Libertà di stampa in Italia, il monopolio del Capitale *

La notizia è del 30 novembre [2019]: John Elkann starebbe tentando la scalata nel gruppo Gedi.  La Cir group spa (Compagnie industriali riunite), holding della famiglia De Benedetti, ha confermato: «Ci sono in corso discussioni con Exor [la holding lussemburghese degli Agnelli-Elkann] per una possibile operazione di riassetto», oppure come ha scritto «Repubblica», quotidiano di punta del gruppo, «la holding Cir è in trattativa con Exor per vendere la quota di controllo di Gedi». Senza contare il fatto che John Elkann è già vice presidente del gruppo.
Le vicende familiari di due lignaggi del tutto rilevanti del capitalismo italiano si riflettono sulle sorti dell’informazione nazionale.
Non c’è ancora nulla di certo, se non una fase di profonda interlocuzione tra le parti, cominciata - a quanto pare - a causa di litigi familiari dei De Benedetti. Secondo la ricostruzione del «Messaggero», oltre al tentativo di scalata degli Agnelli-Elkann ci sarebbe anche l’interesse di più parti ma non confermate, come il fondo Peninsula di Luca Cordero di Montezemolo e Flavio Cattaneo, così come del gruppo che fa capo a Vincent Bolloré, a cui si rimanda all’articolo del 2017 di Marta Gatti pubblicato sulla rivista «Nigrizia».Gigante-Gedi: tre quotidiani e un crogiolo di testate
Numeri e nomi a parte, il Gruppo Gedi ed Exor hanno rispettivamente confermato il reciproco interesse nella fase di interlocuzione in atto e, se dovesse andare in porto l’acquisizione del gruppo, si parlerebbe di una scalata della Giovanni Agnelli BV già azionista per il 6,9% di Gedi. Al momento, come riportato da «Repubblica» in un articolo del 29 novembre [2019], il capitale ordinario della società è così suddiviso: «Cir 43,78% (pari al 45,753% della quota sul capitale volante), Exor 5,992% (pari al 6,262 della quota volante)».
Il gruppo editoriale in oggetto, tuttavia, non è solo «Repubblica», «La Stampa» e «Il Secolo XIX», che di per sé rappresenterebbe una fetta imponente dell’informazione, o come si è soliti dire in questi decenni disgraziati, del “mercato dell’informazione”. Rappresenta, tuttavia, anche una porzione imponente del flusso di notizie (senza calcolare tutti gli inserti dei quotidiani prima citati) che passano attraverso i giornali e periodici a diffusione nazionale e a pubblicazione settimanale, mensile o bimestrale, quali: «Il Tirreno», «Il messaggero» (Udine), «Il Piccolo» (Trieste) , «La Provincia» (Pavia), «Il Mattino» (Padova), «La Gazzetta di Mantova», «La Nuova Ferrara,», «La Nuova Venezia», «Il Corriere delle Alpi» (Belluno), «La Sentinella» (Ivrea), «La Tribuna» di Treviso, «La gazzetta di Modena», la «Gazzetta di Reggio» (Reggio Emilia)»; «L’Espresso», «National Geographic», «Mind», «Limes» «Le Scienze», «MicroMega», «Travellers» passando per le testate nazionali digitali come «Huffington Post Italia», «Mashable Italia», «Business Insider» e il portale «Kataweb» e senza contare le emittenti radiofoniche (Deejay, Capital, m2O). Un impero dell’informazione che può vantare 648,7 milioni di euro di ricavi.
 
RCS: l’occhio del Cairo
Andando ad esaminare gli azionisti di un altro colosso dell’informazione italiana, che da anni si contende il primato con Gedi, notiamo che l’azionista di maggioranza è Urbano Cairo col 59,831%, seguito da Mediobanca e da Diego Della Valle (rispettivamente aventi il 9,930% e il 7,624%), non meno importanti gli ultimi due azionisti: Unipol (4,891%) e la China National Chemical Corporation (4,732%). Il gruppo Rcs, tuttavia, rappresenta anche un colosso transnazionale detenendo «El Mundo», «Expansiòn» e «Marca» così come gestendo le seguenti pubblicazioni quotidiane a diffusione nazionale e digitale: «Corriere della Sera» (con relativi inserti «Economia», «La Lettura», «Corriere Salute», «Corriere Innovazione» e la Tv Corriere Tv),«Diritti e risposte», «La Gazzetta dellSport», «Buone notizie», «Il rumore della memoria» e il portale di Milena Gabanelli «Dataroom».
Le testate locali che fanno capo al gruppo sono: «corriere di Bergamo», «Corriere di Bologna», «Corriere di Brescia», «Corriere Fiorentino», «Corriere Milano», «Corriere Roma», «Corriere del Mezzogiorno», «Corriere Torino», «Corriere Veneto» senza contare i periodici cartacei e digitali (a cui si rimanda al link per evitare un lungo elenco che non porterebbe a molto).
Ultimo dato di rilevante importante, l’apertura della casa editrice Solferino, parte del gruppo stesso, ça va sans dire.
Se ci limitassimo a prendere in esame solamente i casi più grandi dei gruppi industriali legati all’informazione, ci si renderebbe presto conto che la libertà d’informazione è del tutto legata al profitto e ad interessi che tutto concernono tranne quello che dovrebbe guidare un quotidiano o un periodico. Fornire, cioè, una lettura di quel che accade, dare una propria interpretazione sui fatti, fornire la base per la formazione di una propria opinione in lettori che non sempre sono “addetti ai lavori” di quel che accade nelle stanze della politica o dei retroscena legati a questo o quel personaggio politico e avviare un dibattito che sia il più aperto e scevro dalle posizioni da “tifoseria” di questi ultimi venti/trent’anni.
La funzione della carta stampata è, nel corso degli anni, diventata del tutto altra rispetto a come la si intendeva negli anni ’80 o ’90, o come poteva essere quella di partito, quando questi non erano semplicemente dei comitati elettorali permanenti e attenti solo alla mediaticità del piatto di pasta mangiato dal leader su instagram o della foto con il tenero asinello postata su Facebook. Di fronte alla volontà di soppressione del finanziamento pubblico all’editoria, che certamente ha generato casi tutt’altro che onorevoli riguardo il suo utilizzo, l’informazione dell’Italia del 2000 rappresenta il prodotto della transnazionalizzazione delle imprese che traggono profitto dall’informazione e che gestiscono quotidiani e periodici in base all’utile che ne ricavano.
I giornali diventano, così, delle veline che molto spesso riempiono le proprie pagine di retroscena e di interviste ben calibrate a personaggi in cerca di ribalta o che devono porre in essere il proprio pensiero in articoli che spesso non arrivano al concetto e si limitano a rimanere sulla superficie delle cose. Il pensiero diventa unico ed è quello del capitalismo e dei suoi alfieri. Con buona pace di Giorgia Meloni che ritiene come il pensiero unico sia quello Lgbt. Il quotidiano resta un vettore di notizie le quali debbono, necessariamente, possedere notiziabilità altrimenti non presentano alcun margine di interesse da parte di chi la pubblica. E se non possiede interesse (leggi: possibile ritorno di profitto) per chi la pubblica, automaticamente non è da proporre al lettore. L’interesse delle aziende transnazionali ad avere un proprio gruppo editoriale sta nel fatto che, più o meno, i maggiori gruppi industriali di ogni paese hanno un legame con il mondo dell’informazione: la compenetrazione tra aziende, holding, banche, società assicurative e quant’altro, rende estremamente complicato il districarsi del lettore tra le pagine dei giornali e tra le notizie proposte: discernere la veridicità dei fatti con quanto accaduto nella realtà, formarsi un’opinione che non sia già nell’alveo di quelle già pre-confezionate dai quotidiani nazionali (e anche locali, come abbiamo visto) è molto complicato, per non dire impossibile.
L’interconnessione degli interessi dei gruppi industriali nel creare profitto là dove ci dovrebbe essere un interesse pubblico sovrasta qualsiasi buona intenzione, di cui la strada del capitalismo (non già del proverbiale inferno) è lastricatissima: le grandi acquisizioni da parte di aziende transnazionali od holdings rappresentano il volto più spietato della distorsione delle coscienze nel nostro paese. Non più formazione, bensì aprioristica distorsione. A questo si affiancherebbe il dibattito relativo al ruolo del giornalista, stante la situazione attuale, ma questa è un’altra storia.

* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6335

Lo sfruttamento nel carrello della spesa *

Il tema dell’analisi della produzione e della filiera che sta dietro ad un certo prodotto che mettiamo nel carrello quando decidiamo di recarci presso un supermercato della Grande distribuzione organizzata (Gdo), è già stato sviscerato e problematizzato da diverse pubblicazioni scientifiche e della pubblicistica. Tra di essi c’è certamente da segnalare il valido e puntuale saggio di Fabio Ciconte e Stefano Liberti, pubblicato quest’anno.

Entrambi giornalisti e saggisti, hanno dato alle stampe per Laterza il volume denominato Il grande carrello - chi decide cosa mangiamo, andando ad indagare il comportamento pervasivo della Gdo nelle abitudini alimentari delle italiane e degli italiani. Tra le questioni sviscerate con dovizia di particolari vi è quella dell’illusione del consumatore che acquista un prodotto marchiato dalla grande catena presso cui si è recato per fare la spesa con l’illusione che sia un qualcosa di diverso da quello poco distante sull’altro scaffale. «Finiamo - si legge in una parte del saggio - per comprare prodotti diversificati nel marchio e nel marketing ma in realtà identici, perché in un universo di grandi concentrazioni è facile imporre un’omologazione al ribasso» (Il grande carrello, p. 57, Laterza).

E questo è del tutto vero se pensiamo alla fase che il mondo globalizzato sta vivendo da decenni: la compressione dei diritti e dei salari si riflette anche sulla produzione e sul modo di acquistare i prodotti dai produttori da parte della Gdo. Interessante e condivisibile è il punto che i due autori terminano il discorso sulle aste e, in particolar modo, sul comportamento dell’azienda Eurospin il cui comportamento ha favorito una «guerra fra poveri: da una parte gli agricoltori che non ci stanno più dentro; dall’altra i consumatori, che vogliono spendere sempre meno […] l’asta al doppio ribasso è l’ultima frontiera della trasformazione del cibo in commodity […] Senza voler stabilire un legame diretto tra aste al doppio ribasso e sfruttamento nei campi, è indubbio che questa prassi favorisce lo sfruttamento, perché crea un collo di bottiglia che impedisce agli agricoltori di fare reddito e li obbliga in un certo senso a cercare mezzi alternativi per rimanere nei costi» (Il grande carrello, p. 68, Laterza).

È una correlazione intima e conseguente, invece, quella del legame fra aste al doppio ribasso e sfruttamento nei campi: è il caso di porre questa relazione come necessaria in un’analisi di critica complessiva - e particolare - nei confronti del sistema capitalista nella fase attuale di crisi di sovrapproduzione. Il capitalismo ha necessità di porre ai limiti della schiavitù una parte consistente della popolazione al fine di mantenere il proprio status non solo per se stesso e per le classi sociali più alte ma, paradossalmente, soprattutto per il proletariato e sottoproletariato. Là, dove la scure del sistema più iniquo e ingiusto del Mondo ha colpito più di tutto e più di tutti, ovvero i diritti legati al mondo del lavoro, ai servizi pubblici e alla salute, quello del cibo è un fattore che non può essere sottoposto a defaillances, il capitale non può permetterselo.

È storicamente, e letterariamente (si pensi all’episodio dell’assalto ai forni contenuto nei “Promessi Sposi” del Manzoni), diffuso che il popolo affamato si pone di traverso ancor di più al potere costituito che lo opprime che fino a poco tempo prima creava le condizioni affinché la classe subalterna fosse ancora più tale e permanesse nella sua condizione di indigenza. Il capitale ha dunque il compito di creare tanto il consenso quanto il dissenso: attraverso lo sfruttamento proto-schiavile di una fascia determinata di persone, quali immigrati irregolari impiegati nel lavoro bracciantile, riesce a mantenere la facciata del costo contenuto dei prodotti agli occhi del proletariato e del sottoproletariato. Da un lato permette a vaste fasce di persone di approvvigionarsi a costi oggettivamente bassi; dall’altra fa in modo che la rabbia sociale prodotta dalla mancanza del lavoro, dalla compressione dei salari, dalle tasse sempre più alte, si scarichi verso quella parte di popolazione (perlopiù composta da immigrati irregolari) che popola periodicamente i ghetti del foggiano fuori dai centri urbani (che un tempo si sarebbero chiamate baraccopoli), in Campania o in Calabria.

Il proletariato, infatti, avendo come unico orizzonte il fine del mantenimento del proprio nucleo familiare a costi piuttosto contenuti, non bada - necessariamente - alla filiera o al come un tale prodotto riesce ad arrivare sugli scaffali del supermercato a lui più vicino, tanto più se è uno che gli fa spendere poco per ottemperare al compito della spesa.

Contenere il cosiddetto malcontento popolare almeno da un punto di vista alimentare, evitando che il costo dei prodotti più cari a strati più bassi della popolazione lievitino, è il compito attuale del capitale: una porzione sempre più ingente di popolazione, bersaglio della campagna elettorale e degli slogan come "prima gli italiani", è quella che accetta condizioni semischiavili di lavoro e al contempo il ricatto - da parte di padroni italiani, s’intende - della denuncia alle autorità, dunque il conseguente rimpatrio, qualora dovesse alzare la testa.

Incanalare l’odio sociale contro soggetti più fragili è diventato, oramai, sport nazionale dell’Italia del XXI secolo: cercare di contenere la rabbia sociale e nel frattempo avallare chi indica quegli sfruttati nell’ambito della politica e delle campagne elettorali sempre più esautorate di ogni reale contenuto politico, è la lotta del capitale. Stanare chi indica e creare coscienza di classe contro gli indicatori è il compito dei comunisti.


* Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6332

Il «duello» nel dibattito che non c'è

Piccola premessa
Chi ha detto che la filosofia è inutile? Probabilmente qualche Presidente di qualche stato latino americano lusofono in odor di potere assoluto, o di qualcun altro evidente estimatore di Pinochet (per quel che sta succedendo in Cile: https://www.facebook.com/TomasHirschDiputado/videos/933282370390086/). Chi si scaglia contro l’inutilità della filosofia non è qualcuno che ha compreso la vera essenza della materia individuandola nell’inutilità della stessa, piuttosto ha compreso la portata rivoluzionaria di un modus pensandi che potrebbe far crollare le fondamenta del proprio potere costituito sul terrore o su di una evidente mancanza di democrazia. Una nazione retta in modo a-democratico (con tanto di alfa privativo) evidentemente pone se stessa in opposizione al concetto di Stato giustificandone, tuttavia, la giustezza del proprio sistema. Così i dittatori nazifascisti assumevano il controllo dello Stato con la forza per fare in modo di poter governare per il bene di tutti: le funzioni vitali della Nazione potevano essere subordinate per un bene più grande, quello della salvezza dello Stato, così allo stesso modo le libertà del popolo, degli elettori o dei cittadini, com’è in voga determinare ultimamente il corpo sociale.
Oltre agli esponenti politici sopra citati, ci sarebbe da aggiungere all’elenco anche coloro i quali ritengono che il mondo possa essere determinato dalle regole dell’economia e si affida ciecamente ad economisti per prevedere il futuro dello sviluppo economico del Paese (così come le tendenze macroeconomiche) salvo poi scoprire che i numeri sono sempre implacabilmente gli stessi: +0.x o -0.y, dunque conta davvero molto poco.

Fenomenologia del dibattito politico
Eppure il dibattito politico si serve costantemente della filosofia, certo non dandogli pacche sulle spalle o mostrandole la dignità che si merita. Al contrario, il dibattito la irride forse anche senza volere, ma prendendola ugualmente in giro.
Una prova tangibile di tutto questo è anzitutto l’ultima manifestazione di un cosiddetto dibattito avvenuto in seconda serata sulla sempre pessima trasmissione «Porta a Porta» condotta dall’inossidabile Bruno Vespa. 
Titolone in grassetto dietro il conduttore della trasmissione: «Il duello: Matteo vs Matteo». 
Seduti l’uno di fronte l’altro c’erano i due Senatori della Repubblica Matteo Salvini e Matteo Renzi, leader delle loro formazioni politiche l’una sulla cresta dell’onda mediatico-elettorale, l’altra nascente. Matteo contro Matteo rimanda ad un’idea di scontro, prima ancora che ad un incontro: ci sono due persone che si contrappongono e lo fanno senza esclusione di colpi, altrimenti la puntata non si sarebbe intitolata “il duello” ma piuttosto “il confronto” o “il dibattito”. Porre un esponente contro l’altro significa trasporre sul piano dialettico una differenza di posizioni e di risposte alle questioni d’attualità e/o storiche, poste dal conduttore per orientare il dibattito.
Si potrebbe, certo, in questa sede affermare sommessamente come tale confronto e dibattito sostanzialmente non è in quanto posto su basi del tutto franabili, come avrebbe detto un timorato Aldo Baglio in «Così e la vita» mentre scalava una roccia per l’appunto franabile (e non friabile dato che frana «non è che fria»): il dibattito è tale se ci sono posizioni contrapposte riguardo una visione del mondo del tutto opposta a cui fare riferimento. Qualora, per assurdo, uno dei due fosse stato contrario all’economia di mercato (alias: il capitalismo) allora sì poteva essere utile chiamare ‘dibattito’ un incontro siffatto. Dato che i due contendenti trattano delle stesse tematiche con eguale linguaggio, a parte alcuni aggettivi ed espressioni più o meno truculente o fiorentinamente colorite, è sostanzialmente inutile collocare il confronto nell’alveo del ‘dibattito’. Chiamarlo così, al contrario, serve non a chi usufruisce del messaggio ma a chi vuole inviarlo: porre su un piano antitetico due persone che la pensano esattamente allo stesso modo e che, a parte qualche frecciatina e battuta di spirito su qualche tema particolare riguardante l’amministrazione di questo o quel comune politicamente retto dalle rispettive controparti politiche o riguardo questa o quella legge appoggiata da Renzi o da Salvini, aumenta una percezione di scontro dra le due posizioni che - in realtà - è completamente assente.
Chi riceve il messaggio, colpito dall’apparizione della puntata in grassetto “Matteo vs Matteo” e corroborato dalla specifica: “il duello” comprende che le parti in causa sono già in lotta, tuttavia - se l’ascoltatore si prendesse la briga di seguire realmente il dibattito - noterebbe che, al netto di grafiche accattivanti per porre sotto una precisa ottica la puntata televisiva, i due non si oppongono in alcun modo alle idee generali dell’altro. Qualora dovessero accennare a farlo ci troveremmo di fronte ad un gioco delle parti che dura il tempo della trasmissione: la manifestazione di equipollenza politica spesso passa attraverso una fase di supposto scontro o litigio strumentale per poi trovarsi sulle stesse posizioni.
Si dirà: «ma allora i porti aperti/chiusi? Quella è una differenza sostanziale». Tale obiezione si sostanzia già nella domanda: non esiste questione di porti aperti o chiusi in quanto se si dovesse davvero chiudere Genova o Palermo - ad esempio - l’economia italiana franerebbe (e stavolta frana davvero, non fria) in un batter d’occhio. La retorica sulla chiusura o apertura dei porti è una lotta tutta a suon di slogan che non aggiunge nient’altro a quanto già detto.
A proposito di slogan sarebbe da continuare a trattare l’argomento con dovizia di particolari, tuttavia lo scritto è già abbastanza lungo, è bene rimandare le riflessioni sugli slogan ad un altro post.

Groenlandia, un Paese che non conosciamo

La Groenlandia 51° stato americano? Lo stato con il più alto tasso di suicidi al mondo interessa agli Usa per le sue materie prime. Ma i primi ministri, danese e groenlandese, chiudono la porta: “Non siamo in vendita”

I sostenitori di Trump fanno già sul serio: hanno dato alle stampe una maglietta raffigurante tutti i 51 Stati degli Stati Uniti d'America. Già, uno in più: la Groenlandia. I Repubblicani non scherzano: esortano il Presidente Donald Trump ad usare la notizia dell'estate come argomento per la campagna elettorale. È bene, tuttavia, fare un passo indietro. Ferragosto, il «Wall Street Journal» riporta una dichiarazione del Presidente americano Donald Trump in cui ammette di voler presentare un'offerta al Governo danese per l'acquisto della Groenlandia. La data della proposta sarebbe stata fissata nel corso del mese di settembre, momento in cui era già in programma l'incontro bilaterale Danimarca-Usa. L'affermazione – riporta il «WSJ» - è stata pronunciata agli assistenti di Trump «con diversi gradi di serietà». Il rischio boutade estiva era dietro l'angolo, tuttavia la notizia ha fatto il giro di tutti i giornali e portali d'informazione del Mondo, tale è stata la sua portata: l'America vuole mettere mano al portafoglio per comprare l'isola più grande della Terra, così come fece – d'altra parte – Henry Truman nel 1946 compiendo il primo passo e formulando un'offerta per l'acquisto della Groenlandia.

La Groenlandia, Donald Trump a parte, fa gola agli Stati Uniti da diversi anni perché in una posizione strategica per l'area, per le materie prime di cui è ricca, così come – probabilmente – colma di petrolio e gas naturale. E poi, ancora, per lo zinco, il carbone, il rame. Senza contare il fatto che gli Usa posseggono già una base militare a Thule. Qualora l'isola dovesse diventare, davvero, il 51esimo stato americano le basi militari prolifererebbero verosimilmente in tutto il territorio groenlandese.

La parola contraria (groenlandese e danese)
«Non siamo in vendita», così la Primo ministro danese Mette Frederiksen (in quota socialdemocratica) ha chiuso le porte a Trump ma, dopo aver respinto duramente la proposta americana, il funambolico presidente repubblicano ha annullato l'incontro previsto per settembre. Come a dire: niente vendita della Groenlandia? Allora non abbiamo niente da dirci.

Contrarietà e diniego sono arrivati anche dalla parte groenlandese della politica, in regime di autogoverno ma formalmente appartenente alla corona danese e rappresentata – per questo – al Folketing (Parlamento danese): il Primo ministro Kim Kielsen (Siumut – socialdemocrazia groenlandese) ha fermamente risposto che la Groenlandia è un paese indipendente, sovrano e che non ha costo perché non sul mercato, così come la sinistra indipendentista rappresentata dal partito Inuit Ataqitigiit, seconda organizzazione politica del paese.

La questione sociale: i suicidi
La Groenlandia possiede un primato non molto edificante: è il primo paese al mondo per quanto riguarda i suicidi: il tasso annuale è di 100 persone per 100.000 abitanti che decidono di farla finita.  Persino il Giappone possiede un tasso più basso (51 per 100.000) nonostante abbia documentata un'«epidemia suicida» specialmente tra gli adolescenti.

Secondo Bodil Karlshøj Poulsen, direttore del centro di salute pubblica groenlandese: «Ogni giovane abitante conosce un amico o un parente che si è suicidato». La modernità è stata la causa della depressione e della disperazione groenlandese: tra il 1900 e il 1960 i dati relativi ai suicidi erano davvero bassi e decidevano di togliersi la vita solo 0,3 persone su 100.000. Dal 1970 tutto cambia e si arriva al picco del 1986 in cui la cittadina simbolo dei suicidi divenne Sarfannguaq, con soli 150 residenti. Poulsen ha riferito in un'intervista al portale statunitense «Slate» come dagli anni ‘70 in poi la depressione sia cresciuta enormemente nella popolazione groenlandese: «La cura? Non l'abbiamo, ma lo sport ha un impatto positivo enorme». Sia il calcio che la pallamano, infatti, sono considerati sport nazionali e le strutture per praticare queste discipline migliorano di anno in anno, così come la qualità e i risultati internazionali, soprattutto per quel che riguarda la pallamano, dal momento che la Fifa stenta a riconoscere la Groenlandia come nazionale.

I rispettivi governi (danese e groenlandese), tuttavia, da anni studiano la questione e dal 2013 è stato avviato un piano di 6 anni per sensibilizzare gli abitanti tutti sul tema, intervenire con atti concreti e attuare misure di prevenzione.

La Casa Rossa: l'esempio di Robert Peroni a Tasiilaq
Robert Peroni, italiano altoatesino, da circa 40 anni ha deciso di andare a vivere in Groenlandia, nella parte più depressa e svantaggiata del Paese, ovvero quella rivolta ad est. Oriente e occidente della Groenlandia rappresentano mondi completamente diversi, sebbene appartengano alla stessa entità nazionale e statale: nella parte occidentale, più riparata dalle correnti glaciali, è presente la capitale Nuuk, sede universitaria internazionale, e tutte le maggiori cittadine in cui è possibile trovare un impiego lavorativo. La parte orientale è legata alla caccia e alla pesca, dunque ancora seminomade.

Nella cittadina di Tasiilaq, che conta poco più di 1.800 abitanti, Robert Peroni ha aperto la ‘Casa Rossa', uno spazio aperto in cui sì fare turismo nelle stagioni in cui c'è più afflusso di gente da ogni parte del Mondo, ma anche un luogo in cui 

«tutte le persone del posto possono trovare riparo, un pasto caldo senza bisogno di pagare e in cui trovare un po' di quiete perché spesso si ubriacano e la loro abitazione non diventa più ‘tranquilla' come dovrebbe essere».

Oltre ad essere esploratore, alpinista e – ora – guida turistica, Robert Peroni ha scritto tre libri tutti per Sperling&Kupfer («I colori del ghiaccio», «Dove il vento grida più forte», «In quei giorni di tempesta») in cui racconta la sua permanenza e il rapporto sempre più intimo che ha avuto con gli inuit nel corso degli anni.

L'alcolismo e la disoccupazione sono fattori con cui gli abitanti di Tasiilaq devono sempre più fare i conti, Peroni a più riprese ha avuto modo di prendersela con Greenpeace e organismi internazionali che piacciono molto agli occidentali perché difendono gli animali (in questo caso la foca) ma che non hanno il polso della situazione groenlandese: «per loro sono solo un italiano pazzo», ha detto anni fa a Pierfrancesco Diliberto (Pif), che era andato ad incontrarlo a Tasiilaq per conto di Mtv e della sua trasmissione «Il Testimone».

In questa fase storica i groenlandesi «hanno paura del futuro: non esiste nella loro lingua una parola per poter parlare del futuro», ha più volte detto Peroni. 

«Noi – ha affermato – parliamo  sempre del ”dopo", del ”futuro" ma loro no, anzi, hanno paura di quello che accadrà: l'uomo bianco (in lingua locale, il kalaallisut, qattunaa, in senso dispregiativo), gli ha tolto tutto perfino l'orgoglio di cacciare», 

dal momento che l'occidente

 «ha impedito loro di sostentarsi con la foca e la balena, nonostante abbiano quote severissime e regole molto dure per il rispetto degli animali», 

al contrario di quel che avviene in altri paesi come il Giappone che cacciano in maniera scriteriata i cetacei non per sostentarsi ma per scopi commerciali.

La Casa Rossa serve a creare un ponte:

«Bisogna sostenere la popolazione locale in preda alla depressione, all'alcolismo e di qualcosa che non conoscono ma che temono; parliamo di quello che potremmo fare molto spesso e l'importante è essergli vicini e capire le ragioni di un popolo pacifico, che non conosce la guerra e lo sfruttamento tra simili».

Certo è che, come ha sostenuto lo stesso Robert Peroni a Tv2000:  

«Gli inuit dovranno necessariamente imparare dall'uomo bianco e dalle sue usanze nonostante egli non abbia affatto ragione»

Pena la scomparsa di una cultura millenaria.



Pubblicato sulla sezione Tuttogreen de La Stampa il 7 dicembre 2019 [aggiornato il 25 novembre 2019]: https://www.lastampa.it/tuttogreen/2019/09/07/news/groenlandia-un-paese-che-non-conosciamo-1.37413836/

La memoria perduta dei giornali italiani: un nuovo "1984" che non suscita indignazione *

Cos’è successo a «l’Unità»? Qualche tempo fa lo hanno descritto alcuni giornalisti vicini alla testata che un tempo era comunista. Un tempo neanche troppo lontano a pensarci bene ma che ora sembra sideralmente distante. Come fa un giornale a perdere tutto quello che ha pubblicato su internet? La risposta è semplice quanto complessa. Cambi di proprietà, legislazione non proprio impeccabile ed evidente noncuranza del patrimonio archivistico della testata hanno realizzato quel che una porzione di opinione pubblica ha conosciuto come la perdita della memoria di uno dei quotidiani più importanti d’Italia. Il combinato disposto fra il cambio della proprietà e la legislazione “non proprio impeccabile” hanno permesso che venisse demandata una questione cruciale, quella dell’archiviazione digitale della memoria delle pubblicazioni giornalistiche, agli editori e alla proprietà dei quotidiani. Vale la pena dare un paio di cenni normativi per chiarire il quadro della questione: quando i server de «l’Unità» sono stati spenti, così come quelli di altri quotidiani di partito («Liberazione», «La Voce Repubblicana», «La Rinascita») e non («Cronache del garantista», «Liberal», «e-Polis», «Corriere Laziale»), le proprie pubblicazioni digitali sono andate perdute. Questo è stato possibile perché il regolamento d’attuazione del d.p.r. 252/2006 – che obbliga gli editori al deposito legale digitale così come per quello cartaceo – non era (e non è) stato ancora pubblicato.  

Cos’è il deposito legale? Il deposito legale, cioè la consegna obbligatoria delle pubblicazioni negli istituti depositari da parte dei soggetti previsti dalla legge (DPR 252/2006), è lo strumento normativo che consente la raccolta e la conservazione dei diversi prodotti in archivi nazionali e regionali. L’obbligo, nonostante sia rivolto anche alle produzioni native digitali non è stato normato dal regolamento d’attuazione per far sì che le pubblicazioni editoriali possano essere ‘raccolte’ dagli organismi preposti dalla legge. Quando ad un sito internet, pur appartenente ad una testata giornalistica di rilevanza nazionale, vengono spenti i server a cui punta a causa della cessazione della vita della testata o di un momento delicato della vita della stessa (es. un cambio di proprietà) e non sono state fatte copie dei contenuti pubblicati, il rischio è quello di perdere tutto quanto sia stato originalmente “postato” sulla rete.  

Tre giornali differenti, un comune denominatore 
Il caso de «l’Unità» è eclatante e già all’inizio del 2017 l’archivio digitale risultava irreperibile, qualora un utente avesse provato a digitare l’indirizzo del dominio , tanto che Pietro Spataro, già giornalista della testata, iniziò a scrivere all’allora direttore Sergio Staino chiedendo spiegazioni a riguardo. Staino disse che si stavano solo aggiornando le macchine perché obsolete. Un po’ come quella scena del “Compagno don Camillo” in cui Gino Cervi, sindaco comunista di Brescello in visita in Urss, chiede prepotentemente a delegati del Pcus come mai siano stati rimossi dall’hotel in cui alloggiavano tutti i quadri che raffiguravano l’allora segretario Kruscev. Risposta: «Per spolverarli». L’indomani i comunisti emiliani si ritrovarono con un altro segretario del Pcus raffigurato, trattavasi di Breznev. Il problema è che non c’è stata nessuna ‘spolveratina’ ai server del quotidiano che un tempo era comunista ma solo una decisa rimozione di tutti i contenuti originali pubblicati unicamente sul sito e su tutti i sottodomini. Al momento l’archivio digitale del quotidiano si trova nel cosiddetto deep web e lo si può consultare tramite TorBrowser grazie all’opera di un gruppo di hacker – ribattezzati scherzosamente dalla rete data ninja – che ha salvato buon parte del patrimonio dal 1946 fino alle edizioni più recenti ma non riuscendo nulla per le edizioni locali e nazionali pubblicate fra il 1929 e il 1946. Allo stesso modo il tormentato percorso di fine-vita (stavolta non volontario) di «Liberazione», il quotidiano organo di Rifondazione Comunista, è molto simile a quello della «Voce Repubblicana», organo del Partito repubblicano italiano il cui patrimonio cartaceo esiste (e lotta insieme a noi!) nelle annate presenti nelle sedi dei due partiti citati. Nessun backup dei contenuti pubblicati solo sui rispettivi siti internet, però, è stato mai realizzato da parte delle redazioni dei quotidiani. La giustificazione che hanno dato i responsabili di entrambe le pubblicazioni, tutt’ora membri dirigenti e organizzativi dei due partiti di riferimento (Prc e Pri) è stata quella per cui nessuno pensava di “finire in così breve tempo”, dunque, “non abbiamo mai salvato nulla”. 

“Sul ponte sventola bandiera bianca”
L’evidente inconsapevolezza del comportamento da attuare da parte da parte di direttori e dalla proprietà dei quotidiani rispetto ad una normativa assente, lacunosa o che non stabilisce chiaramente quali siano gli obblighi da assolvere, come al contrario avviene per il deposito legale è la chiave di lettura per leggere tutti e tre i casi. Tuttavia in mancanza di una normativa che regoli chiaramente il deposito legale digitale, la conservazione della memoria dei siti web viene lasciata all'iniziativa dei singoli i quali, come s’è visto, non posseggono gli strumenti per comprendere l'importanza dell'archiviazione digitale a cui va aggiunto una predisposizione di noncuranza e inosservanza da parte delle redazioni circa l'importanza del rinnovo del dominio e dei relativi servizi nei confronti dell'azienda scelta al momento della registrazione. La mancanza del rinnovo del dominio, infatti, nonostante possa essere interpretata come una fatalità, è una delle cause che generano la successiva perdita della memoria digitale di un quotidiano, in mancanza della normativa specifica.
Si aggiunga, inoltre, che il personale che svolga funzioni archivistiche con competenza non è presente nella maggior parte delle redazioni di quotidiani nazionali: tra quelle citate nessuna possedeva personale con formazione archivistica in grado di gestire sia il patrimonio cartaceo che digitale. La conseguenza è stata la perdita integrale del proprio archivio digitale, aprendo delle vere e proprie voragini nella memoria dell'informazione politica nel Paese.

*L'articolo in questione è il frutto di una sintesi del saggio pubblicato per il numero 59 della rivista scientifica «Culture del testo e del documento», per cui ringrazio il Direttore prof. Piero Innocenti per lo spazio che mi ha concesso e la prof. Marielisa Rossi. Il lavoro di ricerca è stato effettuato nell’ambito della redazione della tesi di Laurea magistrale in Scienze storiche dal titolo Analisi delle strategie editoriali e di conservazione digitale di alcuni quotidiani nazionali, discussa nella sessione invernale dell’a.a. 2016-2017 dell’Università di Roma 2 – Tor Vergata, relatrice prof. Marielisa Rossi.
Articolo pubblicato su Sinistraineuropa e Pressenza

Piccolo prontuario di risposte (talvolta semiserie) per chi ha amici-parenti-conoscenti che mandano il cervello all'ammasso

Mi è venuto in mente di redigere questo piccolo "prontuario" semiserio nel corso di questi giorni. Non ho inserito tutte le domande assurde che costantemente il nostro cervello è costretto ad ascoltare ma sono sicuro che da più parti mi verrà fatta notare qualche altro "botta e risposta" a cui non avevo prestato la giusta attenzione.

D: "La Lega ha preso i soldi dalla Russia, hai visto? Come il Partito comunista italiano, alla fine so la stessa cosa".
R: "Tralasciando il fatto che si sta parlando di due ere politiche e storiche completamente agli antipodi, eviterei tale paragone anche solo alla lontana. Sarebbe come paragonare l'Imperatore Costantino e il Generale Cadorna, un po' azzardato. Ma, battute a parte, non lo farei per una serie infinita di motivazioni di cui mi limito ad elencarne una sola. La Lega e il Partito comunista italiano rappresentano/hanno rappresentato due ideologie e modi di fare attività politica e sociale del tutto opposti fra loro e cercare di trovare un punto di connessione tra di essi per far apparire risibile tanto l'una quanto l'altra organizzazione è una pratica ignobile e senza alcun fondamento. Semmai è da interpretare come una prova del cinismo e dell'affarismo della Federazione Russa e di strati del capitalismo italiano (citofonare ad Arcore). La Federazione Russa, infatti, altri non è che uno stato capitalista ed imperialista al pari degli altri del blocco occidentale. Ricordare a costoro che l'Urss è caduta prima del nuovo millennio potrebbe giovare alla conversazione*".

D: "Eh ma tanto Stalin e Hitler so' uguali, il Fascismo alla fine era socialista perché Mussolini era socialista"
R: A costoro è meglio rispondere calcisticamente anziché realmente perché la capacità di comprensione dei processi globali, nonché quelli del loro condominio, è pari allo zero: «Anche Zeman ha allenato Roma e Lazio eppure non mi sembra che le due squadre possano essere sovrapponibili»".

D: "Non serve a niente fa la differenziata tanto se non la fanno tutti non serve a niente"
R: "Vero, ma tu non la fai "perché gli altri non la fanno", non perché tu lo ritenga inutile, che è ancora più grave perché denota un codismo alla massa perché 'tanto lo fanno tutti'"

D: "Tu dici di essere contro l'Europa, ma pure Salvini dice di esserlo, alla fine avete le stesse posizioni"
R: Di solito chi pronuncia questa frase ha votato, nell'ordine: Berlusconi, Marchini alle comunali, Grillo, Renzi ("embè gli 80€"), Grillo e Salvini. A seconda dei mesi rientra nel campo degli "sfiduciati". Non appena gli si fa notare che "Le posizioni sono del tutto diverse" lui controbatterà con "Se vabbè, mica posso statte a sentì a te, secondo me sete uguali". E il "dibattito" - sostanzialmente - finisce qui. Una possibile risposta reale in tre parole sarebbe che "No, non abbiamo le stesse posizioni per il fatto che Salvini vuole mantenere tutto l'impianto dell'Ue così com'è e credere ad ogni sua dichiarazione è come andare in banca ad incassare un assegno a vuoto prendendosela con il tizio allo sportello perché 'secondo me è incassabile'".

D: "È innegabile che l'Italia sia invasa dagli immigrati"
R: "Il problema del paese, improvvisamente, diventa una parte minoritaria della nazione in quanto si preferisce additare lo strato più debole anziché guardare a chi - davvero - impoverisce il paese: oligopoli, corruttele, sistemi mafiosi sempre più estesi, clientelismo, evasione fiscale etc etc"

D: "Il lavoro manca perché ce lo rubano gli immigrati"
R: "Il lavoro manca perché per (ad es.) 100 persone che vanno in pensione non ne vengono assunte altrettante e chi lavora deve farlo per 3 mentre aumenta il numero di disoccupati - ovviamente. A questo si aggiunge uno strato sempre maggiore di lavoro nero, maggiormente nei settori dell'edilizia e dell'agricoltura, che tu italiano medio neanche guardi perché ti limiti a giudicare il tutto con un caustico 'vabbè, se questi vonno venì qua è giusto che se danno da fa', peccato che siano tecnicamente schiavi. È il capitalismo, bellezza, nonostante tu voglia dire che non è così"

*Se il sintomo di chi ha posto la domanda persiste consultare il medico: non somministrare sopra i 60 anni (da leggere preferibilmente con voce accelerata come nelle pubblicità di farmaci).

«La Metro C? L'ha fatta Mussolini!»

Dice: «Ao ma guarda che questa qua, sta metro, l'ha fatta Mussolini, eh»
Dico: "Se, 'a metro c?»
Dice: «Avoja, stava già n preparazione quando c'era Mussolini!»
Dico: «Ma dimme te»
Dice: «E te sto a di»
Dico: «Io mica o sapevo. Certo che QVANNO CIERA LVI»
Dice: «Eeeeeh! Ma calcola che questa era quella che annava a Fiuggi»
Dico: «Aspe ma quello n'era er trenino?»
Dice: «Eh o so ma questa che è? A stessa cosa, no! L'hanno torta da sopra e l'hanno ficcata sotto» Dico: «E l'aveva fatta Mussolini»
Dice: «E certo, l'infrastruttura quella era e questa è rimasta»
Dico: «Lineare, proprio»

Pedagogia marittima a Coccia di morto

Focene. Fossimo in una sceneggiatura ci sarebbe scritto: Focene: esterno giorno assolato, o cose simili. 
Per la precisione, tuttavia, la spiaggia era quella di Coccia di morto, un toponimo allegro e che suscita immagini del tutto gioconde alle orecchie di chi lo ascolta per la prima volta. 
La spiaggia è affollata e l'ora, circa mezzogiorno, è quella della ressa anche al chiosco della spiaggia libera attrezzata, così si dice. La fila per un ghiacciolo, un caffè, una birra, un gelato e altri generi di questo tipo è del tutto insostenibile: sembra d'essere in fila sul raccordo, un tristo presagio per il pomeriggio quando si dovrà tornare indietro e si dovrà affrontare il lungo serpentone di macchine vòlte a tornare a casa dopo la giornata di mare.
Ce ne stiamo pazientemente in coda aspettando il nostro turno, mentre la musica reggae/raggamuffin e cose affini è sparata dagli altoparlanti ad un volume eccessivo. Il ritmo in levare dopo un po' inizia ad essere ripetitivo, così come i bassi che sovrastano in maniera spropositata la linea melodica delle canzoni. Sotto una pioggia di Babylon, Eeeeh, raaaassstaman madre e figlia intrattengono una conversazione interessantissima.
Una donna e una ragazza sono dietro di noi, madre e figlia. La genitrice è tatuata e del tutto super abbronzata, avrà avuto una quarantacinquina d'anni; la figlia è una tipica adolescente romana 'in fieri' di periferia con un piercing sulle gengive, anche se non saprei dire a quale lembo di pelle si attaccasse il pezzo di metallo dal momento che la posizione dell'orecchino non lasciava tradire alcun appiglio.
Figlia: «Me vojo tatuà qualcosa su a spalla, mà», la madre, pur consapevole delle nuove epifaniche esigenze dei giovani, risponde: «e che te voresti tatuà, sentimo».
La figlia, entusiasta del potenziale spiraglio assertivo concessole dalla madre nel corso della conversazione, le risponde entusiasta: «qualcosa n spagnolo, tipo 'nada se olvida'».
«E che vordì?», le risponde giustamente la madre, ribadendo una distanza concettual-linguistica tutta a suo vantaggio.
«Vordì 'niente se dimentica'», le risponde fiera la figlia.
«Niente se dimentica?», «Sì!».
«Ma che te voi dimentica che c'hai quindic'anni, ma falla finita».
Applausi.

Newsletter social(e) - Prima comunicazione

Dopo il post sulla "sconnessione", termine che non credo esista e, anzi, temo sia di mia invenzione, insieme a Roberto Catracchia abbiamo ragionato sul che fare
La Newsletter Social(e) è uno dei risultati delle chiacchierate degli ultimi giorni e sarà prodotta saltuariamente per argomenti. La prima newsletter riguarda Libra

Che diavolo è?
Il primo pensiero che avrete una volta ricevuta questa mail sarà, siamo sicuri, quello dello sconforto: "oh, no! Un'altra odiosissima newsletter". È vero: la newsletter è uno strumento che, se usato sconsideratamente, è molto fastidioso. Ma non siamo qui per darvi fastidio: tutt'altro. 
Siamo qui perché vogliamo ragionare insieme, con tutti coloro a cui arriverà questa prima mail, di una cosa che ci riguarda da molto vicino: la nostra vita digitale. 
Usiamo costantemente Facebook, ci scambiamo informazioni su WhatsApp - spesso anche molto importanti -, ci scattiamo un mucchio di foto con i nostri smartphones e le pubblichiamo su Instagram. 
Ma i social parlano a delle "cerchie" ristrette mentre, invece, c'è bisogno di andare oltre: incontrarsi, parlare e formarsi un'opinione su determinati argomenti, prima ancora di scambiarsela. 
Dal prossimo anno, Facebook emetterà una moneta virtuale che trasformerà il nostro essere utenti di un social network ad "azionisti" del progetto Libra (così si chiama la nuova moneta). 
Per questo abbiamo deciso di cominciare un percorso di informazione, commento e contro - informazione riguardo quel che accade ogni giorno attorno a noi per fare in modo che sì, condividiamo articoli e opinioni, ma soprattutto fissare appuntamenti in cui vederci di persona e parlare, dibattere. Parallelamente vogliamo creare una sensibilizzazione riguardo la "disconnessione" da parte nostra da alcuni social network, parlarne con voi che siete amici, conoscenti, persone con cui condividiamo ideali e speranze. Contro chi vuole monetizzare il pensiero, noi rispondiamo che è obbligatorio farlo circolare esattamente al contrario di come si sta provando a fare.

Potete leggerla qui:


Una criptovaluta si aggira per il Mondo | le ragioni della sconnessione *

Una criptovaluta si aggira per l'Europa, anzi, per il Mondo, in tutto l'intero Pianeta. 
Il 18 giugno 2019 il 'numero 1' di Facebook, Marck Zuckerberg, ha pubblicato un post sulla piattaforma social di cui è leader e padrone per dichiarare e spiegare ad utenti e al Mondo che cos'è Libra, ovvero, la nuova  cosiddetta (impropriamente) criptovaluta prodotta da  Facebook e da altre aziende transnazionali, tra cui MasterCard, Vodafone, Iliad, PayPal, Spotify etc. 
Facebook, sostanzialmente 'batte moneta' e lo fa entrando a gamba tesa nella finanza globale chiamando la propria creatura stable coin (moneta stabile) e non criptovaluta così come prima ho scritto impropriamente, «dando una frecciata alla Bitcoin», per citare l'articolo scritto da Federico Rampini su 'Repubblica' del 19 giugno 2019 (**). Facebook conia una moneta e lo fa mettendo in piedi una struttura parallela utilizzando gli strumenti della politica non-governativa transnazionale: Libra è prima di tutto un'associazione no-profit (!) e non governativa con sede a Ginevra
«L'Associazione Libra è un'organizzazione indipendente, senza scopo di lucro, con sede a Ginevra, in Svizzera [...] conduce un programma di sovvenzioni di impatto sociale che sostiene gli sforzi di inclusione finanziaria in tutto il mondo. L'associazione collabora con la comunità globale e con i responsabili delle politiche per aiutare ulteriormente la missione Libra. L'Associazione è composta da un gruppo di organizzazioni diverse provenienti da tutto il mondo. I membri fondatori dell'associazione sono operatori e nodi di validazione che formano la catena di rete [blokchain - ovvero un sistema di contabilità digitale composto da sistemi matematici decisamente complessi che si appoggiano su reti di server e pc n.d.r.] che è l'essenza di Libra. Una delle direttive dell'associazione sarà quella di lavorare con la comunità per ricercare e implementare la transizione verso una rete senza autorizzazioni».
Basandosi su un impianto giuridico-esistenziale economicamente, politicamente e socialmente vantaggioso, Libra sarà il nuovo strumento del capitale transnazionale per condizionare i mercati e, dunque, l'economia.
L'unico giornale italiano che sta dando realmente risalto alla questione è 'il Sole 24 Ore' che sta dedicando articoli, producendo analisi e proponendo riflessioni molto interessanti a riguardo.

Oltre alla no profit Libra vi è anche Libra Networks, con sede nello stesso palazzo dell'associazione - ça va sans dire - «società a responsabilità limitata, fondata il 2 maggio di quest'anno dalla holding irlandese Facebook Global Holdings II», come riporta il 'Sole 24 Ore' nell'articolo di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi, ed avrà lo scopo di «fornire servizi finanziari e tecnologici e di sviluppare software e hardware con particolare riferimento agli investimenti, al pagamento, alla finanza, alla gestione delle identità, alle analisi, big data e blockchain».

L'essenza della nuova moneta: Facebook il nuovo "Re Sole"
L'unico punto fermo, per ora, è che Libra partirà nel 2020. Per il resto c'è - semmai - l'incognita da parte dai coordinamenti bancari transnazionali che non si sa se vorranno o meno intervenire per regolare - o 'disciplinare' come ha scritto più correttamente il 'Sole 24 Ore' - la nuova moneta che conta circa due miliardi di utenti (2,4 miliardi di utenti regolari, secondo dati di Facebook). Una sorta di "stato virtuale" decisamente imponente e del tutto multi-nazionale, in quanto i fruitori di Facebook sono distribuiti su vari paesi del Mondo. L'ardire di essere 'padrone' di uno stato, sebbene virtuale, non sarebbe venuta in mente neanche al Re Sole o a Napoleone ma, a quanto pare, siamo di fronte a deliri di onnipotenza ben più grandi.

«Le autorità monetarie si stanno ponendo la questione se Facebook non debba avere riserve valutarie depositate presso le banche centrali con cui garantire la stabilità della Libra», a dirlo è stato Tobias Adrian, capo della divisione mercati al Fondo monetario internazionale. Se la moneta sarà stabile, come i fondatori affermano, dipenderà da quante valute avrà al suo interno
Libra avrà l'asse portante della sua esistenza basata sulla privacy, sebbene i fondatori non specificano come e in che modo essa verrebbe tutelata. Non vi è alcun organismo terzo e indipendente che controlli Libra, o meglio, c'è ma è un organismo "esterno" nato dai creatori che hanno dato vita alla moneta. 
Un po' come se in un partito politico Segretario Nazionale e Comitato di Garanzia sono rappresentati dalla stessa persona, o ancora, se Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio dei Ministri fossero la stessa cosa. C'è poi da dire, riguardo la privacy, che Facebook nel recente passato ha dimostrato di essere vulnerabile ad attacchi e oggetto di 'fughe di dati', come giornalisticamente viene scritto. Anche a tal proposito, sarebbe incauto affidare pagamenti ad un'azienda che ha dimostrato di non possedere "anticorpi" a riguardo
La finanza ha fatto un passo avanti enorme rispetto a quanto avvenuto dalla crisi che ha visto imporsi i Governi tecnici in Italia e l'intervento della Troika in altri paesi: il capitalismo transnazionale avrà mano libera sulle transazioni e sui conti, così come allo stesso modo le persone, vivendo l'illusione dello 'scambio immediato' favoriranno una struttura non regolata da alcunché se non dallo smartphone e dal proprio account Facebook/WhatsApp etc. Le speculazioni finanziarie sarebbero sdoganate e avrebbero il 'via libera' di utenti-social che diventerebbero utenti-consumatori in uno schiocco di dita. Speculazione, beninteso, che i cittadini romani (ad esempio) conoscono benissimo (per chi volesse approfondire: http://webtv.camera.it/evento/9242 - «Né i piani di rientro del debito di Roma Capitale finora redatti, né il documento di accertamento definitivo del debito sembrano contenere una ricognizione analitica e una rappresentazione esaustiva della situazione finanziaria da risanare antecedente al 2008. Attualmente, per il 43% delle posizioni presenti nel sistema informatico del Comune, non è stato individuato direttamente il soggetto creditore». Commissario Straordinario per il Rientro del Debito del Comune di Roma, Silvia Scozzese).

La necessità della sconnessione
A questo punto diventa cruciale aprire il dibattito della sconnessione. Se qualche anno fa, in ambienti sociali, associazionistici, politici, si affermava come Facebook andasse utilizzato per far sì che si avesse voce dal momento che la carta stampata la nega a chi opera sul territorio e a coloro che portano una voce dissonante all'interno del panorama politico, a seguito dell'annuncio di Libra il filo dovrà necessariamente spezzarsi. Come si dice proverbialmente: il gioco non vale più la candela. Contribuire al flusso di account e alla legittimazione di quello 'stato' virtuale, come è stato definito dall'articolo di 'Repubblica', è insostenibile ora più che mai.
È il momento della sconnessione, del logout, dell'elimina account per chi crede di poter e voler cambiare la realtà che lo circonda e lo stato di cose presenti. 
Quali spazi alternativi ci sono? Possono esserci delle soluzioni immediate, prima ancora di abbracciarne altre più 'radicali' che utilizzano - ad esempio - i partiti pirati europei e nel mondo. 
Una tra questa è una newsletter, per rimanere in ambito digitale, ma tuttavia la questione più corposa è senza dubbio quella del tornare a mostrarsi nelle vie dei propri quartieri e dei propri luoghi di lavoro. Non è pura utopia quanto più una necessità: i dati elettorali hanno mostrato una evidente e profonda crisi delle sinistre europee e dei partiti comunisti di tutti i paesi dell'eurozona, tuttavia le elezioni amministrative hanno consegnato degli sparuti segnali incoraggianti per quel che riguarda la percezione di un'alternativa che sia politica e sociale in medio-piccoli centri abitati. Per fare questo non si possono attendente i tatticismi dei gruppi dirigenti che glorificano risultati miseri o "prendono atto" di sempiterne sconfitte che inanellano con entusiastica continuità dal 1999 ad oggi. È necessaria la sconnessione digitale per andare ad operare una nuova connessione, stavolta reale, per far sì che si torni ad ascoltare, parlare e capire il proprio bisogno e la propria intima necessità, connessa a quella della comunità in cui si è inseriti
La mediaticità che viviamo ha frammentato la nostra esistenza in modo totale e irreversibile, in particolar modo a chi abita nelle grandi metropoli: il centro della nostra vita non è più il luogo in cui viviamo e l'egemonia si fa più difficile perché non abbiamo ben chiara la direzione della nostra azione quotidiana, sia nell'associazionismo che nella politica territoriale. 
La 'facebookizzazione' del dibattito politico ha prodotto una politica di serie A e una di serie D eliminando del tutto "serie cadetta" e "terza serie": personaggi istituzionali utilizzano lo strumento dei social per qualsiasi scopo (sia esso personale o lavorativo) e spesso interagiscono con gli utenti a seguito di una diretta, di un post con decine di migliaia di visualizzazioni e via dicendo. Allo stesso modo ha prodotto una percezione distorta delle istituzioni a livello locale, contribuendo ad una confusione, già in atto nel corso degli anni, tutta a danno della comprensione di fenomeni politico-istituzionali, nonché della comunicazione della politica locale che predilige uno strumento di un'azienda transnazionale privata per comunicare quanto conduce quotidianamente anziché alle comunicazioni scritte e alle affissioni pubbliche che potrebbero, invece, arrivare alla maggior parte della cittadinanza. In questo senso si arriva al capolavoro dell'eterogenesi dei fini dei 5 Stelle che, partiti per rendere 'casa di cristallo ogni luogo istituzionale' hanno fatto in modo di rivolgersi ad una platea ristretta di persone informatizzate che, grazie a questo, sono considerati cittadini con una corsia preferenziale da qualsiasi amministrazione, centrale o locale.

Così come lo stato sociale era per pochi, la ricchezza mondiale va accentrandosi sempre di più in pochissime mani, anche la democrazia e gli spazi di conoscenza vengono ridotti sensibilmente a causa di meccanismi che vengono spacciati come "facilitatori" di comunicazione i quali, in teoria, sarebbero anche utili, se non fosse che sono totalmente ad uso e consumo di una popolazione già informatizzata e consapevole di che cosa significhi esserlo.
Non possiamo più aspettare: si deve, ora più che mai, creare una rete e un dibattito di chi ha a cuore sia il futuro della Terra, sia un mondo decisamente 'altro' che non sia ostaggio di finanza e speculazioni selvagge.
Ora o mai più.





* La nota, seppur messa in asterisco in calce al post, è cruciale. Non sono un economista ma ho a cuore la realtà e il suo manifestarsi, di conseguenza mi piace analizzarla secondo la mia personalissima Weltanschauung che è quella dell'anticapitalista. Chi leggerà il post e inizierà a rispondere in termini finanziari e strettamente economicisti, può continuare a scriverlo sul blog di Draghi o della Bonino, che tanto pari sono.

** Arriva Libra, ora Facebook batte moneta, La Repubblica, 19 giugno 2019. Non c'è link diretto perché è stato inserito sul sito del quotidiano come contenuto a pagamento. 

In memoria di tre quotidiani di partito: «l'Unità», «La Voce Repubblicana», «Liberazione», ovvero: tre casi di studio su una esperienza (fallita) di conservazione digitale

Il titolo è quello che ho scritto, lungo ma maledettamente necessario per descrivere quello di cui tratta la pubblicazione.
Dopo un anno e qualche mese dalla discussione della tesi di laurea magistrale, basata sulla memoria digitale di alcuni quotidiani nazionali che veniva - senza pochi giri di parole - 'presa e buttata via' in fasi delicate della vita dei giornali in mancanza di una normativa che obbligasse al deposito legale digitale, uscirà un saggio che ho scritto per il numero 59 della rivista «Culture del testo e del documento». 
Una pubblicazione che riprenderà, ovviamente, la tesi ma che tocca la sola questione dell'editoria di partito, aggiungendo «Liberazione» al novero dei due già trattati nella discussione.

Quando uscirà? 
A fine mese e, per chi volesse, sarà possibile comprarlo qui una volta pubblicato: https://www.vecchiarellieditore.it/?s=culture+del+testo+e+del+documento.




Nucleare, il deposito nazionale per le scorie è utopia o prossima realtà?

Torna il dibattito sul nucleare, sebbene non fosse mai sopìto del tutto nonostante la vittoria referendaria. Per stipare le scorie già esistenti occorrerebbe un “deposito nazionale”, parola dell’Isin

 
La questione legata all'energia nucleare torna a far parlare di sé. Per la verità il tema lo si è semplicemente accantonato e tenuto a distanza dall'opinione pubblica dall'ultima volta che si ebbe modo di tornare sulla questione del deposito nazionale delle scorie, Calenda consule. Si torna a parlare di nucleare perché è stato da poco aggiornato l'inventario dei rifiuti radioattivi italiani, il primo pubblicato, dall'Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin). E, soprattutto, perché nel 2025 Italia dovrà farsi carico dei rifiuti radioattivi che aveva spedito all'estero per far sì che fossero processati. Operativo da agosto 2018 l'Isin assorbe tutte le funzioni in materia di sicurezza nucleare e di radioprotezione già attribuite dalla legislazione nazionale agli enti che già erano presenti in Italia (Cnen, Enea, Anpa, Apat) e ad alcuni dipartimenti e laboratori riguardanti la radioattività dell'Ispra. Per fare il punto sulla situazione, abbiamo contattato due dirigenti dell'Isin: il Direttore Maurizio Pernice e il Direttore Vicario, nonché ingegnere nucleare, Lamberto Matteocci.

Rifiuti nucleari

«Il report sulla situazione dei rifiuti radioattivi che abbiamo pubblicato in aprile – ha commentato Pernice – è un documento che individua quantità e tipologie di rifiuti ma soprattutto dove sono collocati momentaneamente: ogni sito presenta delle problematicità diverse su cui dobbiamo intervenire, controllando l'operato della Sogin e degli altri esercenti affinché si possano implementare le misure di protezione, dal momento che ognuno di essi deve essere mantenuto e gestito in sicurezza».

Quando si parla di rifiuti radioattivi c'è sempre il rischio di non mettere a fuoco la questione principale della materia: stiamo parlando di scorie a bassa e/o media intensità che al momento sono depositate in quelle che erano le centrali nucleari e negli altri impianti connessi al ciclo del combustibile, un tempo attivi, come ha confermato Lamberto Matteocci: «La stragrande maggioranza di rifiuti radioattivi è collocata nelle installazioni nucleari spente da anni per le quali è in corso un processo di ‘decommissioning'», cioè a dire: arrivare a fare in modo di bonificare il sito «come se gli elementi radioattivi in quel luogo non ci fossero mai stati».

Cos'è contenuto in questi stabilimenti? Generalmente vi sono contenute tre tipologie di scarto radioattivo, come ha sintetizzato l'ingegner Matteocci: «Ci sono quelli che furono generati quando gli impianti erano in esercizio; ce ne sono alcuni di bassa attività che vengono generati per il mantenimento in sicurezza; ce ne sono altri, infine, futuri che verranno prodotti a partire dallo smantellamento», ovvero tutte le parti metalliche che andranno smantellate, per far sì che vengano decontaminate ed essere rilasciate dal sito, oppure confezionate come rifiuto radioattivo. Parlare di rifiuti radioattivi porta inevitabilmente con sé un problema politico: la materia è scottante e spesso anche solo avvicinarsi all'argomento può inevitabilmente far perdere voti a questa o quella forza politica al Governo. Anche perché la gran parte dei rifiuti nucleari italiani si trova oltreconfine, in particolar modo nel Regno Unito e in Francia, come ha spiegato Matteocci: «I rifiuti che sono all'estero dovranno tornare in Italia perché gli altri paesi offrono la propria tecnologia per riprocessare e trattare il materiale» ma tutto il rimanente dovrà tornare in quanto di proprietà del paese che li ha inviati. Anche perché: «In Francia la legge nazionale non prevede che il materiale inviato per il trattamento possa sostare in gestione o in smaltimento nel Paese: dopo aver trattato le scorie del Giappone e della Germania, ad esempio, Parigi rispedisce indietro quel materiale al mittente, una volta processato».

La questione del deposito nazionale unico

Vi è la necessità, secondo l'Isin, di un deposito nazionale unico: da un lato ci sarebbero le scorie che tornano al mittente dai paesi esteri, dall'altra la necessità di raggruppare in un unico impianto di smaltimento, realizzato ad hoc in un sito rispondente a criteri molto rigorosi, tutta la ”spazzatura radioattiva«. C'è da precisare che questo impianto non è affatto da comparare ad una discarica o ad una pattumiera: «L'impianto dovrà avere requisiti stringenti, avrà più livelli di sicurezza», precisano entrambi i dirigenti e «soprattutto sarà solo per i rifiuti di bassa e media intensità»,  mentre in un altro impianto dovrebbero essere stoccati in via temporanea i rifiuti ad alta intensità. Una condivisione necessaria del sito di Deposito nazionale, stando alla normativa, dal momento che per lo smaltimento dei rifiuti ad alta intensità è importante avviare un percorso condiviso: «dovranno essere collocati in un sito di smaltimento ‘geologico', come si dice comunemente, in profondità, per  il quale, in ragione dei limitati quantitativi di tale tipologia di rifiuti, è d'interesse per l'Italia la soluzione di un sito multinazionale, da condividere con altri paesi».

L'ipotesi del deposito nazionale è, tuttavia, subordinata alla pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) da parte di Sogin, senza la quale si parla in astratto: «È come se dovessimo organizzare una gita ma non abbiamo ancora deciso dove andare», ironizzano i dirigenti. Il Direttore Pernice tiene a precisare: «Nella fase di screening iniziale viene proposta una lista di aree potenzialmente idonee, per l'appunto, sottoposta alla verifica dell'ISIN – al momento è in corso l'ultima attività al riguardo - e il soggetto attuatore (Sogin) pubblicherà il documento dopo il nulla osta dei Ministeri competenti». Al momento, tuttavia, non c'è nulla di concreto in mano, benché Pernice e Matteocci siano piuttosto ottimisti sui tempi di pubblicazione.  

 


«Ma perché, è no stato 'a Corea?»

Dice: «Ma che me stai a dì?»
E dice: «Te giuro, mica sto a cazzarà»
Dice: «Ma che me rappresenta?»
E dice: «Ao, e mica te sto a dì na cazzata: esiste»
Dice: «Com'è che se chiama?»
E dice: «Corea, zì: Corea. N'hai m'hai sentito n cazzo de telegiornale?» Dice: «Ma sì, te pare, me dev'esse sfuggito. Corea… Te giuro n me dice gnente, Ma ndo sta?»
E dice: «Che?»
Dice: «Sta Corea, ndo sta?»
E dice: «Tra a Cina e 'r Giappone, se stanno sempre a pijà a pizze»
Dice: «Cor Giappone?»
E dice: «Ma no! Co la Cina»
Dice: «Ma pensa te»
E dice: «E te sto a dì»
Dice: «Ma da quant'è che se stanno a pijà a pizze? Ma dici che se stanno a sparà?»
E dice: «No è che ogni tanto ce sta er ciccione, coreano, che butta n missile e allora la Cina je risponne ma so scaramucce, n'è che se mettono a pijasse a pistolettate sur serio»
Dice: «Ma dimme te. Ao te giuro n sapevo gnente»
E dice: «Eh perché nu ssudi. Tipo, de Honk Hong che stanno a baccajà e fa macello pe strada o sapevi?»
Dice: «Sta sempre la vicino»
E dice: «Eeeeh più o meno»
 

Il seguente discorso, di natura evidentemente geopolitica, è stato udito da chi scrive e chi cura il blog in un bar di Torre Maura il 13/06/2019 ed è stato riportato nella sua interezza.

La paura delle formiche

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