sabato 14 dicembre 2019

Libertà di stampa in Italia, il monopolio del Capitale *

La notizia è del 30 novembre [2019]: John Elkann starebbe tentando la scalata nel gruppo Gedi.  La Cir group spa (Compagnie industriali riunite), holding della famiglia De Benedetti, ha confermato: «Ci sono in corso discussioni con Exor [la holding lussemburghese degli Agnelli-Elkann] per una possibile operazione di riassetto», oppure come ha scritto «Repubblica», quotidiano di punta del gruppo, «la holding Cir è in trattativa con Exor per vendere la quota di controllo di Gedi». Senza contare il fatto che John Elkann è già vice presidente del gruppo.
Le vicende familiari di due lignaggi del tutto rilevanti del capitalismo italiano si riflettono sulle sorti dell’informazione nazionale.
Non c’è ancora nulla di certo, se non una fase di profonda interlocuzione tra le parti, cominciata - a quanto pare - a causa di litigi familiari dei De Benedetti. Secondo la ricostruzione del «Messaggero», oltre al tentativo di scalata degli Agnelli-Elkann ci sarebbe anche l’interesse di più parti ma non confermate, come il fondo Peninsula di Luca Cordero di Montezemolo e Flavio Cattaneo, così come del gruppo che fa capo a Vincent Bolloré, a cui si rimanda all’articolo del 2017 di Marta Gatti pubblicato sulla rivista «Nigrizia».Gigante-Gedi: tre quotidiani e un crogiolo di testate
Numeri e nomi a parte, il Gruppo Gedi ed Exor hanno rispettivamente confermato il reciproco interesse nella fase di interlocuzione in atto e, se dovesse andare in porto l’acquisizione del gruppo, si parlerebbe di una scalata della Giovanni Agnelli BV già azionista per il 6,9% di Gedi. Al momento, come riportato da «Repubblica» in un articolo del 29 novembre [2019], il capitale ordinario della società è così suddiviso: «Cir 43,78% (pari al 45,753% della quota sul capitale volante), Exor 5,992% (pari al 6,262 della quota volante)».
Il gruppo editoriale in oggetto, tuttavia, non è solo «Repubblica», «La Stampa» e «Il Secolo XIX», che di per sé rappresenterebbe una fetta imponente dell’informazione, o come si è soliti dire in questi decenni disgraziati, del “mercato dell’informazione”. Rappresenta, tuttavia, anche una porzione imponente del flusso di notizie (senza calcolare tutti gli inserti dei quotidiani prima citati) che passano attraverso i giornali e periodici a diffusione nazionale e a pubblicazione settimanale, mensile o bimestrale, quali: «Il Tirreno», «Il messaggero» (Udine), «Il Piccolo» (Trieste) , «La Provincia» (Pavia), «Il Mattino» (Padova), «La Gazzetta di Mantova», «La Nuova Ferrara,», «La Nuova Venezia», «Il Corriere delle Alpi» (Belluno), «La Sentinella» (Ivrea), «La Tribuna» di Treviso, «La gazzetta di Modena», la «Gazzetta di Reggio» (Reggio Emilia)»; «L’Espresso», «National Geographic», «Mind», «Limes» «Le Scienze», «MicroMega», «Travellers» passando per le testate nazionali digitali come «Huffington Post Italia», «Mashable Italia», «Business Insider» e il portale «Kataweb» e senza contare le emittenti radiofoniche (Deejay, Capital, m2O). Un impero dell’informazione che può vantare 648,7 milioni di euro di ricavi.
 
RCS: l’occhio del Cairo
Andando ad esaminare gli azionisti di un altro colosso dell’informazione italiana, che da anni si contende il primato con Gedi, notiamo che l’azionista di maggioranza è Urbano Cairo col 59,831%, seguito da Mediobanca e da Diego Della Valle (rispettivamente aventi il 9,930% e il 7,624%), non meno importanti gli ultimi due azionisti: Unipol (4,891%) e la China National Chemical Corporation (4,732%). Il gruppo Rcs, tuttavia, rappresenta anche un colosso transnazionale detenendo «El Mundo», «Expansiòn» e «Marca» così come gestendo le seguenti pubblicazioni quotidiane a diffusione nazionale e digitale: «Corriere della Sera» (con relativi inserti «Economia», «La Lettura», «Corriere Salute», «Corriere Innovazione» e la Tv Corriere Tv),«Diritti e risposte», «La Gazzetta dellSport», «Buone notizie», «Il rumore della memoria» e il portale di Milena Gabanelli «Dataroom».
Le testate locali che fanno capo al gruppo sono: «corriere di Bergamo», «Corriere di Bologna», «Corriere di Brescia», «Corriere Fiorentino», «Corriere Milano», «Corriere Roma», «Corriere del Mezzogiorno», «Corriere Torino», «Corriere Veneto» senza contare i periodici cartacei e digitali (a cui si rimanda al link per evitare un lungo elenco che non porterebbe a molto).
Ultimo dato di rilevante importante, l’apertura della casa editrice Solferino, parte del gruppo stesso, ça va sans dire.
Se ci limitassimo a prendere in esame solamente i casi più grandi dei gruppi industriali legati all’informazione, ci si renderebbe presto conto che la libertà d’informazione è del tutto legata al profitto e ad interessi che tutto concernono tranne quello che dovrebbe guidare un quotidiano o un periodico. Fornire, cioè, una lettura di quel che accade, dare una propria interpretazione sui fatti, fornire la base per la formazione di una propria opinione in lettori che non sempre sono “addetti ai lavori” di quel che accade nelle stanze della politica o dei retroscena legati a questo o quel personaggio politico e avviare un dibattito che sia il più aperto e scevro dalle posizioni da “tifoseria” di questi ultimi venti/trent’anni.
La funzione della carta stampata è, nel corso degli anni, diventata del tutto altra rispetto a come la si intendeva negli anni ’80 o ’90, o come poteva essere quella di partito, quando questi non erano semplicemente dei comitati elettorali permanenti e attenti solo alla mediaticità del piatto di pasta mangiato dal leader su instagram o della foto con il tenero asinello postata su Facebook. Di fronte alla volontà di soppressione del finanziamento pubblico all’editoria, che certamente ha generato casi tutt’altro che onorevoli riguardo il suo utilizzo, l’informazione dell’Italia del 2000 rappresenta il prodotto della transnazionalizzazione delle imprese che traggono profitto dall’informazione e che gestiscono quotidiani e periodici in base all’utile che ne ricavano.
I giornali diventano, così, delle veline che molto spesso riempiono le proprie pagine di retroscena e di interviste ben calibrate a personaggi in cerca di ribalta o che devono porre in essere il proprio pensiero in articoli che spesso non arrivano al concetto e si limitano a rimanere sulla superficie delle cose. Il pensiero diventa unico ed è quello del capitalismo e dei suoi alfieri. Con buona pace di Giorgia Meloni che ritiene come il pensiero unico sia quello Lgbt. Il quotidiano resta un vettore di notizie le quali debbono, necessariamente, possedere notiziabilità altrimenti non presentano alcun margine di interesse da parte di chi la pubblica. E se non possiede interesse (leggi: possibile ritorno di profitto) per chi la pubblica, automaticamente non è da proporre al lettore. L’interesse delle aziende transnazionali ad avere un proprio gruppo editoriale sta nel fatto che, più o meno, i maggiori gruppi industriali di ogni paese hanno un legame con il mondo dell’informazione: la compenetrazione tra aziende, holding, banche, società assicurative e quant’altro, rende estremamente complicato il districarsi del lettore tra le pagine dei giornali e tra le notizie proposte: discernere la veridicità dei fatti con quanto accaduto nella realtà, formarsi un’opinione che non sia già nell’alveo di quelle già pre-confezionate dai quotidiani nazionali (e anche locali, come abbiamo visto) è molto complicato, per non dire impossibile.
L’interconnessione degli interessi dei gruppi industriali nel creare profitto là dove ci dovrebbe essere un interesse pubblico sovrasta qualsiasi buona intenzione, di cui la strada del capitalismo (non già del proverbiale inferno) è lastricatissima: le grandi acquisizioni da parte di aziende transnazionali od holdings rappresentano il volto più spietato della distorsione delle coscienze nel nostro paese. Non più formazione, bensì aprioristica distorsione. A questo si affiancherebbe il dibattito relativo al ruolo del giornalista, stante la situazione attuale, ma questa è un’altra storia.

* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6335

venerdì 13 dicembre 2019

Lo sfruttamento nel carrello della spesa *

Il tema dell’analisi della produzione e della filiera che sta dietro ad un certo prodotto che mettiamo nel carrello quando decidiamo di recarci presso un supermercato della Grande distribuzione organizzata (Gdo), è già stato sviscerato e problematizzato da diverse pubblicazioni scientifiche e della pubblicistica. Tra di essi c’è certamente da segnalare il valido e puntuale saggio di Fabio Ciconte e Stefano Liberti, pubblicato quest’anno.

Entrambi giornalisti e saggisti, hanno dato alle stampe per Laterza il volume denominato Il grande carrello - chi decide cosa mangiamo, andando ad indagare il comportamento pervasivo della Gdo nelle abitudini alimentari delle italiane e degli italiani. Tra le questioni sviscerate con dovizia di particolari vi è quella dell’illusione del consumatore che acquista un prodotto marchiato dalla grande catena presso cui si è recato per fare la spesa con l’illusione che sia un qualcosa di diverso da quello poco distante sull’altro scaffale. «Finiamo - si legge in una parte del saggio - per comprare prodotti diversificati nel marchio e nel marketing ma in realtà identici, perché in un universo di grandi concentrazioni è facile imporre un’omologazione al ribasso» (Il grande carrello, p. 57, Laterza).

E questo è del tutto vero se pensiamo alla fase che il mondo globalizzato sta vivendo da decenni: la compressione dei diritti e dei salari si riflette anche sulla produzione e sul modo di acquistare i prodotti dai produttori da parte della Gdo. Interessante e condivisibile è il punto che i due autori terminano il discorso sulle aste e, in particolar modo, sul comportamento dell’azienda Eurospin il cui comportamento ha favorito una «guerra fra poveri: da una parte gli agricoltori che non ci stanno più dentro; dall’altra i consumatori, che vogliono spendere sempre meno […] l’asta al doppio ribasso è l’ultima frontiera della trasformazione del cibo in commodity […] Senza voler stabilire un legame diretto tra aste al doppio ribasso e sfruttamento nei campi, è indubbio che questa prassi favorisce lo sfruttamento, perché crea un collo di bottiglia che impedisce agli agricoltori di fare reddito e li obbliga in un certo senso a cercare mezzi alternativi per rimanere nei costi» (Il grande carrello, p. 68, Laterza).

È una correlazione intima e conseguente, invece, quella del legame fra aste al doppio ribasso e sfruttamento nei campi: è il caso di porre questa relazione come necessaria in un’analisi di critica complessiva - e particolare - nei confronti del sistema capitalista nella fase attuale di crisi di sovrapproduzione. Il capitalismo ha necessità di porre ai limiti della schiavitù una parte consistente della popolazione al fine di mantenere il proprio status non solo per se stesso e per le classi sociali più alte ma, paradossalmente, soprattutto per il proletariato e sottoproletariato. Là, dove la scure del sistema più iniquo e ingiusto del Mondo ha colpito più di tutto e più di tutti, ovvero i diritti legati al mondo del lavoro, ai servizi pubblici e alla salute, quello del cibo è un fattore che non può essere sottoposto a defaillances, il capitale non può permetterselo.

È storicamente, e letterariamente (si pensi all’episodio dell’assalto ai forni contenuto nei “Promessi Sposi” del Manzoni), diffuso che il popolo affamato si pone di traverso ancor di più al potere costituito che lo opprime che fino a poco tempo prima creava le condizioni affinché la classe subalterna fosse ancora più tale e permanesse nella sua condizione di indigenza. Il capitale ha dunque il compito di creare tanto il consenso quanto il dissenso: attraverso lo sfruttamento proto-schiavile di una fascia determinata di persone, quali immigrati irregolari impiegati nel lavoro bracciantile, riesce a mantenere la facciata del costo contenuto dei prodotti agli occhi del proletariato e del sottoproletariato. Da un lato permette a vaste fasce di persone di approvvigionarsi a costi oggettivamente bassi; dall’altra fa in modo che la rabbia sociale prodotta dalla mancanza del lavoro, dalla compressione dei salari, dalle tasse sempre più alte, si scarichi verso quella parte di popolazione (perlopiù composta da immigrati irregolari) che popola periodicamente i ghetti del foggiano fuori dai centri urbani (che un tempo si sarebbero chiamate baraccopoli), in Campania o in Calabria.

Il proletariato, infatti, avendo come unico orizzonte il fine del mantenimento del proprio nucleo familiare a costi piuttosto contenuti, non bada - necessariamente - alla filiera o al come un tale prodotto riesce ad arrivare sugli scaffali del supermercato a lui più vicino, tanto più se è uno che gli fa spendere poco per ottemperare al compito della spesa.

Contenere il cosiddetto malcontento popolare almeno da un punto di vista alimentare, evitando che il costo dei prodotti più cari a strati più bassi della popolazione lievitino, è il compito attuale del capitale: una porzione sempre più ingente di popolazione, bersaglio della campagna elettorale e degli slogan come "prima gli italiani", è quella che accetta condizioni semischiavili di lavoro e al contempo il ricatto - da parte di padroni italiani, s’intende - della denuncia alle autorità, dunque il conseguente rimpatrio, qualora dovesse alzare la testa.

Incanalare l’odio sociale contro soggetti più fragili è diventato, oramai, sport nazionale dell’Italia del XXI secolo: cercare di contenere la rabbia sociale e nel frattempo avallare chi indica quegli sfruttati nell’ambito della politica e delle campagne elettorali sempre più esautorate di ogni reale contenuto politico, è la lotta del capitale. Stanare chi indica e creare coscienza di classe contro gli indicatori è il compito dei comunisti.


* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6332

mercoledì 30 ottobre 2019

Il «duello» nel dibattito che non c'è

Piccola premessa
Chi ha detto che la filosofia è inutile? Probabilmente qualche Presidente di qualche stato latino americano lusofono in odor di potere assoluto, o di qualcun altro evidente estimatore di Pinochet (per quel che sta succedendo in Cile: https://www.facebook.com/TomasHirschDiputado/videos/933282370390086/). Chi si scaglia contro l’inutilità della filosofia non è qualcuno che ha compreso la vera essenza della materia individuandola nell’inutilità della stessa, piuttosto ha compreso la portata rivoluzionaria di un modus pensandi che potrebbe far crollare le fondamenta del proprio potere costituito sul terrore o su di una evidente mancanza di democrazia. Una nazione retta in modo a-democratico (con tanto di alfa privativo) evidentemente pone se stessa in opposizione al concetto di Stato giustificandone, tuttavia, la giustezza del proprio sistema. Così i dittatori nazifascisti assumevano il controllo dello Stato con la forza per fare in modo di poter governare per il bene di tutti: le funzioni vitali della Nazione potevano essere subordinate per un bene più grande, quello della salvezza dello Stato, così allo stesso modo le libertà del popolo, degli elettori o dei cittadini, com’è in voga determinare ultimamente il corpo sociale.
Oltre agli esponenti politici sopra citati, ci sarebbe da aggiungere all’elenco anche coloro i quali ritengono che il mondo possa essere determinato dalle regole dell’economia e si affida ciecamente ad economisti per prevedere il futuro dello sviluppo economico del Paese (così come le tendenze macroeconomiche) salvo poi scoprire che i numeri sono sempre implacabilmente gli stessi: +0.x o -0.y, dunque conta davvero molto poco.

Fenomenologia del dibattito politico
Eppure il dibattito politico si serve costantemente della filosofia, certo non dandogli pacche sulle spalle o mostrandole la dignità che si merita. Al contrario, il dibattito la irride forse anche senza volere, ma prendendola ugualmente in giro.
Una prova tangibile di tutto questo è anzitutto l’ultima manifestazione di un cosiddetto dibattito avvenuto in seconda serata sulla sempre pessima trasmissione «Porta a Porta» condotta dall’inossidabile Bruno Vespa. 
Titolone in grassetto dietro il conduttore della trasmissione: «Il duello: Matteo vs Matteo». 
Seduti l’uno di fronte l’altro c’erano i due Senatori della Repubblica Matteo Salvini e Matteo Renzi, leader delle loro formazioni politiche l’una sulla cresta dell’onda mediatico-elettorale, l’altra nascente. Matteo contro Matteo rimanda ad un’idea di scontro, prima ancora che ad un incontro: ci sono due persone che si contrappongono e lo fanno senza esclusione di colpi, altrimenti la puntata non si sarebbe intitolata “il duello” ma piuttosto “il confronto” o “il dibattito”. Porre un esponente contro l’altro significa trasporre sul piano dialettico una differenza di posizioni e di risposte alle questioni d’attualità e/o storiche, poste dal conduttore per orientare il dibattito.
Si potrebbe, certo, in questa sede affermare sommessamente come tale confronto e dibattito sostanzialmente non è in quanto posto su basi del tutto franabili, come avrebbe detto un timorato Aldo Baglio in «Così e la vita» mentre scalava una roccia per l’appunto franabile (e non friabile dato che frana «non è che fria»): il dibattito è tale se ci sono posizioni contrapposte riguardo una visione del mondo del tutto opposta a cui fare riferimento. Qualora, per assurdo, uno dei due fosse stato contrario all’economia di mercato (alias: il capitalismo) allora sì poteva essere utile chiamare ‘dibattito’ un incontro siffatto. Dato che i due contendenti trattano delle stesse tematiche con eguale linguaggio, a parte alcuni aggettivi ed espressioni più o meno truculente o fiorentinamente colorite, è sostanzialmente inutile collocare il confronto nell’alveo del ‘dibattito’. Chiamarlo così, al contrario, serve non a chi usufruisce del messaggio ma a chi vuole inviarlo: porre su un piano antitetico due persone che la pensano esattamente allo stesso modo e che, a parte qualche frecciatina e battuta di spirito su qualche tema particolare riguardante l’amministrazione di questo o quel comune politicamente retto dalle rispettive controparti politiche o riguardo questa o quella legge appoggiata da Renzi o da Salvini, aumenta una percezione di scontro dra le due posizioni che - in realtà - è completamente assente.
Chi riceve il messaggio, colpito dall’apparizione della puntata in grassetto “Matteo vs Matteo” e corroborato dalla specifica: “il duello” comprende che le parti in causa sono già in lotta, tuttavia - se l’ascoltatore si prendesse la briga di seguire realmente il dibattito - noterebbe che, al netto di grafiche accattivanti per porre sotto una precisa ottica la puntata televisiva, i due non si oppongono in alcun modo alle idee generali dell’altro. Qualora dovessero accennare a farlo ci troveremmo di fronte ad un gioco delle parti che dura il tempo della trasmissione: la manifestazione di equipollenza politica spesso passa attraverso una fase di supposto scontro o litigio strumentale per poi trovarsi sulle stesse posizioni.
Si dirà: «ma allora i porti aperti/chiusi? Quella è una differenza sostanziale». Tale obiezione si sostanzia già nella domanda: non esiste questione di porti aperti o chiusi in quanto se si dovesse davvero chiudere Genova o Palermo - ad esempio - l’economia italiana franerebbe (e stavolta frana davvero, non fria) in un batter d’occhio. La retorica sulla chiusura o apertura dei porti è una lotta tutta a suon di slogan che non aggiunge nient’altro a quanto già detto.
A proposito di slogan sarebbe da continuare a trattare l’argomento con dovizia di particolari, tuttavia lo scritto è già abbastanza lungo, è bene rimandare le riflessioni sugli slogan ad un altro post.

giovedì 25 luglio 2019

La memoria perduta dei giornali italiani: un nuovo "1984" che non suscita indignazione *

Cos’è successo a «l’Unità»? Qualche tempo fa lo hanno descritto alcuni giornalisti vicini alla testata che un tempo era comunista. Un tempo neanche troppo lontano a pensarci bene ma che ora sembra sideralmente distante. Come fa un giornale a perdere tutto quello che ha pubblicato su internet? La risposta è semplice quanto complessa. Cambi di proprietà, legislazione non proprio impeccabile ed evidente noncuranza del patrimonio archivistico della testata hanno realizzato quel che una porzione di opinione pubblica ha conosciuto come la perdita della memoria di uno dei quotidiani più importanti d’Italia. Il combinato disposto fra il cambio della proprietà e la legislazione “non proprio impeccabile” hanno permesso che venisse demandata una questione cruciale, quella dell’archiviazione digitale della memoria delle pubblicazioni giornalistiche, agli editori e alla proprietà dei quotidiani. Vale la pena dare un paio di cenni normativi per chiarire il quadro della questione: quando i server de «l’Unità» sono stati spenti, così come quelli di altri quotidiani di partito («Liberazione», «La Voce Repubblicana», «La Rinascita») e non («Cronache del garantista», «Liberal», «e-Polis», «Corriere Laziale»), le proprie pubblicazioni digitali sono andate perdute. Questo è stato possibile perché il regolamento d’attuazione del d.p.r. 252/2006 – che obbliga gli editori al deposito legale digitale così come per quello cartaceo – non era (e non è) stato ancora pubblicato.  

Cos’è il deposito legale? Il deposito legale, cioè la consegna obbligatoria delle pubblicazioni negli istituti depositari da parte dei soggetti previsti dalla legge (DPR 252/2006), è lo strumento normativo che consente la raccolta e la conservazione dei diversi prodotti in archivi nazionali e regionali. L’obbligo, nonostante sia rivolto anche alle produzioni native digitali non è stato normato dal regolamento d’attuazione per far sì che le pubblicazioni editoriali possano essere ‘raccolte’ dagli organismi preposti dalla legge. Quando ad un sito internet, pur appartenente ad una testata giornalistica di rilevanza nazionale, vengono spenti i server a cui punta a causa della cessazione della vita della testata o di un momento delicato della vita della stessa (es. un cambio di proprietà) e non sono state fatte copie dei contenuti pubblicati, il rischio è quello di perdere tutto quanto sia stato originalmente “postato” sulla rete.  

Tre giornali differenti, un comune denominatore 
Il caso de «l’Unità» è eclatante e già all’inizio del 2017 l’archivio digitale risultava irreperibile, qualora un utente avesse provato a digitare l’indirizzo del dominio , tanto che Pietro Spataro, già giornalista della testata, iniziò a scrivere all’allora direttore Sergio Staino chiedendo spiegazioni a riguardo. Staino disse che si stavano solo aggiornando le macchine perché obsolete. Un po’ come quella scena del “Compagno don Camillo” in cui Gino Cervi, sindaco comunista di Brescello in visita in Urss, chiede prepotentemente a delegati del Pcus come mai siano stati rimossi dall’hotel in cui alloggiavano tutti i quadri che raffiguravano l’allora segretario Kruscev. Risposta: «Per spolverarli». L’indomani i comunisti emiliani si ritrovarono con un altro segretario del Pcus raffigurato, trattavasi di Breznev. Il problema è che non c’è stata nessuna ‘spolveratina’ ai server del quotidiano che un tempo era comunista ma solo una decisa rimozione di tutti i contenuti originali pubblicati unicamente sul sito e su tutti i sottodomini. Al momento l’archivio digitale del quotidiano si trova nel cosiddetto deep web e lo si può consultare tramite TorBrowser grazie all’opera di un gruppo di hacker – ribattezzati scherzosamente dalla rete data ninja – che ha salvato buon parte del patrimonio dal 1946 fino alle edizioni più recenti ma non riuscendo nulla per le edizioni locali e nazionali pubblicate fra il 1929 e il 1946. Allo stesso modo il tormentato percorso di fine-vita (stavolta non volontario) di «Liberazione», il quotidiano organo di Rifondazione Comunista, è molto simile a quello della «Voce Repubblicana», organo del Partito repubblicano italiano il cui patrimonio cartaceo esiste (e lotta insieme a noi!) nelle annate presenti nelle sedi dei due partiti citati. Nessun backup dei contenuti pubblicati solo sui rispettivi siti internet, però, è stato mai realizzato da parte delle redazioni dei quotidiani. La giustificazione che hanno dato i responsabili di entrambe le pubblicazioni, tutt’ora membri dirigenti e organizzativi dei due partiti di riferimento (Prc e Pri) è stata quella per cui nessuno pensava di “finire in così breve tempo”, dunque, “non abbiamo mai salvato nulla”. 

“Sul ponte sventola bandiera bianca”
L’evidente inconsapevolezza del comportamento da attuare da parte da parte di direttori e dalla proprietà dei quotidiani rispetto ad una normativa assente, lacunosa o che non stabilisce chiaramente quali siano gli obblighi da assolvere, come al contrario avviene per il deposito legale è la chiave di lettura per leggere tutti e tre i casi. Tuttavia in mancanza di una normativa che regoli chiaramente il deposito legale digitale, la conservazione della memoria dei siti web viene lasciata all'iniziativa dei singoli i quali, come s’è visto, non posseggono gli strumenti per comprendere l'importanza dell'archiviazione digitale a cui va aggiunto una predisposizione di noncuranza e inosservanza da parte delle redazioni circa l'importanza del rinnovo del dominio e dei relativi servizi nei confronti dell'azienda scelta al momento della registrazione. La mancanza del rinnovo del dominio, infatti, nonostante possa essere interpretata come una fatalità, è una delle cause che generano la successiva perdita della memoria digitale di un quotidiano, in mancanza della normativa specifica.
Si aggiunga, inoltre, che il personale che svolga funzioni archivistiche con competenza non è presente nella maggior parte delle redazioni di quotidiani nazionali: tra quelle citate nessuna possedeva personale con formazione archivistica in grado di gestire sia il patrimonio cartaceo che digitale. La conseguenza è stata la perdita integrale del proprio archivio digitale, aprendo delle vere e proprie voragini nella memoria dell'informazione politica nel Paese.

*L'articolo in questione è il frutto di una sintesi del saggio pubblicato per il numero 59 della rivista scientifica «Culture del testo e del documento», per cui ringrazio il Direttore prof. Piero Innocenti per lo spazio che mi ha concesso e la prof. Marielisa Rossi. Il lavoro di ricerca è stato effettuato nell’ambito della redazione della tesi di Laurea magistrale in Scienze storiche dal titolo Analisi delle strategie editoriali e di conservazione digitale di alcuni quotidiani nazionali, discussa nella sessione invernale dell’a.a. 2016-2017 dell’Università di Roma 2 – Tor Vergata, relatrice prof. Marielisa Rossi.
Articolo pubblicato su Sinistraineuropa e Pressenza

venerdì 12 luglio 2019

Piccolo prontuario di risposte (talvolta semiserie) per chi ha amici-parenti-conoscenti che mandano il cervello all'ammasso

Mi è venuto in mente di redigere questo piccolo "prontuario" semiserio nel corso di questi giorni. Non ho inserito tutte le domande assurde che costantemente il nostro cervello è costretto ad ascoltare ma sono sicuro che da più parti mi verrà fatta notare qualche altro "botta e risposta" a cui non avevo prestato la giusta attenzione.

D: "La Lega ha preso i soldi dalla Russia, hai visto? Come il Partito comunista italiano, alla fine so la stessa cosa".
R: "Tralasciando il fatto che si sta parlando di due ere politiche e storiche completamente agli antipodi, eviterei tale paragone anche solo alla lontana. Sarebbe come paragonare l'Imperatore Costantino e il Generale Cadorna, un po' azzardato. Ma, battute a parte, non lo farei per una serie infinita di motivazioni di cui mi limito ad elencarne una sola. La Lega e il Partito comunista italiano rappresentano/hanno rappresentato due ideologie e modi di fare attività politica e sociale del tutto opposti fra loro e cercare di trovare un punto di connessione tra di essi per far apparire risibile tanto l'una quanto l'altra organizzazione è una pratica ignobile e senza alcun fondamento. Semmai è da interpretare come una prova del cinismo e dell'affarismo della Federazione Russa e di strati del capitalismo italiano (citofonare ad Arcore). La Federazione Russa, infatti, altri non è che uno stato capitalista ed imperialista al pari degli altri del blocco occidentale. Ricordare a costoro che l'Urss è caduta prima del nuovo millennio potrebbe giovare alla conversazione*".

D: "Eh ma tanto Stalin e Hitler so' uguali, il Fascismo alla fine era socialista perché Mussolini era socialista"
R: A costoro è meglio rispondere calcisticamente anziché realmente perché la capacità di comprensione dei processi globali, nonché quelli del loro condominio, è pari allo zero: «Anche Zeman ha allenato Roma e Lazio eppure non mi sembra che le due squadre possano essere sovrapponibili»".

D: "Non serve a niente fa la differenziata tanto se non la fanno tutti non serve a niente"
R: "Vero, ma tu non la fai "perché gli altri non la fanno", non perché tu lo ritenga inutile, che è ancora più grave perché denota un codismo alla massa perché 'tanto lo fanno tutti'"

D: "Tu dici di essere contro l'Europa, ma pure Salvini dice di esserlo, alla fine avete le stesse posizioni"
R: Di solito chi pronuncia questa frase ha votato, nell'ordine: Berlusconi, Marchini alle comunali, Grillo, Renzi ("embè gli 80€"), Grillo e Salvini. A seconda dei mesi rientra nel campo degli "sfiduciati". Non appena gli si fa notare che "Le posizioni sono del tutto diverse" lui controbatterà con "Se vabbè, mica posso statte a sentì a te, secondo me sete uguali". E il "dibattito" - sostanzialmente - finisce qui. Una possibile risposta reale in tre parole sarebbe che "No, non abbiamo le stesse posizioni per il fatto che Salvini vuole mantenere tutto l'impianto dell'Ue così com'è e credere ad ogni sua dichiarazione è come andare in banca ad incassare un assegno a vuoto prendendosela con il tizio allo sportello perché 'secondo me è incassabile'".

D: "È innegabile che l'Italia sia invasa dagli immigrati"
R: "Il problema del paese, improvvisamente, diventa una parte minoritaria della nazione in quanto si preferisce additare lo strato più debole anziché guardare a chi - davvero - impoverisce il paese: oligopoli, corruttele, sistemi mafiosi sempre più estesi, clientelismo, evasione fiscale etc etc"

D: "Il lavoro manca perché ce lo rubano gli immigrati"
R: "Il lavoro manca perché per (ad es.) 100 persone che vanno in pensione non ne vengono assunte altrettante e chi lavora deve farlo per 3 mentre aumenta il numero di disoccupati - ovviamente. A questo si aggiunge uno strato sempre maggiore di lavoro nero, maggiormente nei settori dell'edilizia e dell'agricoltura, che tu italiano medio neanche guardi perché ti limiti a giudicare il tutto con un caustico 'vabbè, se questi vonno venì qua è giusto che se danno da fa', peccato che siano tecnicamente schiavi. È il capitalismo, bellezza, nonostante tu voglia dire che non è così"

*Se il sintomo di chi ha posto la domanda persiste consultare il medico: non somministrare sopra i 60 anni (da leggere preferibilmente con voce accelerata come nelle pubblicità di farmaci).

lunedì 8 luglio 2019

Pedagogia marittima a Coccia di morto

Focene. Fossimo in una sceneggiatura ci sarebbe scritto: Focene: esterno giorno assolato, o cose simili. 
Per la precisione, tuttavia, la spiaggia era quella di Coccia di morto, un toponimo allegro e che suscita immagini del tutto gioconde alle orecchie di chi lo ascolta per la prima volta. 
La spiaggia è affollata e l'ora, circa mezzogiorno, è quella della ressa anche al chiosco della spiaggia libera attrezzata, così si dice. La fila per un ghiacciolo, un caffè, una birra, un gelato e altri generi di questo tipo è del tutto insostenibile: sembra d'essere in fila sul raccordo, un tristo presagio per il pomeriggio quando si dovrà tornare indietro e si dovrà affrontare il lungo serpentone di macchine vòlte a tornare a casa dopo la giornata di mare.
Ce ne stiamo pazientemente in coda aspettando il nostro turno, mentre la musica reggae/raggamuffin e cose affini è sparata dagli altoparlanti ad un volume eccessivo. Il ritmo in levare dopo un po' inizia ad essere ripetitivo, così come i bassi che sovrastano in maniera spropositata la linea melodica delle canzoni. Sotto una pioggia di Babylon, Eeeeh, raaaassstaman madre e figlia intrattengono una conversazione interessantissima.
Una donna e una ragazza sono dietro di noi, madre e figlia. La genitrice è tatuata e del tutto super abbronzata, avrà avuto una quarantacinquina d'anni; la figlia è una tipica adolescente romana 'in fieri' di periferia con un piercing sulle gengive, anche se non saprei dire a quale lembo di pelle si attaccasse il pezzo di metallo dal momento che la posizione dell'orecchino non lasciava tradire alcun appiglio.
Figlia: «Me vojo tatuà qualcosa su a spalla, mà», la madre, pur consapevole delle nuove epifaniche esigenze dei giovani, risponde: «e che te voresti tatuà, sentimo».
La figlia, entusiasta del potenziale spiraglio assertivo concessole dalla madre nel corso della conversazione, le risponde entusiasta: «qualcosa n spagnolo, tipo 'nada se olvida'».
«E che vordì?», le risponde giustamente la madre, ribadendo una distanza concettual-linguistica tutta a suo vantaggio.
«Vordì 'niente se dimentica'», le risponde fiera la figlia.
«Niente se dimentica?», «Sì!».
«Ma che te voi dimentica che c'hai quindic'anni, ma falla finita».
Applausi.

lunedì 24 giugno 2019

Newsletter social(e) - Prima comunicazione

Dopo il post sulla "sconnessione", termine che non credo esista e, anzi, temo sia di mia invenzione, insieme a Roberto Catracchia abbiamo ragionato sul che fare
La Newsletter Social(e) è uno dei risultati delle chiacchierate degli ultimi giorni e sarà prodotta saltuariamente per argomenti. La prima newsletter riguarda Libra

Che diavolo è?
Il primo pensiero che avrete una volta ricevuta questa mail sarà, siamo sicuri, quello dello sconforto: "oh, no! Un'altra odiosissima newsletter". È vero: la newsletter è uno strumento che, se usato sconsideratamente, è molto fastidioso. Ma non siamo qui per darvi fastidio: tutt'altro. 
Siamo qui perché vogliamo ragionare insieme, con tutti coloro a cui arriverà questa prima mail, di una cosa che ci riguarda da molto vicino: la nostra vita digitale. 
Usiamo costantemente Facebook, ci scambiamo informazioni su WhatsApp - spesso anche molto importanti -, ci scattiamo un mucchio di foto con i nostri smartphones e le pubblichiamo su Instagram. 
Ma i social parlano a delle "cerchie" ristrette mentre, invece, c'è bisogno di andare oltre: incontrarsi, parlare e formarsi un'opinione su determinati argomenti, prima ancora di scambiarsela. 
Dal prossimo anno, Facebook emetterà una moneta virtuale che trasformerà il nostro essere utenti di un social network ad "azionisti" del progetto Libra (così si chiama la nuova moneta). 
Per questo abbiamo deciso di cominciare un percorso di informazione, commento e contro - informazione riguardo quel che accade ogni giorno attorno a noi per fare in modo che sì, condividiamo articoli e opinioni, ma soprattutto fissare appuntamenti in cui vederci di persona e parlare, dibattere. Parallelamente vogliamo creare una sensibilizzazione riguardo la "disconnessione" da parte nostra da alcuni social network, parlarne con voi che siete amici, conoscenti, persone con cui condividiamo ideali e speranze. Contro chi vuole monetizzare il pensiero, noi rispondiamo che è obbligatorio farlo circolare esattamente al contrario di come si sta provando a fare.

Potete leggerla qui:


venerdì 21 giugno 2019

Una criptovaluta si aggira per il Mondo | le ragioni della sconnessione *

Una criptovaluta si aggira per l'Europa, anzi, per il Mondo, in tutto l'intero Pianeta. 
Il 18 giugno 2019 il 'numero 1' di Facebook, Marck Zuckerberg, ha pubblicato un post sulla piattaforma social di cui è leader e padrone per dichiarare e spiegare ad utenti e al Mondo che cos'è Libra, ovvero, la nuova  cosiddetta (impropriamente) criptovaluta prodotta da  Facebook e da altre aziende transnazionali, tra cui MasterCard, Vodafone, Iliad, PayPal, Spotify etc. 
Facebook, sostanzialmente 'batte moneta' e lo fa entrando a gamba tesa nella finanza globale chiamando la propria creatura stable coin (moneta stabile) e non criptovaluta così come prima ho scritto impropriamente, «dando una frecciata alla Bitcoin», per citare l'articolo scritto da Federico Rampini su 'Repubblica' del 19 giugno 2019 (**). Facebook conia una moneta e lo fa mettendo in piedi una struttura parallela utilizzando gli strumenti della politica non-governativa transnazionale: Libra è prima di tutto un'associazione no-profit (!) e non governativa con sede a Ginevra
«L'Associazione Libra è un'organizzazione indipendente, senza scopo di lucro, con sede a Ginevra, in Svizzera [...] conduce un programma di sovvenzioni di impatto sociale che sostiene gli sforzi di inclusione finanziaria in tutto il mondo. L'associazione collabora con la comunità globale e con i responsabili delle politiche per aiutare ulteriormente la missione Libra. L'Associazione è composta da un gruppo di organizzazioni diverse provenienti da tutto il mondo. I membri fondatori dell'associazione sono operatori e nodi di validazione che formano la catena di rete [blokchain - ovvero un sistema di contabilità digitale composto da sistemi matematici decisamente complessi che si appoggiano su reti di server e pc n.d.r.] che è l'essenza di Libra. Una delle direttive dell'associazione sarà quella di lavorare con la comunità per ricercare e implementare la transizione verso una rete senza autorizzazioni».
Basandosi su un impianto giuridico-esistenziale economicamente, politicamente e socialmente vantaggioso, Libra sarà il nuovo strumento del capitale transnazionale per condizionare i mercati e, dunque, l'economia.
L'unico giornale italiano che sta dando realmente risalto alla questione è 'il Sole 24 Ore' che sta dedicando articoli, producendo analisi e proponendo riflessioni molto interessanti a riguardo.

Oltre alla no profit Libra vi è anche Libra Networks, con sede nello stesso palazzo dell'associazione - ça va sans dire - «società a responsabilità limitata, fondata il 2 maggio di quest'anno dalla holding irlandese Facebook Global Holdings II», come riporta il 'Sole 24 Ore' nell'articolo di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi, ed avrà lo scopo di «fornire servizi finanziari e tecnologici e di sviluppare software e hardware con particolare riferimento agli investimenti, al pagamento, alla finanza, alla gestione delle identità, alle analisi, big data e blockchain».

L'essenza della nuova moneta: Facebook il nuovo "Re Sole"
L'unico punto fermo, per ora, è che Libra partirà nel 2020. Per il resto c'è - semmai - l'incognita da parte dai coordinamenti bancari transnazionali che non si sa se vorranno o meno intervenire per regolare - o 'disciplinare' come ha scritto più correttamente il 'Sole 24 Ore' - la nuova moneta che conta circa due miliardi di utenti (2,4 miliardi di utenti regolari, secondo dati di Facebook). Una sorta di "stato virtuale" decisamente imponente e del tutto multi-nazionale, in quanto i fruitori di Facebook sono distribuiti su vari paesi del Mondo. L'ardire di essere 'padrone' di uno stato, sebbene virtuale, non sarebbe venuta in mente neanche al Re Sole o a Napoleone ma, a quanto pare, siamo di fronte a deliri di onnipotenza ben più grandi.

«Le autorità monetarie si stanno ponendo la questione se Facebook non debba avere riserve valutarie depositate presso le banche centrali con cui garantire la stabilità della Libra», a dirlo è stato Tobias Adrian, capo della divisione mercati al Fondo monetario internazionale. Se la moneta sarà stabile, come i fondatori affermano, dipenderà da quante valute avrà al suo interno
Libra avrà l'asse portante della sua esistenza basata sulla privacy, sebbene i fondatori non specificano come e in che modo essa verrebbe tutelata. Non vi è alcun organismo terzo e indipendente che controlli Libra, o meglio, c'è ma è un organismo "esterno" nato dai creatori che hanno dato vita alla moneta. 
Un po' come se in un partito politico Segretario Nazionale e Comitato di Garanzia sono rappresentati dalla stessa persona, o ancora, se Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio dei Ministri fossero la stessa cosa. C'è poi da dire, riguardo la privacy, che Facebook nel recente passato ha dimostrato di essere vulnerabile ad attacchi e oggetto di 'fughe di dati', come giornalisticamente viene scritto. Anche a tal proposito, sarebbe incauto affidare pagamenti ad un'azienda che ha dimostrato di non possedere "anticorpi" a riguardo
La finanza ha fatto un passo avanti enorme rispetto a quanto avvenuto dalla crisi che ha visto imporsi i Governi tecnici in Italia e l'intervento della Troika in altri paesi: il capitalismo transnazionale avrà mano libera sulle transazioni e sui conti, così come allo stesso modo le persone, vivendo l'illusione dello 'scambio immediato' favoriranno una struttura non regolata da alcunché se non dallo smartphone e dal proprio account Facebook/WhatsApp etc. Le speculazioni finanziarie sarebbero sdoganate e avrebbero il 'via libera' di utenti-social che diventerebbero utenti-consumatori in uno schiocco di dita. Speculazione, beninteso, che i cittadini romani (ad esempio) conoscono benissimo (per chi volesse approfondire: http://webtv.camera.it/evento/9242 - «Né i piani di rientro del debito di Roma Capitale finora redatti, né il documento di accertamento definitivo del debito sembrano contenere una ricognizione analitica e una rappresentazione esaustiva della situazione finanziaria da risanare antecedente al 2008. Attualmente, per il 43% delle posizioni presenti nel sistema informatico del Comune, non è stato individuato direttamente il soggetto creditore». Commissario Straordinario per il Rientro del Debito del Comune di Roma, Silvia Scozzese).

La necessità della sconnessione
A questo punto diventa cruciale aprire il dibattito della sconnessione. Se qualche anno fa, in ambienti sociali, associazionistici, politici, si affermava come Facebook andasse utilizzato per far sì che si avesse voce dal momento che la carta stampata la nega a chi opera sul territorio e a coloro che portano una voce dissonante all'interno del panorama politico, a seguito dell'annuncio di Libra il filo dovrà necessariamente spezzarsi. Come si dice proverbialmente: il gioco non vale più la candela. Contribuire al flusso di account e alla legittimazione di quello 'stato' virtuale, come è stato definito dall'articolo di 'Repubblica', è insostenibile ora più che mai.
È il momento della sconnessione, del logout, dell'elimina account per chi crede di poter e voler cambiare la realtà che lo circonda e lo stato di cose presenti. 
Quali spazi alternativi ci sono? Possono esserci delle soluzioni immediate, prima ancora di abbracciarne altre più 'radicali' che utilizzano - ad esempio - i partiti pirati europei e nel mondo. 
Una tra questa è una newsletter, per rimanere in ambito digitale, ma tuttavia la questione più corposa è senza dubbio quella del tornare a mostrarsi nelle vie dei propri quartieri e dei propri luoghi di lavoro. Non è pura utopia quanto più una necessità: i dati elettorali hanno mostrato una evidente e profonda crisi delle sinistre europee e dei partiti comunisti di tutti i paesi dell'eurozona, tuttavia le elezioni amministrative hanno consegnato degli sparuti segnali incoraggianti per quel che riguarda la percezione di un'alternativa che sia politica e sociale in medio-piccoli centri abitati. Per fare questo non si possono attendente i tatticismi dei gruppi dirigenti che glorificano risultati miseri o "prendono atto" di sempiterne sconfitte che inanellano con entusiastica continuità dal 1999 ad oggi. È necessaria la sconnessione digitale per andare ad operare una nuova connessione, stavolta reale, per far sì che si torni ad ascoltare, parlare e capire il proprio bisogno e la propria intima necessità, connessa a quella della comunità in cui si è inseriti
La mediaticità che viviamo ha frammentato la nostra esistenza in modo totale e irreversibile, in particolar modo a chi abita nelle grandi metropoli: il centro della nostra vita non è più il luogo in cui viviamo e l'egemonia si fa più difficile perché non abbiamo ben chiara la direzione della nostra azione quotidiana, sia nell'associazionismo che nella politica territoriale. 
La 'facebookizzazione' del dibattito politico ha prodotto una politica di serie A e una di serie D eliminando del tutto "serie cadetta" e "terza serie": personaggi istituzionali utilizzano lo strumento dei social per qualsiasi scopo (sia esso personale o lavorativo) e spesso interagiscono con gli utenti a seguito di una diretta, di un post con decine di migliaia di visualizzazioni e via dicendo. Allo stesso modo ha prodotto una percezione distorta delle istituzioni a livello locale, contribuendo ad una confusione, già in atto nel corso degli anni, tutta a danno della comprensione di fenomeni politico-istituzionali, nonché della comunicazione della politica locale che predilige uno strumento di un'azienda transnazionale privata per comunicare quanto conduce quotidianamente anziché alle comunicazioni scritte e alle affissioni pubbliche che potrebbero, invece, arrivare alla maggior parte della cittadinanza. In questo senso si arriva al capolavoro dell'eterogenesi dei fini dei 5 Stelle che, partiti per rendere 'casa di cristallo ogni luogo istituzionale' hanno fatto in modo di rivolgersi ad una platea ristretta di persone informatizzate che, grazie a questo, sono considerati cittadini con una corsia preferenziale da qualsiasi amministrazione, centrale o locale.

Così come lo stato sociale era per pochi, la ricchezza mondiale va accentrandosi sempre di più in pochissime mani, anche la democrazia e gli spazi di conoscenza vengono ridotti sensibilmente a causa di meccanismi che vengono spacciati come "facilitatori" di comunicazione i quali, in teoria, sarebbero anche utili, se non fosse che sono totalmente ad uso e consumo di una popolazione già informatizzata e consapevole di che cosa significhi esserlo.
Non possiamo più aspettare: si deve, ora più che mai, creare una rete e un dibattito di chi ha a cuore sia il futuro della Terra, sia un mondo decisamente 'altro' che non sia ostaggio di finanza e speculazioni selvagge.
Ora o mai più.





* La nota, seppur messa in asterisco in calce al post, è cruciale. Non sono un economista ma ho a cuore la realtà e il suo manifestarsi, di conseguenza mi piace analizzarla secondo la mia personalissima Weltanschauung che è quella dell'anticapitalista. Chi leggerà il post e inizierà a rispondere in termini finanziari e strettamente economicisti, può continuare a scriverlo sul blog di Draghi o della Bonino, che tanto pari sono.

** Arriva Libra, ora Facebook batte moneta, La Repubblica, 19 giugno 2019. Non c'è link diretto perché è stato inserito sul sito del quotidiano come contenuto a pagamento. 

lunedì 17 giugno 2019

In memoria di tre quotidiani di partito: «l'Unità», «La Voce Repubblicana», «Liberazione», ovvero: tre casi di studio su una esperienza (fallita) di conservazione digitale

Il titolo è quello che ho scritto, lungo ma maledettamente necessario per descrivere quello di cui tratta la pubblicazione.
Dopo un anno e qualche mese dalla discussione della tesi di laurea magistrale, basata sulla memoria digitale di alcuni quotidiani nazionali che veniva - senza pochi giri di parole - 'presa e buttata via' in fasi delicate della vita dei giornali in mancanza di una normativa che obbligasse al deposito legale digitale, uscirà un saggio che ho scritto per il numero 59 della rivista «Culture del testo e del documento». 
Una pubblicazione che riprenderà, ovviamente, la tesi ma che tocca la sola questione dell'editoria di partito, aggiungendo «Liberazione» al novero dei due già trattati nella discussione.

Quando uscirà? 
A fine mese e, per chi volesse, sarà possibile comprarlo qui una volta pubblicato: https://www.vecchiarellieditore.it/?s=culture+del+testo+e+del+documento.




giovedì 30 maggio 2019

Riflessioni post elettorali a voce alta [ho voglia di litigare con qualcuno]

L'immagine-testuale a corredo del post non è stata scelta a caso. Forse quello che ho scritto provocherà ire da parti di tante e tanti. Pazienza. L'intento non è quello di far adirare nessuno, piuttosto di ragionare insieme. E se, poniamo il caso, qualcuno a seguito di queste "riflessioni a voce alta" mi vorrà dire "non sono d'accordo con quanto hai scritto, ma vorrei che ne parlassimo insieme", sarà per me motivo di felicità estrema. Detto questo, cominciamo. 

Non vorrei accodarmi a quella fin troppo vasta schiera di persone che hanno analizzato con fin troppa sommarietà e supponenza i dati elettorali che le elezioni di domenica hanno consegnato al Paese.
Vorrei riflettere a voce alta con chi vorrà, quei quattro lettori soliti e non manzoniani, riguardo quello che è successo domenica. Perché una cosa va detta: nessuno ha ben compreso la portata del voto europeo del 26 maggio, men che meno io che sto ragionando a riguardo, fornendo un personale punto di vista ad una riflessione collettiva abusata di errori e dibattiti attorno a luoghi comuni.

Chi vota?

La questione del chi viene prima del che, tanto in questa quanto per quel che riguarda altre consultazioni elettorali: è andato a votare il 56,1% degli aventi diritto, dato in calo rispetto al 58,7% del 2014. Si avvicina sempre di più la soglia della metà che va a votare e l'altra metà che resta a guardare. Nessuna forza politica pare porsi questo problema che è principale. Valutare le europee di maggio, così come quelle del 2014, sulla base delle percentuali e non di voti effettivi equivale a giocare una partita di calcetto in cui una squadra gioca con 5 componenti e l'altra con 2 persone: la vittoria è certa, la sostanza del gioco assente. Se si dovesse ragionare sulla base dei voti, ogni percentuale avrebbe un consistente ribasso e solo pochissime forze politiche hanno prodotto analisi in tal senso. 

Di batoste, incrementi e opinioni

La sinistra è certamente la lista che più di tutte ha subìto il colpo elettorale: un affondo dato prima di tutto ai dirigenti delle formazioni politiche che hanno composto il cartello in oggetto, sempre pronti a sommare le proprie forze, nonostante esse siano in forse, e il triste gioco di parole è decisamente voluto. Un dato che colpisce indirettamente anche me, benché non sia un attivista delle organizzazioni che ha dato vita alla lista, che ho vissuto la parte discendente della parentesi della sinistra comunista italiana da militante del Pdci: dal 26 maggio le "dirigenze" della sinistra non esistono più. Qualora ci siano e dovessero presentarsi, provocherebbero danni incalcolabili: citofonare Rifondazione, Diliberto, Pdci/Pci, Sinistra italiana, Vendola e chi più ne ha più ne metta. Così come per la lista Europa Verde: la mediaticità dei temi ambientali mai come adesso è stata così alta, eppure gli ambientalisti italiani hanno dato la prova di rappresentare il movimento più residuale e settario del continente. Ma questa è un'altra storia. 
Tornando a La sinistra, la percezione nei confronti dell'elettore medio (non io dato che non li ho votati: coming out) è stata quella di un'organizzazione davvero posticcia e che non dovesse andare oltre il proverbiale periodo che intercorre fra la notte di Natale e Santo Stefano. Pare, a tal proposito, che si sia convocata un'assemblea a riguardo e immagino già come finirà. 

Partito comunista. Qui la questione è più complicata. Voglio bene ai miei ex compagni, che recentemente hanno anche aperto una sezione a San Lorenzo, ma il discorso che fanno, secondo me, non sta in piedi. Certo, ammettono, c'è stato un incremento consistente del partito che è passato dallo 0,3% delle elezioni politiche allo 0,88% delle europee. Nessuno mette in dubbio un aumento di oltre centomila voti, tuttavia alle politiche la lista comunista non era presente in svariate regioni e, semmai si dovesse considerare quello avvenuto come un incremento, personalmente opterei per un discorso inverso analizzando le europee come "primo (vero) test a livello nazionale di presenza elettorale del partito". Il che ridimensionerebbe la questione.

A questo si aggiunga che le elezioni scorse hanno consegnato un dato che La sinistra, né il Pc, né tantomeno dalle parti di Pap (non presente sulla scheda elettorale) hanno avuto il coraggio di analizzare: il voto a sinistra è diventato un semplice voto d'opinione: l'elettorato zoccolo-duro del passato non esiste più. Sarebbe interessante che da tutte e tre le parti in causa si ragionasse su questo, magari producendo delle analisi a riguardo. 

Che fare?

Fontamara e Vladimir Ilic, pregate per noi. Battute a parte. La situazione è decisamente tragica, benché c'è chi si ostini a trovare venature di «ottimismo della volontà». Parlando qua e là con qualche attivista e compagno sparso tra le varie organizzazioni della sinistra, sono rimasto decisamente basito riguardo la decisione di alcuni: "Non è rimasto più niente - dicono - tanto vale entrare all'interno del Pd costituendo una corrente organizzata". Non solo si tratterebbe di una sconfitta storica e l'abbandono della posizione che faticosamente si è mantenuto nel corso degli anni, ma di una sconfitta ideologica di proporzioni bibliche. Abiurare al proprio credo politico per abbracciarne un altro di colore e segno decisamente opposto e ostile solamente perché, non c'è più null'altro di meglio, si traduce nell'anti-azione politica necessaria in questa fase. E ci (pluralis maiestatis) fa capire che non solo la mancanza di alternativa prodotta in questi anni (alternativa reale, beninteso, non gli arcobaleni e le rivoluzioni civili) ha prodotto sfaceli politici, ma ne ha generati anche di psicologici a partire da l'altro ieri. Si arriverà ad una polarizzazione de facto che il bipolarismo aveva solo sognato e che ora si sta concretizzando senza che si sia mosso un dito: un duopolio "destre"-Pd perché "non c'è di meglio". Ma c'è anche un altro punto da toccare. Il vero che fare: la prassi. Si deve arrivare ad una consapevolezza nuova, tra i poveri resti dell'extraparlamentarismo a sinistra, di modo che solo costruendo un cambiamento a partire da noi stessi, ritrovando le motivazioni che ci hanno spinto tempo fa alla militanza e all'azione, di fronte all'inanità generale, si riesca a generare una coscienza rinnovata. Una consapevolezza che ritrovi l'azione a partire dalla fontanella del quartiere e che arrivi a dare una prospettiva di lungo periodo: non sto parlando di grandi cose o discorsi astrusi, ma piuttosto di un necessario radicamento territoriale che deve avere la precedenza su qualsiasi altra azione. 
Credo, ma è una mia opinione da quattro soldi, che solo così potremmo davvero uscirne. 
Semmai ci riusciremo.

P.s. (almeno una gioia: l'immagine sottostante parla da sé: ciao +Europa, non ci mancherai)

lunedì 20 maggio 2019

Torre Maura spara. Ma non è una canzone dei Calibro35

sovietbuildings.tumblr.com
A Torre Maura si spara ancora, di nuovo in pieno giorno. Famiglia italianissima, non come quegli "sporchi" 60 rom che volevano "rubare" a prescindere: oltre a svaligiare casa avrebbero sicuramente anche sottratto quel poco di lavoro che c'è. E che, beninteso, a Torre Maura non è che ci sia mai stato. È un quartiere 'di passaggio' così come lo è stato sulla tratta che andava a Laziali, lo è ora sulla ben poco funzionale ed efficiente linea C della metropolitana di Roma.
Io e la mia ragazza eravamo tornati giusto da poco a casa quando avevamo deciso di andare a fare la spesa: camminiamo, chiacchieriamo, mettiamo a posto la macchina e mentre saliamo su casa vediamo un trambusto a fine della via. "Vado a dare un'occhiata", le dico e subito dopo incrocio il vicino di casa: "Se so sparati", mi dice laconicamente.
Il morto, fortunatamente, non c'è scappato, come spesso accade quando ci sono le armi da fuoco di mezzo.
Una notizia, questa qui, che nonostante sia avvenuta nel quartiere sulla bocca di tutto il mondo per più di una settimana, non troverà alcuna eco o una minima mediaticità. Questo perché il fatto non ha notiziabilità, per usare un termine tanto caro ai giornalisti d'accatto quanto da me realmente disprezzato. Si cerca lo scontro e la miccia scatenante della guerra fra  poveri, conflitto che viene vinto dai ricchi per forza di cose. Una notizia che mette in luce la pericolosità di chi vuole iniziare ad armare residenti e cittadini perché se mi entra un ladro in casa devo poter difendermi, nonché sparare, secondo la logica del Ministro dell'Interno e, non da ultimo, un fatto che rileva quanto precaria sia l'educazione di chi, perdendo la testa contro i propri genitori (a 22 anni) non esiti ad imbracciare un fucile per una questione di soldi e a sparare contro la macchina del padre.
C'è molto in ballo, a partire da questa notizia: i quartieri periferici diventano, ogni giorno di più, terra di nessuno, con buona pace di Lucia Annunziata che pensa come Torre Maura, nonostante sia un quartiere isolato e con l'unica pecca di avere le grate di fronte alle finestre, sia un quartiere pulito, con grandi strade, senza immondizia sparsa per i viali o degrado. Un giudizio davvero schematico per essere formulato da una Direttrice di una testata nazionale come Huffington Post.
Quando qualcuno si accorgerà del danno che ha commesso ad allontanarsi dalle periferie, come ha ribadito il partigiano Aldo Tortorella dal palco del 25 aprile a Porta San Paolo, si renderà conto che non avrà più tempo per rimediare alla situazione.

A tal proposito mi torna in mente il referendum del 2016, quello sulla Costituzione. Durante lo spoglio, in uno dei vari seggi di Via Belon c'era anche il consigliere Compagnone (Pd). Atterrito e basito dai risultati che lo davano in netta minoranza rispetto al 'no' (lui sosteneva il 'sì' come il suo partito) disse sconfortato, un po' sottovoce, ad un suo amico che era con lui: "eh, ma qua dovemo fa qualcosa pe le periferie" mentre il presidente di seggio ammonticchiava le schede barrate con i "no" a fianco a quelle (pochissime) dei "sì".
Questo è stato l'atteggiamento verso le periferie del cosiddetto centrosinistra nel corso degli anni: creare un esercito di riserva in cui si possono smuovere voti allo schiocco di dita di questo o quell'altro candidato di uno o l'altro partito; ridurre le poche strutture sociali e aggregative a comitati elettorali permanenti.
Chi semina vento, raccoglie tempesta, dice il proverbio. O, in questo caso, chi semina divisione e odio, raccoglie la guerra fra poveri. In questo caso, il raccolto non è incline ad ossequiare la semina, né a farsi troppi scrupoli. E far capire ai propri simili, vicini di casa, fratelli, che la guerra fra poveri la vincono i ricchi diventa ogni giorno più difficile. 

mercoledì 15 maggio 2019

Cambiamento climatico, Mastrojeni: «necessaria la mobilitazione di tutti» - Rinnovabili.it

Parla Grammenos Mastrojeni diplomatico e Coordinatore per l’Ambiente della Cooperazione allo sviluppo: ha scritto “Effetto serra: effetto guerra” per Chiarelettere (2017) dimostrando come cambiamento climatico e conflitti siano intimamamente connessi.


«Bene le prese di posizione dei governi sul cambiamento climatico ma serve mobilitazione collettiva: la natura non reagisce ai “pezzi di carta”» (Rinnovabili.it) - 15/05/2019 

Il Pentagono, quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ha recentemente stabilito come il cambiamento climatico acceleri situazioni di instabilità portando ad estreme conseguenze (conflitti) situazioni difficili e già provate da crisi interne o indebolimenti. La connessione fra il cambiamento climatico e lo scoppio delle guerre è anche il tema del libro di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini pubblicato da Chiarelettere: “Effetto serra: effetto guerra”. Di questa connessione tra clima e guerra ne abbiamo parlato con Mastrojeni, diplomatico e Coordinatore per l’Ambiente della Cooperazione allo sviluppo. 

Cambiamento climatico e scoppio di conflitti sembrano due tematiche apparentemente distanti ma leggendo “Effetto serra: effetto guerra” si scopre che è l’esatto contrario.
«Da sempre c’è un legame fra stato dell’ambiente e stabilità delle società: si è manifestato anche in tempi lontani (tra l’anno 400 d.c. e l’anno 1000) con delle fluttuazioni spontanee, ad esempio legato ad un periodo di raffreddamento in Asia centrale, connesso ad un aumento del 200% dei conflitti. Le stesse ‘invasioni barbariche’, così come siamo soliti chiamarle, che hanno portato al crollo dell’Impero Romano d’Occidente, sono state sospinte all’origine da alcune fluttuazioni climatiche. La questione è che con l’influsso umano la scala cambia: sia in termini temporali (le fluttuazioni diventano più rapide ed improvvise), sia in termini volumetrici del cambiamento, dunque l’effetto viene esacerbato. Attualmente, secondo ricerche condotte dal G7 (dunque non da ‘circoli ambientalisti’) tramite alcuni think-tank, risultano in corso 79 conflitti che hanno il cambiamento climatico tra le concause. Come avviene tutto ciò è abbastanza ovvio: non è tanto il fatto che con il cambiamento climatico arrivino dei fenomeni estremi, non è neanche il fatto che vi sia più penuria di risorse, ma è dato dal fatto che il comportamento della natura diventa imprevedibile e, di conseguenza, nell’imprevedibilità non si può organizzare né la produzione agricola, né la convivenza civile, perché entrambe le cose sono fondate sui ritmi della natura».

Il fattore dell’imprevedibilità, dunque aggrava notevolmente un quadro già destabilizzatosi?
«Certo, destabilizza le società, soprattutto quelle più fragili: quando queste si ‘disorganizzano’ il conflitto aumenta di probabilità».

Tutto quello che ha detto ci riporta all’attualità e al continente europeo: può essere considerata come ‘globale’ la partecipazione militare dei paesi della Nato (dunque anche dell’Ue) a dei conflitti spesso causati anche dal cambiamento climatico fuori dai confini occidentali?
«La caratterizzazione del conflitto, in realtà, è data dalla situazione di fatto. Di globale dobbiamo temere una tendenza alla saldatura delle differenti zone di destabilizzazione. Fino ad ora il Pentagono ha definito il cambiamento climatico come un acceleratore di conflitti, dunque non una causa, ed è vero: laddove è presente una società fragile, se “ci si mette” anche il mutamento del clima, la situazione contribuisce a creare un conflitto. Per ora queste fasce di fragilità sono relativamente isolate le une dalle altre. L’esacerbarsi dei cambiamenti climatici e il fatto che l’instabilità che nasce in zone povere si trasmette a catena nelle zone circostanti (e anche più lontane) fa sì che la situazione diventi ingovernabile. Pensiamo ad un conflitto che ha tra le cause dello scoppio anche quella climatica, ovvero la guerra in Siria: ha portato a una catena di conseguenze a partire dalle migrazioni, che a loro volta, hanno avviato un principio di destabilizzazione – fra virgolette – in Europa. Da quel momento si è iniziato a voler ritrattare Schengen e si è cominciato un dibattito sulle responsabilità delle migrazioni fra Stati. Tali irradiazioni, così facendo, inizieranno ad intrecciarsi e si andrebbe verso uno scenario di destabilizzazione sistemica collocato non troppo in là nel tempo: il turning point è al 2030».

Se, per caso, dovesse verificarsi un evento naturale imprevedibile, come diceva prima, il turning point scenderebbe ulteriormente?
«C’è un esempio che ho citato anche nel libro: se si dovesse verificare lo scioglimento del ghiacciaio dell’Himalaya si andrebbe incontro ad una situazione che metterebbe in movimento più di un miliardo di persone, l’evento avrebbe un carattere decisamente globale».

Le migrazioni connesse alla guerra in Siria, che prima ha citato, e quelle scaturitesi all’indomani della guerra in Libia, possono essere chiamate ‘migrazioni economiche’ o, secondo lei, ‘migrazioni climatiche’?
«Innanzitutto c’è bisogno di serietà su questo argomento: non c’è un’unica causa scatenante e sono molteplici, dunque è tutto ‘multifattoriale’ ma i cambiamenti climatici hanno – certamente – impatti su vari territori. Un anno molto interessante, in tal senso, è stato il 2011: in Australia ad esempio è stato caratterizzato da fortissimi inondazioni alternate ad una fortissima siccità. L’Australia, che ha uno Stato forte, è riuscita a contenerne gli effetti entro una dinamica ordinata. Nello stesso anno ci sono stati dei paesi che non sono stati colpiti direttamente dai cambiamenti climatici (parlo di quelli della sponda sud del Mediterraneo) ma ne hanno subito gli effetti indiretti perché questi hanno fatto aumentare i prezzi dei prodotti agricoli (quei paesi ne importano molti) e si è venuta a creare molta povertà. Questa situazione è stata all’origine delle ‘primavere arabe’. L’Italia, che è il paese più esposto, non mi sembra si stia curando troppo di questo tema. Al momento è difficile andare ad identificare una sola motivazione: la causa unica di migrazione relativa al cambiamento climatico per ora si verifica in sparute situazioni».

Ad esempio quali?
«I primi rifugiati climatici ufficiali vengono dagli Stati Uniti: a causa della fusione del permafrost in Alaska, che destabilizza le fondamenta fisiche delle comunità, si sono dovute muovere delle persone. Oltre che dall’Artico, iniziano anche a venire dalle isole».

È notizia di questi giorni, a tal proposito, la denuncia degli abitanti delle Isole dello Stretto di Torres che hanno denunciato il governo australiano. Anche questo potrebbe rientrare in possibili situazioni che genererebbero ‘rifugiati climatici’?
«Questi sono i primi ‘movimenti climatici’. Se andiamo nelle cose che ci riguardano più da vicino, che sono più consistenti e dove l’impatto del clima è intessuto con altre forme di instabilità, è molto difficile dare un’etichetta all’uno o all’altro. Quello su cui si deve fare chiarezza è che non esiste affatto il ‘migrante climatico’».

Perché?
«Perché ‘migrante’ è qualcuno che ha un minimo di scelta libera nella decisione di muoversi e non è vero che quanto più si è poveri tanto più si è propensi a muoversi. Al di sotto di una certa fascia di reddito si rimane intrappolati in quella che viene definita la ‘trappola della povertà’: hai, cioè, un reddito talmente basso che ti è impossibile partire e la migrazione non rientra fra le tue prospettive; la tua unica urgenza è dettata dalla necessità di reperire un pasto per la giornata e ti è impossibile perfino pianificare di andare al villaggio più vicino. Quando si verifica un evento ambientale che può destabilizzare una situazione già precaria, se colpisce coloro che già si trovano nella fascia di quelli che contemplano una migrazione generalmente può essere assorbito da essi: posseggono, cioè, risorse a sufficienza da sopperire ad un mancato raccolto. Se sono sufficientemente ricchi da contemplare una migrazione volontaria, sono anche sufficientemente ricchi per assorbire delle fluttuazioni del clima. In realtà colpisce, generalmente, quelli che si trovano nella ‘trappola della povertà’, dunque non crea migrazioni ma movimenti forzati ed è una cosa completamente diversa».

Cioè?
«I movimenti forzati si distinguono dalle migrazioni perché le prime, se ben gestite, possono essere utili per la zona di provenienza, per chi parte e per la zona di arrivo. D’altra parte, invece, se si mette in movimento qualcuno che non ha alcuna ‘difesa’ costoro si tramutano in combustibile per movimenti fanatici, per il traffico illecito, per la criminalità: sono situazioni destabilizzanti e nocive per tutti. L’insegnamento di Madre Terra è che bisogna occuparsi primariamente dei più poveri altrimenti ‘pagano’ tutti».

Che giudizio dà a proposito delle due mozioni sull’emergenza climatica in Regno Unito e in Irlanda? Auspica che altri Parlamenti facciano altrettanto?
«Per me il valore maggiore di questi atti non è la cogenza ma la presa di coscienza e spiego il perché: nel 301 d.c. l’imperatore Diocleziano si trovò di fronte ad un’inflazione incontrollata e gli venne in mente di istituire ciò che oggi chiameremmo ‘il calmiere’ [l’ Edictum de pretiis n.d.r.]. Ufficialmente i prezzi non salirono più ma il vero risultato che ottenne è che il mercato si spostò su quello nero. Quello che voglio dire è che il cambiamento climatico non si risolve per decreto legge ma con la mobilitazione dell’intera società. Tra l’altro è una mobilitazione che paradossalmente non avviene massivamente: qualsiasi atto di sostenibilità porta sia più benessere che più ricchezza. Una mobilitazione collettiva significherebbe disinnescare il cataclisma pagando il prezzo di stare meglio».

Dagli strati più poveri al benessere di tutti, insomma.
«Ma non solo occupandosi, direttamente e unicamente, di strati svantaggiati: lo si fa anche occupandosi di se stessi. Se pensi alla tua vita vita quotidiana e decidessi di nutrirti, lavarti e muoverti in maniera più salutare, lo fai per te stesso: stai creando sostenibilità nella misura in cui rispetti la tua vera natura, tutto ciò che è salutare è anche sostenibile. Salutare, ovviamente, va inteso a 360 gradi: se scegli di muoverti in maniera sostenibile generalmente spendi di meno e non solo hai più salute ma hai anche spazi di socializzazione migliore. Questo discorso che vale per ogni individuo vale anche per l’impresa».

In che modo?
«Le imprese si stanno accorgendo che hanno tutto da guadagnare ad essere sostenibili, tant’è che i più cattivi dei cattivi dell’economia, cioè la finanza, hanno spostato gli impieghi di investimento sulle cosiddette attività sostenibili (tecnicamente si chiamano ESG) dallo 0,2% al 24% in 10 anni: un progresso enorme. Parallelamente stanno puntando ad avere il 60% dei loro portafogli su attività sostenibili entro breve: non sto parlando di Banca Etica ma di Blackrock! Quello che noi dobbiamo innescare lo dobbiamo fare certamente anche con l’apporto e l’appoggio istituzionale, legislativo e fiscale ma quello da solo, se non è recepito e compreso dalla società, diventa una distorsione».

Come si fa a fare in modo che venga percepito da tutti?
«Bisogna far toccare con mano la questione viva. Le imprese hanno un vantaggio su tutti, dunque lo hanno compreso e si stanno muovendo rapidamente in tal senso. Dobbiamo sovvertire la narrativa tradizionale, paradossalmente, che vede l’economia cattiva verso un pubblico buono, per dirla in maniera molto semplice: non è questione di essere buoni o cattivi ma il consumatore ancora non ha interiorizzato i benefici della sostenibilità dal punto di vista delle proprie scelte consapevoli. Esco per un attimo dai binari dell’argomento principale ma completo quanto sto dicendo: abbiamo pochissimo tempo per rimediare, al massimo dieci anni. Purtroppo non possiamo contare su una totale presa di consapevolezza collettiva che porti a delle scelte di cambiamento volontario e coerente. L’essere umano difficilmente reagisce all’interesse collettivo ma a quello individuale: si sa che soltanto il 2% dei consumatori (e questo è un dato transculturale) incorporano la loro domanda di consumo sostenibile e tipicamente costoro sono i clienti del commercio equo e solidale. Botteghe importanti ma anche simboliche: rappresentano una fascia minuscola del mercato. Questo non vuol dire che si tratta di una battaglia persa perché sta succedendo qualcosa: oggi la sostenibilità non si compra perché ‘salva il Mondo’ ma perché il prodotto è migliore. Nel settore del turismo la questione è evidente: dieci anni fa l’attività più ricercata era il ‘Resort all inclusive’, altamente insostenibile, dove il grande lusso la faceva da padrone; oggi l’attività più ricercata è quella che ti porta in condizioni di scomodità, in un nugolo di zanzare, a vivere da vicino la natura incontaminata. Tornando al cibo: non possono permetterselo tutti, ma moltissimi consumatori, se potessero, si orienterebbero verso il biologico e il non-industriale. Qui la tempistica ci pone un problema di scala, nel senso che la volontà ci sarebbe ma per ora sono mercati per fasce ricche e bisogna incoraggiarle – paradossalmente – perché facendo in modo che essi comprino creano quell’economia di scala che poi consente di allargare l’accessibilità anche alle fasce più povere e lo si è visto in Germania in cui il biologico era appannaggio dei più ricchi ed ora è accessibile di tutti».

Orientarsi più su questo, dunque, che non sugli atti politici?
«Certamente ma non dico che non servono, anzi: segnalano l’unitarietà della società e la consapevolezza in tal senso che è l’unico fattore che può cambiare le cose per tempo. Allo stesso modo un trattato, una legge, un provvedimento fiscale è carta. E la natura non reagisce ai pezzi di carta».