura un fermo immagine del 2004, dunque di vent'anni fa e la situazione parrebbe essere decisamente mutata in favore di una riconsiderazione al rialzo di quella percentuale che si riferisce alle popolazioni indigene, in particolar modo riferita agli aymara. Specie se si considera che, a seguito della prima vittoria elettorale del Mas, Evo Morales Ayma, diventando presidente del Paese, ha avviato un percorso di de-colonizzazione spagnola in favore della cultura aymara (e originaria tout court) procedendo anche a cambiare la Costituzione e adottando il nome di Stato Plurinazionale di Bolivia. Il florilegio di culture presenti nel paese andino è stato, così, dichiarato costituzionalmente e nominalmente. Ma torniamo alla trama, perché Sanjinés ha detto che è stata proprio la Guerra del Chaco a far fare due passi indietro e uno avanti (Vladimir Il'ič Ul'janov, ora pro nobis) alla Bolivia:
«Perdemmo cinquantacinque milioni di soldati ma guadagnammo la coscienza per cambiare il paese da un regime feudale a uno democratico».
È su questa linea che si sviluppa la storia personale di Sebastiàn e Guillermo, fin da subito un intreccio di storia personale e sociale della Bolivia intera. Non manca qualche ingenuità (forse dovute dall'eccessivo ricorso alle cesure) nell'ordito della trama in quanto i due riescono a scappare dal fronte e, sebbene stremati al termine della fuga, a riprendere quasi immediatamente la connessione con una vita quanto più possibile normale e ordinaria. L'amicizia tra i due si salda con la promessa di incontrarsi nuovamente al fine di darsi da fare per far cambiare direzione al paese: nelle trincee c'era chi parlava di socialismo e Sebastiàn aveva rivelato a Guillermo che nel campo gli aymara vivevano in piccole comunità (la sua era quella immaginaria di Orco Chiri) che non prevedeva l'utilizzo di moneta né conosceva la proprietà privata. Un piccolo socialismo in nuce, quello aymara, alle orecchie di Guillermo. Come tralci di una medesima pianta di vite, i due si allontaneranno per continuare a cercarsi nel corso degli anni '50, gli anni di una prima rivoluzione, sebbene poi soffocata da svariati colpi di stato (ma sull'aspetto strettamente politico non ci soffermeremo). Dopo aver fatto ritorno ad Orco Chiri, passato più o meno un lustro, l'ex soldato aymara lascia moglie e figlio perché vuole andare in città a riprendere contatti col suo vecchio commilitone e unirsi ad un cambiamento rivoluzionario di cui gli giungono solo lontanissime eco; il blanquito, invece, a scuola (diventa insegnante di storia) si innamora perdutamente di una collega aymara, la cui presenza aveva destato più di qualche contrarietà nella comunità bianca e conservatrice (per non dire razzista). Sebastiàn diventa minatore, fa parte del sindacato ma, nel momento in cui vorrebbe tornare a Orco Chiri, non riuscirà perché gli anziani della comunità non glielo permettono. In realtà la sequenza finale vale, da sola, tutta l'ora e mezza del film: Sebastiàn è ormai un dirigente (fa parte del controllo operaio) della Comibol, cioè l'impresa statale per la gestione delle miniere, mentre ormai da un paio di decenni Guillermo è parte integrante della comunità aymara della moglie. I ruoli si sono scambiati: chi prima era affascinato dalla cultura campesina ora riesce a parlare la lingua aymara (Guillermo) mentre Sebastiàn è un alto funzionario che si sposta in Mercedes per le vie di La Paz, vestendo in giacca e camicia alla maniera occidentale. Carne da cannone Per il comando boliviano durante gli anni della guerra del Chaco, gli aymara e i quechua erano poco più che carne da cannone, tanto da relegarli in apposite compagnie in cui i bianchi non erano presenti: «Il destino dei soldati boliviani alla fine fu a dir poco [la rappresentazione di una] tragedia», ha sottolineato Esther Breithoff nel suo saggio Conflict, Heritage and World-Making in the Chaco: War at the End of the Worlds?. Il film vuole anzitutto spiegare questo distacco che era presente nella società boliviana: gli uomini dei popoli originari venivano «separati dalle loro famiglie» spesso con violenza (prima sequenza del film) e portati in un contesto completamente differente dall'altipiano boliviano.
«"Servirono come carne da cannone negli errori di comandanti inetti" (Querejazu Calvo 1975, 131). Nonostante ciò, hanno dimostrato una grande dose di coraggio. Nonostante il caldo, la fame e la sete che li torturavano nel Chaco, continuarono a difendere un lembo di terra che alla fine non significava nulla per loro».

La separazione tra le due realtà è presente anche nella Bolivia odierna: i blanquitos sono anche chiamati gringuitos, in senso dispregiativo. L'adagio politico-sociale del film sta tutto nel riscatto indigeno e nel nuovo corso della Bolivia: segnato positivamente, come mostra Sanijnés nel suo film, dal concorso delle popolazioni indigene al nuovo corso democratico del paese. La nuova storia della Bolivia, dunque, che le popolazioni originarie hanno contribuito a scrivere (o meglio ri-scrivere) soprattutto a partire dal momento più drammatico della storia del paese. 

«Esiste un piano Usa per spaccare il Mas dall'interno», ma è Morales ad aver cominciato

«Le informazioni trapelate dall’ambasciata Usa in Bolivia mostrano chiaramente che esiste un piano per la ri-colonizzazione del nostro paese. E questo sarebbe possibile andando alla rottura del Mas per cercare di candidare un outsider alle prossime elezioni per conto del Mas». Evo Morales, Presidente del Mas-Ipsp e autoproclamatosi candidato del partito per le elezioni del 2025, legge pubblicamente un documento «siglato il 18 aprile dall'ambasciata degli Usa in Bolivia», ha assicurato, nel corso della manifestazione di ieri [17 agosto 2024] a Caranavi (piccola cittadina nella regione de las yungas a nord est di La Paz). «Stanno cercando di spaccare il Mas per prendersi il litio e le terre rare del nostro paese, hermanos», dice Morales leggendo il documento  e arringando la folla ammutolita in religioso silenzio. «Eso nunca, Evo! [Questo non succederà mai, Evo!]», urla qualcuno: la tensione si rompe fragorosamente in un applauso in sostegno a Morales. Il discorso continua e si conclude in una festa nella cittadina yungeña. Dopo le tensioni verificatesi nel partito a seguito dell’annuncio della sua candidatura, nonché dopo aver di fatto – spaccato in due il Mas tra evisti (tendenza di sostenitori e fedelissimi di Evo Morales) e arcisti (tendenza di sostenitori del Presidente boliviano Luis Arce Catacora e del vicepresidente David Choquehuanca), Morales sembra aver preso in mano la situazione e sta calando tutti gli assi che ha in mano.

Un candidato outsider?

Questa sarebbe la rivelazione resa da Evo Morales mentre parlava dal palco allestito per la manifestazione svoltasi a Caranavi. L’obiettivo dei gringos sarebbe il medesimo di sempre: appropriarsi delle ricchezze della Bolivia, specie nella fase attuale in cui l’occidente politico ha sempre maggior necessità non già di idrocarburi, quanto di terre rare e litio. Materie di cui la Bolivia è indubbiamente molto ricca. Un candidato terzo che non proverrebbe dalle fila del Mas sarebbe il colpo di teatro «dell’impero nord americano», nonché di parti della borghesia boliviana: dopo il tentato golpe che ha coinvolto settori deviati dell’esercito e dello Stato maggiore boliviano, gli Usa – sostiene Morales – si starebbero preparando a «spaccare il Mas dall'interno».

Il comizio di Evo Morales a Caranavi | 17 agosto 2024 | Fonte: pagina Facebook Evo Morales Ayma.

Chi spacca cosa?

Uno scenario di intromissione nel processo elettorale di un paese sudamericano non rappresenta, nei fatti, una novità per la politica internazionale. Non serve riesumare la dottrina Monroe nella sua riformulazione rooosveltiana (così come pure ha ricordato Morales dal palco di Caranavi), basti pensare ai colpi di stato palesemente eterodiretti dagli Usa nella regione. Il golpe nei confronti della prima vittoria di Hugo Chavez in Venezuela, per rimanere nei primi anni del nuovo millennio, ne fu un chiaro esempio. Sebbene sia del tutto plausibile, tuttavia la spaccatura del Mas non sarebbe da imputare a nessun altro se non a Evo Morales stesso. Ad ottobre dello scorso anno [2023], Evo Morales ha tentato il colpo di mano sul Mas, di cui è tutt’ora Presidente, come già ricordato (la carica giuridicamente più importante) convocandone la parte del partito a lui fedele in un congresso-farsa nel dipartimento di Cochabamba, nella cittadina di Lauca Ñ e da lì è cominciata a venir giù la metaforica e proverbiale slavina. Il partito si è spaccato e ora esistono due Mas che sono letteralmente l’uno contro l’altro.


Casus belli

Si aggiunga la questione della cosiddetta auto-proroga dei giudici: il Presidente Arce sostiene la proroga dei giudici di quella che in Italia chiameremmo Corte Costituzionale e che invaliderebbe la candidatura di Morales alle presidenziali. Non essendosi ancora tenuta la votazione popolare che sostituisca i membri decaduti a dicembre 2023, il Governo li ha prorogati de facto. Evo ha mostrato i muscoli e ha proceduto con i suoi mezzi: blocchi stradali in tutto il paese. Dal 22 gennaio a metà febbraio [2024] i sostenitori di Morales (che guida la sua corrente dal fortino di Cochabamba) hanno paralizzato le principali strade e autostrade del paese, in particolare l’arteria Oruro-La Paz, attuando blocchi stradali, interrompendo commerci, trasporti pubblici e privati. Secondo Gary Rodriguez, portavoce dell’Ibce (l’Istituto boliviano per il commercio estero), in quei giorni «l’economia boliviana ha perso circa 75 milioni di dollari al giorno». Ma la faccenda non si è conclusa neanche in quel caso. Se Morales ha convocato il congresso ad ottobre [2023], riconvocandone poi un secondo nel marzo [2024] (chiamato ampliado), Arce ha risposto chiamando l’assemblea congressuale a El Alto nel mese di maggio. Per l’amministrazione e la burocrazia boliviana, però, nessuna delle convocazioni è giuridicamente valida: nessuna delle assemblee è stata riconosciuta come propria del Mas così come nessuna ha avuto il placet per la registrazione del nuovo statuto che entrambe le parti hanno riscritto in separata sede. Nel corso di questo braccio di ferro politico si è inserita la divisione all’interno di ogni singola organizzazione sindacale, sociale e interculturale che orbita attorno al partito, tanto che il 2 marzo il grande incontro (in aymara: Jach’a Tantachawi) tenutosi a Oruro e promosso dal Conamaq (il consiglio nazionale delle popolazioni indigene del Qullasuyo) è terminato a pugni e sediate, con tanto di intervento della forza pubblica. E sì che l’organizzazione doveva scegliere un nuovo rappresentante tra due entrambi del Mas. Manco a dire ci fossero davvero esponenti outsider o della destra. I rapporti tra le due ali del Mas sono andati deteriorandosi sempre di più quando ad inizio giugno [2024] il presidente del Senato Andronico (Mas, vicino a Morales), in sostituzione al presidente assente e al vice Choquehuanca in missione all’estero, ha fatto in modo di far approvare la destituzione dei componenti del tribunale che invaliderebbero la candidatura di Evo nel corso di una seduta parlamentare. Le elezioni popolari non sono state, tuttavia, ancora indette e la proroga dei giudici continua ad esserci de facto. L’azione di Andronico non ha fatto altro che inasprire ancora di più le parti in lotta nel Mas e nella società boliviana.

E ora?

Forse dopo il tentato golpe ai danni della presidenza di Luis Arce Catacora, la Bolivia dovrà davvero fare i conti con il peso specifico dell'autocandidato Evo Morales. In questi mesi (quasi una gestazione) la società boliviana si è atomizzata ed è stata polverizzata a tal punto che risulta verosimilmente impensabile che le due parti in lotta all’interno del Mas possano siglare un accordo di tregua, sedendosi pacificamente attorno ad un tavolo per concludere delle trattative. E i candidati alle elezioni del 2025 continuano a essere due: Evo Morales e Luis Arce.

Pubblicato su La Rinascita - delle Torri

Ma quale "premierato": «è elezione del capo». Intervista a Gaetano Azzariti (Università La Sapienza) - [Atlante Editoriale]


Meloni ha già definito il premierato come «la madre di tutte le riforme che si possono fare in Italia». Si parla da tempo di premier per indicare i presidenti del consiglio, anche se il termine è di derivazione inglese e indica una figura propria del sistema anglosassone. Professor Azzariti, a quale premierato sta puntando il governo? 

«Il nome premierato mostra già una certa incertezza e confusione che caratterizza tutto l’articolato: quando non si sa bene a quale modello specifico rifarsi, si inventa un neologismo. L’evocazione del premier è del tutto impropria. Il modello costituzionale inglese è anni luce lontano dal nostro vigente, così come distante dal disegno di legge in questione. È una evocazione molto generica e infondata. Si tratta di un sistema unico al mondo, come spesso viene detto nel dibattito politico per caratterizzare il premierato. Di tanto in tanto viene fatto riferimento ad Israele in cui, per un breve periodo, c’è stata l’elezione del Capo del Governo». Non è un riferimento attuale, mi pare… «No, è del tutto generico. Come è ben noto il sistema politico-istituzionale israeliano, per tante ragioni, è inconfrontabile con quello italiano, anche per la questione religiosa [si tratta di uno Stato confessionale]». 

Se lei dovesse definire la riforma del Governo Meloni, come la definirebbe? «Secondo i modelli classici non potrebbe essere definita né come presidenziale né come parlamentare. Se io dovessi darne una definizione più appropriata rispetto al contenuto, la definirei: modello di elezione del capo». 

Perché?

«Si punta a quello. Sto alle dichiarazioni ufficiali, non è una mia dichiarazione maliziosa. Si era partiti con l’elezione del Capo dello Stato. Poi, per le ragioni più o meno note, si è passati all’elezione del Presidente del consiglio dei ministri. In seguito sono intervenuti sia Casellati, sia esponenti del Governo, per affermare che l’unica cosa indiscutibile è l’elezione del Capo del Governo. Poi, ancora, Meloni ha dichiarato che lei non avrebbe nulla in contrario ad eleggere anche il Capo dello Stato. Quello a cui si punta è, evidentemente, l’elezione di un capo. Che sia Capo del Governo o Capo dello Stato, purché ci sia qualcuno che comandi essendo legittimato dal corpo elettorale». 

Come si è arrivati a questo sistema ‘ibrido’? 

«Questo modello è il frutto di una lunga stagione [di governi che hanno puntato] alla governabilità, che è un obiettivo legittimo delle democrazie, come ha affermato anche la Corte Costituzionale. La torsione della governabilità è l’elezione del capo e adesso siamo giunti, per così dire, al capolinea. Noto, poi, una scarsa sensibilità costituzionale, vale a dire l’idea che la Costituzione possa ridursi all’elezione del capo, di un unico soggetto al comando, per rispondere ad una domanda retoricamente esprimibile in: ‘vuoi tu scegliere il governo?’. Il diritto costituzionale dovrebbe portare all’equilibrio dei poteri, non all’accentramento di essi nelle mani di una sola figura».

Proprio sulla mancanza di contrappesi nel ddl, che idea s’è fatto? «È il vizio peggiore del disegno di legge, che va a distinguere questo modello di – insisto – elezione del capo, da altri modelli esistenti. Nelle forme di governo presidenziali democratiche (così come ci si potrebbe riferire al semi presidenzialismo) c’è il rispetto dei pesi e dei contrappesi: vige una divisione dei poteri e un legislativo autonomamente legittimato rispetto al Capo dello Stato. Il difetto maggiore di questo ddl è la norma che stabilirebbe l’elezione del Presidente del Consiglio dei ministri coinvolgendo anche entrambi i rami del Parlamento: si vorrebbe scrivere in Costituzione in cui ci sia una assoluta omogeneità tra legislativo ed esecutivo. Provo a citare un esempio: gli Stati Uniti. In quel sistema può (e non deve) verificarsi una consonanza tra Congresso e Capo dello Stato, ma può anche non esserci e quella è una valvola di sfogo fondamentale. Aggiungo che negli Usa il Congresso è autonomo».

A proposito di autonomia e di Parlamento, il Governo Meloni sta facendo discutere per l’abuso del ricorso ai decreti legge e alla decretazione d’urgenza. C’è da dire, però, che questa pratica negativa procede da circa un trentennio. Si può dire che vige già un premierato di fatto, una sorta di frutto avvelenato del berlusconismo?

«È il frutto avvelenato del lungo regresso italiano. Non è solo colpa di Berlusconi: questo atteggiamento l’hanno avuto tutti i soggetti politici che si sono avvicendati al governo, quasi naturale a tal proposito è il riferimento al Governo Renzi. Si tratta di una tendenza alla verticalizzazione che è propria della tradizione dei governi di centrodestra ma, in qualche modo, è stata anche assorbita da tutto l’assetto politico. E i nodi, alla fine, vengono al pettine, proverbialmente parlando. Siamo in una fase di lungo regresso. A questo punto, par di capire, che anche chi ha peccato in passato (mi riferisco alle forze progressiste) si sia reso conto che il rischio che si sta correndo è molto elevato: spero che questo possa indurre a riflettere non già sugli errori del passato, quanto soprattutto in virtù del futuro. Come si ricordava a proposito del decreto legge, si tratta di anni di abusi: non si è fatto nulla per frenare questa tendenza e ora il Governo Meloni compie – semplicemente – passi ulteriori rispetto ai già troppi percorsi nel passato».

In effetti negli anni il centrosinistra si è ben acclimatato alla decretazione d’urgenza. 

«Potremmo usare lo slogan dei 5 Stelle che furono, quelli di tempo fa: la decretazione d’urgenza non è né di destra, né di sinistra. Mi verrebbe da dire che anche i governi della cosiddetta Prima Repubblica ne abusarono: è un’onda che non è mai stata interrotta nonostante gli sforzi della Corte Costituzionale, nonostante gli sforzi dei Capi di Stato che hanno sollevato perplessità, nonostante gli sforzi del Parlamento (penso alla legge 400/88 che ha cercato di limitare la decretazione d’urgenza). E ora la dimensione dell’onda è allarmante».

Provando a cambiare argomento e toccando l’autonomia differenziata, il Corriere della Sera di sabato pubblica un intervista al ministro Calderoli il quale sostiene che la sua legge sia una sorta di cerniera per un paese a pezzi. Lei che ne pensa e, soprattutto, a quali conseguenze potrà portare? «Ridisegnerà lo stato sociale. La distribuzione delle funzioni relative a diritti fondamentali (scuola, sanità, lavoro etc) diventeranno di competenza regionale. Se la sanità – ad esempio – verrà gestita dalla regione, sarà ben diversa da una sanità nazionale. Si tenga presente che la sanità è già materia concorrente, sebbene venga garantito un qualche controllo da parte dello stato centrale. Se si affida tutta la materia alle regioni, è evidente che si giungerà ad una rottura dell’unità economica, politica e sociale del paese. Il lavoro lombardo sarà diverso dal lavoro calabrese. E così via per le altre ventitré competenze in oggetto».

A proposito di competenze diverse e dell’unità nazionale, le chiedo un parere sul discorso del Presidente Mattarella alla 50° edizione delle Settimane Sociali della Chiesa Cattolica in cui ha utilizzato l’espressione «analfabetismo costituzionale». Ci sono state varie reazioni, il ministro Salvini non l’ha presa benissimo, tuttavia resta l’espressione: è stata troppo forte o è caratterizzante – alla luce di quanto ci siamo detti a proposito delle modifiche Costituzionali – delle forze politiche di centrodestra al governo? «Mi verrebbe da dire che è troppo debole! Alcune reazioni che ho letto al discorso del Capo dello Stato dimostrano come questo analfabetismo costituzionale investa alcuni esponenti politici: o il discorso non si è capito, o si è frainteso, o non lo si è letto. È stato, invece, un bel discorso quello del Capo dello Stato che andava ad inserirsi sulle spalle dei classici: gli assetti costituzionali e democratici non sono l’elezione di un capo che tutto può fare ma alla distribuzione, al controllo e alla diffusione del potere. Il Capo dello Stato afferma quello che tutte le teorie democratiche e costituzionali dicono: c’è un rischio di tirannia. La tirannia della maggioranza è il rischio maggiore. Spero, anzi, che sia analfabetismo costituzionale perché se non lo fosse, sarebbe ancora più inquietante».

Tirannie, dittature della maggioranza: il ministro Salvini ha dichiarato che vige l’opposto, cioè quella delle minoranze. «Non so cosa sia esattamente la dittatura delle minoranze. So che in un assetto democratico è necessario coltivare un conflitto. Un conflitto hegeliano che opera all’interno dello stato costituzionale. La democrazia è dialettica tra maggioranza e opposizione: è l’essenza della democrazia. Non c’è democrazia se non c’è conflitto tra maggioranza e opposizione. Dopodiché capisco che possono esistere dei poteri di veto di minoranze, ma questo è tutto un altro piano del discorso. Normalmente, i poteri di veto (negativi) possono essere determinati da quelli che tradizionalmente si chiamerebbero poteri forti: una regione che impone l’autonomia differenziata (sebbene non si siano ancora definiti i livelli essenziali delle prestazioni), potrebbe essere un caso di condizionamento. Se pensiamo a tutte le vicende legate al cosiddetto lobbysmo è certamente un fattore preoccupante, ma col rapporto minoranza/maggioranza non ha nulla a che fare. Ripeto: in democrazia c’è un problema di contenimento della maggioranza per evitare la classica dittatura della maggioranza e il rispetto del pluralismo politico».