L'esercito dei Lumia

Le belle foto storte e fatte male
Esulo dal politico e dal calcistico per un post in stile splinder di qualche anno fa, ormai.

Qualche anno fa sono passato da un iPhone 4S ad un Lumia (marchiato ancora Nokia) 735. L'impatto con Windows 8 fu a tratti devastante: applicazioni mancanti, programmi che andavano in crash molto più spesso del pur inadeguato iPhone 4S la cui batteria necessitava una carica ogni due ore e mezza.

Insomma, lì per lì pensavo di aver fatto una cavolata, ponderata poco e male. Il 735, in ogni caso, ho imparato ad apprezzarlo poco a poco, principalmente per due fattori: le mappe offline e la durata della batteria, due cose di cui l'iPhone era deficitario, sebbene se il 735 e il 4S fossero messi a confronto il Nokia ne sarebbe uscito decisamente con le ossa rotte.
Succede, però, che inizio ad affezionarmi ai Lumia, alla veste grafica in total black e a delle piccole risorse, benché molto nascoste, di questi dispositivi: dopo la dipartita, un po' precoce del 735, acquisto un Microsoft Lumia 650. Non regge molti aggiornamenti di Windows10 Mobile e allora, anche lui dopo un anno e mezzo devo, in un certo qual modo, rottamarlo definitivamente.

Mi capita fra le mani un Lumia 950: stabile e dalla batteria ottima e lo eleggo come telefono definitivo, nonostante le voci (e la triste realtà) dell'abbandono dei Lumia da parte di Microsoft.
Il divorzio fra Nokia e Microsoft ha portato alla nascita di 4 dispositivi (550, 650, 950/950XL) marchiati dall'azienda di Redmond i quali, tuttavia, non hanno futuro dato che dalle parti della Microsoft non hanno la benché minima intenzione di aggiornare le applicazioni più usate dai (pochissimi) utenti rimasti nel mondo Lumia. La disattivazione del canale YouTube che forniva supporto video per gli utenti è solo la punta dell'iceberg della miriade di app/cose-che-non-vanno
E allora, Lumia fino alla morte. Anche quando da Microsoft lo dichiareranno abbandonato o annunceranno la fatidica fine del supporto o cose così. 

La "Nuova Repubblica" pensa a te. A te, che sei lì di fronte l'idrante.

La Nuova Repubblica si fonda su basi solide. Ha radici profonde: Ogni anno, infatti, ci premuriamo di far capire ai cittadini che non bisogna festeggiare feste retrograde e antiche come quelle del 25 aprile. Il passato va tutelato, va studiato, ma va analizzato e preservato come si fa con quelle colonie di uccelli che altrimenti si estinguerebbero. Non va data importanza alle ricorrenze di cui bisognerebbe giustificarne il senso. Noi, o meglio,  la nuova repubblica deve costruire il  nuovo immaginario collettivo attorno a sé. Deve mostrare la propria operosità nei confronti del futuro. Bisogna guardare avanti, e guardare avanti significa inesorabilmente voltare le spalle a quel-che-è-stato.
È passato, niente di più.
Ecco perché ogni anno abbiamo pensato di istituire un giorno, che chiameremo della libertà, che casualmente coincide col 25 aprile vecchio, quello che si festeggiava a Porta San Paolo, e lo celebreremo con le autorità, al Portico d'Ottavia, al Ghetto, insieme alla Comunità Ebraica.
Insieme. Non bisogna essere divisivi, come era il vecchio 25 aprile, quando si andava in piazza (concetto antichissimo!) in cui si andava col fazzolettone dell'Anpi e magari pure a sfoggiare una delle tante bandiere rosse.
I cosiddetti  repubblichini sono uomini tanto quanto i partigiani. Ma ora chi è più repubblichino o partigiano? Siamo uomini. E gli uomini vanno avanti, non voltano le spalle al prossimo.

La Nuova Repubblica guarda al futuro: È bene far vivere la legalità prima di tutto. Legalità per chi se la merita e giustizia per chi se la può permettere. Dunque se sei un rifugiato a cui qualcuno, malelingue, dice che avremmo dovuto pensare a te e invece di aspettare che lo stato agisca si mette a occupare palazzine, ebbbene la legalità arriverà pure per te o per lui che ascolta o legge questo messaggio.
Un sacco di legalità, tantissima legalità.
In faccia, sulle spalle, a suon di manganelli.
Legalità.

La Nuova Repubblica è sana e non è collusa coi poteri forti. Ogni anno infatti andiamo a confronto, in un meeting a Rimini, con le parti più nobili della società italiana. Il volontariato cattolico e la cattolicità tutta risponde sempre affermativamente alla cooperazione Stato/volontariato.
Spirito, riforme; sindone e Costituzione nuova, alla fin fine la storia è la stessa. Bisogna solo mettersi d'accordo sui termini. Niente di più.

La Nuova Repubblica sostiene il lavoro. Lei per esempio, che lavoro fa? Il giornalista? Bene: Si è appena liberato uno dei 300.000 posti annunciato dal Governo, e poi dica che non la pensiamo. Proprio da giornalista, sì: Serve un aggiornatore di contenuti a ilcavalloquotidiano.it: il lavoro è strutturato su turni da 6 ore al giorno, 20cent a riga massimo duemila battute sennò la gente non legge. Mo te pare che stanno pure a legge, metti un bel titolo tipo "Ucciso mentre strigliava il cavallo prima della corsa" però poi parli do tutt'altro, senno come ti pago? Io ti pago in visualizzazioni mica a carezze o coi soldi miei! Ci pensa Google!

La Nuova Repubblica pensa a te.
A te, che sei lì di fronte all'idrante.

Il «Truman Show del comunismo» e la paura del diverso. Quella vera.

fonte:
http://www.earthnutshell.com/100-photos-from-north-korea-part2/
Pagina 99 di questo mese, nell'edizione speciale estiva, dedica due pagine ad un reportage di Alessandro Albana sulla Repubblica Democratica Popolare di Corea o, più comunemente, Nord Corea. Le due pagine scritte dal corrispondente si leggono velocemente e l'occhio non troppo attento non presta attenzione a quello che è stato riportato. Nei due box, situati nel taglio alto della seconda pagina, l'autore specifica diverse cose che non ha avuto modo di trattare nell'articolo, tuttavia si tratta dei soliti luoghi comuni che l'Albana riporta, contraddicendosi anche in due casi. 


In Cose da Sapere, l'autore cade nella solita retorica anticoreana in cui già qui si smontavano tutte le bufale (termine molto in voga in questa fase storica) riguardo la Repubblica Democratica Popolare di Corea.  Il giornalista, infatti, scrive che il sistema del turismo è già attivo dagli anni Novanta in Nord Corea e che «per individuare nuovi tour operator è sufficiente una ricerca sul web»: nel corpo dell'articolo, però, afferma: «[...] Il tutto mentre a Pyongyang i telefoni cellulari sono oramai molto diffusi: nonostante l’accesso a internet non sia permesso, si tratta di un’altra novità significativa in un contesto in cui, fino a pochi anni fa, possedere e utilizzare i cellulari era vietato».
Se l'accesso ad internet non è permesso, risulta difficile immaginare un confronto fra tour operator da remoto.  Questa, insomma, è una delle tante menzogne sulla Nord Corea. In un articolo, uscito su La Riscossa di qualche mese fa, scrivevo come Yeonmi Park, a proposito dei detrattori nordcoreani che demonizzano il loro paese di nascita all'estero e in occidente, avesse affermato in un popolare video registrato in un evento internazionale, di una Nord Corea «in cui sarebbe «negato il diritto allo studio» («non ci sono biblioteche»), il diritto all’informazione («non ci sono giornali») in cui è presente «un solo canale TV», «non c’è internet» ma, soprattutto, non si possono vedere film di Hollywood. Pena, violenze fisiche, corporali, sessuali, financo la morte. Si potrebbe rispondere linkando il sito dell’Ateneo dedicato a Kim Il Sung per rispondere alle illazioni della Park: non ci sono biblioteche, è negato il diritto allo studio, non c’è internet eppure esiste un sito internet che contiene tutte e tre queste cose: http://www.ryongnamsan.edu.kp/univ/switchlang?lang=en».

Leggi di più: Corea del Nord e dissidenti: la controversa storia di Yeonmi Park

Si potrebbe continuare per ore contestando una per una le menzogne (o, come forse in questo caso, le notizie aprioristicamente accettate) riportate anche da Albana («meglio non portare la Bibbia») anche se in modo più sottile e diluito, pur tuttavia, la questione davvero centrale, almeno a parere di chi scrive, è quella del Truman Show del comunismo. Titolo del reportage e conclusione, sostanzialmente, dell'articolo dell'Albana: «[...] Dagli hotel, Pyongyang è uno sfondo semibuio e lontano. So che in passato, qualcuno ha provato a lasciare l’albergo, di notte e senza le guide, per indagarne il mistero o per banale curiosità.
I tentativi sono sempre falliti e l’audacia ricondotta entro i confini degli spazi percorribili. Pyongyang rimane una città in controluce, misteriosa, inafferrabile. Lasciarla non basterà a scrollarsi di dosso la sensazione di essersi mossi dentro uno spazio in cui è difficile distinguere tra ciò che è reale e ciò che non lo è.».

Pyongyang - Capitale della Nord Corea
Un Truman Show in cui l'autore dell'articolo è disorientato e in cui è "difficile" (forse l'Albana sottintendeva anche impalpabile) distinguere fra reale e irreale, senza analizzare troppo (o per niente) la totale differenza che intercorre fra l'occidente capitalista e l'oriente, in particolar modo di un paese (la Corea del Nord) che non ha intrapreso la strada della globalizzazione e della finanziarizzazione selvaggia,  i cui mezzi di produzione appartengono ai lavoratori. Di un paese, dunque, di cui si ignorano i sistemi produttivi e i diritti sociali di cui gode la popolazione. Paragonando, il tutto, semplicemente sovrapponendo "realtà europea-liberista" e "realtà coreana-dittatoriale". Liberismo, di cui, però, gli "europei" ben conoscono disumanità e criticità. 
La paura del diverso, in sostanza, passa soprattutto attraverso il rifiuto di analizzare acriticamente quello che è realmente la Nord Corea dando credito a notizie non verificate, accettate aprioristicamente, e facendo credere che sia un Paese popolato da una massa informe di sudditi che vuole fermamente la guerra contro gli USA.
Ignorando, ad esempio, tutte le violazioni ONU e gli schiaffi (metaforici e non) degli USA al processo di pace nell'area coreana (Leggi: Il "Consiglio mondiale per la pace" condanna le sanzioni e le minacce contro la Corea del Nord).

"Not my Europe" de che?

Da qualche mese a questa parte campeggia una cornice per le immagini del profilo di Facebook e una in particolare mi ha incuriosito, tanto per il messaggio quanto per il modo in cui esso veniva trasmesso. 
Lo slogan è Not my Europe, ed è stata divulgata inizialmente dall'ONG Medici Senza Frontiere che ha promosso, lo scorso 25 marzo, la manifestazione a cui avevano aderito svariate associazioni e partiti (dalla FIOM a Radicali Italiani, da settori di Rifondazione Comunista ad A Buon Diritto, da Antigone alla Gioventù Federalista Europea).  (*). La bandiera europea è rappresentata ondulata, come il Mediterraneo, teatro di dibattiti circa sbarchi e salvataggi e da una sorta di filo spinato intrecciato (un po' come la corona di spine del Cristo) anziché dalle stelle dei soggetti fondatori dell'UE. Di lato campeggiano, poi, le scritte: no blocchi, no muri, no accordi disumani. Il filo spinato è, dunque, chiaramente un rimando a quel che è stato fatto precedentemente dal governo ungherese e dal famigerato Orbàn, pur tuttavia può essere allusivo, come prima ipotizzavo, tanto della corona di spine (sofferenza, costrizione), quanto della delimitazione propria di un'area militare (forza e rispetto delle leggi attraverso di essa).
Mi ha incuriosito, più di tutte, la questione del not my Europe in senso negativo ma implicitamente positivo che l'immagine porta con sé.
Mi spiego meglio. Affermare, come migliaia di utenti stanno facendo, apponendo l'immagine in questione sovrapposta alla propria foto-profilo, porta con sé innanzitutto il significato contrariato e contrariante nei confronti dell'Europa: il filo spinato al posto delle stelle nella bandiera e le scritte no muri, no blocchi, no accordi disumani.
Questa prima individuazione (l'apporre il Not My Europe sulla foto del profilo) potrebbe far pensare che la contrarietà di quelli che la sfoggiano sia totale, cioè a 360° e siano, dunque, contrari ai Trattati Europei, alla globalizzazione, al liberismo, al profitto e a tutto quel che consegue il porsi di traverso alle cose sopracitate.

Come ho detto prima, però, il Not My Europe, è implicitamente positivo, nonostante l'apparente negativitàNot my Europe, ovvero Non la mia Europa, implica un'accettazione della sovrastruttura economica attraverso quel mio, my (dato che non è certamente politica, ricordate il leitmotiv del «bisogna fare l'Europa politica anziché quella economica»?). Quel mio è un riferimento ad una sfera personale e privata che, nel momento in cui si associa ad una tematica nazionale o sovranazionale come quella dell'Unione Europea (e delle sue politiche riguardo l'immigrazione), si affianca a quella che è la tematica nazionale (mia nazione -  non la mia nazione / mia europa - non la mia europa). Affermare, dunque, not my Europe implica necessariamente un my Europe la cui definizione non è chiarita dai sostenitori dell'appello, della manifestazione e della campagna social. In sostanza: se il not my Europe viene esplicitato nelle tre affermazioni no muri, no blocchi, no accordi disumani, non è manifestato il my Europe. Si fa presto a dire l'Europa dei Popoli condita da un riferimento ad sensum di Spinelli, Rossi e Colorni.
Ma non è con un riferimento tale (a quale edizione degli scritti di Ventotene ci si fa riferimento? la questione sarebbe da approfondire) che ci si può liberare dell'affare.


(*) Si tralascia, in questa sede, il dibattito circa la questione ONG.

Sibilla "AleraNo"

Frequento la costa abruzzese da quando sono nato: i miei nonni materni hanno abitato a lungo a Pineto, prima di trasferirsi a Torre Maura (quando Via dei Pivieri era niente di più che una strada di campagna), mantenendosi la casa al mare come seconda casa. Ho percorso le strade dell'agglomerato urbano (il Quartiere dei Poeti) di poco precedente il centro di Pineto in lungo e in largo, a piedi, in bicicletta e in macchina.

I nomi delle vie del quartiere sono intitolate a poeti e scrittori italiani di ogni epoca e più volte mi sono imbattuto in via S. Alerano. Con la n
Non è mai stata cambiata, e sì che la AleraNo è nota quantomeno a qualsiasi studente (liceale e non), non foss'altro per la citazione di Una donna nella sezione di letteratura contemporanea. 

Per dimostrarvi che non sto bluffando, riporto qui uno screenshot di Google Maps di Via Sibilla AleraNo e due, impietosissimi, suggerimenti di Ecosia (un motore di ricerca alternativo a Google), successivi all'infelice ricerca di Sibilla Alerano.

Il comune di Pineto, negli ultimi vent'anni, ha fatto dei passi in avanti enormi: il suo sviluppo è stato direttamente proporzionale allo sfacelo di Roma. Tuttavia, la strada intitolata a Sibilla AleraNo potrebbe anche essere cambiata: un po' di rispetto per la letteratura italiana contemporanea non guasterebbe.

«Volevi dire Salerno

Sibilla Aleramo?

Perché il referendum su Atac non s'ha da firmare

fonte: https://hiveminer.com/Tags/atac%2Cbus
Radicali Italiani, per la proposta di referendum cittadino sulla messa a gara del servizio di trasporto pubblico a Roma, deve raggiungere la quota di 30.000 firme da raccogliere entro oggi (il 9 agosto, infatti, è il termine ultimo per firmare). Il referendum si propone di «togliere il monopolio ad ATAC riguardo la gestione del trasporto pubblico»; per invertire la rotta, secondo il sito mobilitiamoroma.it, creato ad hoc da Radicali Italiani, «occorre mettere a gara il servizio affidandolo a più soggetti, rompendo il monopolio e aprendo alla concorrenza. Le gare stimolano le imprese, pubbliche o private che siano, a comportarsi in modo virtuoso, e l’apertura alla concorrenza introdurrebbe anche forme più moderne e innovative di trasporto». Sull'ultima, riguardo le moderne e innovative forme di trasporto, si potrebbe anche discutere ma sempre stante l'affermazione: ci vuole poco, se il raffronto è ATAC. Sull'affermazione precedente è bene riflettere un po' di più: le gare dovrebbero stimolare le imprese, pubbliche o private, in modo virtuoso. Le cronache di tutti i giorni  e provenienti da tutt'Italia forniscono esempi contrari: gli appalti truccati, le gare finte, sono una costante italiana per far mangiare amici di amici (leggi: favoriscono meccanismi di tipo clientelare) su questo o quel settore esternalizzato dal pubblico. 
La questione principale che mi fa essere anti-referendum è che i romani già conoscono gli effetti della privatizzazione del servizio di trasporto pubblico: Roma TPL ne è un chiaro esempio.
Le linee gestite dalla TPL, azienda privata che dovrebbe supplire al lavoro svolto (male) da ATAC, fornisce un servizio ancora peggiore di quello della municipalizzata in questione. Senza contare, questione primaria in realtà, che gli stipendi dei lavoratori di Roma TPL arrivano a singhiozzo a fronte di turni massacranti. La stessa ATAC e TPL, nel 2013, razionalizzarono (leggi: tagliarono) molte linee periferiche perché alcuni autobus passavano con zone a bassa densità abitativa: quando nel 2013, personalmente assieme ad un gruppo di cittadini, chiedemmo spiegazione delle linee tagliate al Municipio VI e ad ATAC, l'azienda dei trasporti ci rispose, in una missiva, che alcune autolinee erano gestite da altra azienda (pofferbacco, TPL, un privato!) e che altre furono instradate al fine di un servizio maggiore. (Tralascio qui la polemica da grammar nazi sul termine instradato, anche se sarebbe decisamente interessante.)

In sostanza, Radicali Italiani sta cercando un minimo di visibilità attraverso la proposta di referendum su ATAC dato che il Piano Tronca già prevede la messa a bando dei servizi pubblici a partire dal 2019. Niente di più.

Il "piano Tronca"

Il problema, infatti, sta tutto qui: a partire dal 2019 scade il contratto che lega la gestione del trasporto cittadino ad ATAC ed è difficile pensare che ci possa essere una proroga da parte delle istituzioni locali: la direttiva Bolkenstein (cui Radicali Italiani ha espresso il proprio sostegno dato che trattasi di movimento "liberale, libertario, liberista") ha imposto la privatizzazione dei servizi pubblici che dovranno progressivamente essere affidati a gestioni private. L'affidamento del trasporto cittadino, sic stantibus rebus, dovrebbe essere deciso tramite bando (la proposta di Radicali Italiani), il quale prevede che vengano assegnate sulla base di condizioni che vengono offerte sulla carta ma che spesso si traduce nella seguente affermazione peggiori condizioni per i lavoratori dell'azienda
Si fa un gran parlare, infatti, dei lavoratori ATAC: so' stronzi, te chiudono le porte n faccia, tanto loro nu li cacciano ché c'hanno r posto fisso e quant'altro, tuttavia ci si dimentica che attraverso le assunzioni della giunta Alemanno fu proprio il numero degli autisti a diminuire in relazione a quello dei dirigenti dell'azienda. Dire che l'Atac fa schifo per colpa dei lavoratori è ridicolo e risibile. Andare oltre la dicotomia lavoratore/cittadino è, infatti, necessaria per la comprensione della situazione di ATAC e del trasporto locale.

Esternalizzazioni

La privatizzazione di alcuni settori di ATAC arriva da lontano: tra il1994 e il 1996, Rutelli consule, iniziano le esternalizzazioni delle pulizie, passando per il 2003 in cui vengono privatizzate ed affidate alla Corpa i servizi di manutenzione e recupero delle vetture guaste. La questione della Corpa è paradigmatica: i dipendenti dell'azienda in questione ogni mese sono costretti a presidiare la sede di ATAC in Via Prenestina per fare pressioni affinché venga versato loro lo stipendio. 

La privatizzazione e l'esternalizzazione dei servizi pubblici, infatti, porta solo: peggiori condizioni salariali per i lavoratori, compressione dei diritti, taglio delle unità lavorative (nuova perifrasi per non dire lavoratori/operai).

Le Danze di/a Piazza Vittorio

Qualche anno fa ho abbandonato lo studio dell'organetto per dedicarmi più totalmente allo studio, per cercare di finire in tempo triennale e magistrale e, a parte il semestre in più che ho impiegato per la prima, direi che ci sto riuscendo. L'aver tralasciato l'organetto è stato abbastanza doloroso, non tanto perché non studiassi più brani da suonare o perché - materialmente - non andassi più a lezione. 
È stato triste perché mi ha fatto progressivamente distaccare, anche a causa di agenti esterni poco felici, dalle Danze di Piazza Vittorio. Prima era un gruppo di gente che voleva animare il parco della Piazza, tuttavia, man mano che i giorni e i mesi passavano, cominciò a prendere la forma di una vera e propria compagnia. Suonavamo e partecipavamo alle più disparate iniziative in cui venivamo chiamati a suonare. Siamo diventati Associazione e ho il privilegio di risultare fra il gruppo di soci fondatori.
Oggi, dopo circa due anni e spicci (*), sono tornato a suonare a Piazza Vittorio con Le Danze.

E sono felice. 

(*) misà che sono anche di più di "due e qualcosa", forse anche "tre e qualcosa"




«Non eravamo solo uomini: eravamo uomini, compagni, amici e fratelli»

Mi capita sempre più spesso, negli ultimi tempi, di prendere la Metro C, nonostante sia sostanzialmente inutile o prossima all'inutilità. Lo scambio con l'autobus 51, in ogni caso, non è poi così malvagio, in attesa che diventi utile e che incroci la linea A a San Giovanni. 
Mi metto le cuffie, salgo a Torre Maura. Isolarmi dai discorsi che sento sulla metro, nonostante siano d'ispirazione notevole per Discorsi da bar, ultimamente mi infastidiscono. 
Salgo sul treno in direzione Lodi e procedo verso i vagoni iniziali e mi siedo tra un signore anziano e una signora anch'ella con cuffie ben salde dentro le orecchie. Il signore a fianco a me legge un giornale, uno di quelli che danno sui mezzi di trasporto. La musica mi ovatta e mi esclude tutto il mondo circostante ma quel signore alla mia sinistra vuole parlare con me: vedo che mi rivolge la parola, dunque mi levo prima una e poi l'altra cuffia. «Posso farle una domanda? Scusi. 
La disturbo?», dice cortese. L'accento, i denti d'oro tradivano una provenienza est europea, forse ucraino, pensavo inizialmente. «Certo, mi dica, non mi disturba». Il tizio indica col grosso indice della mano destra il minuscolo distintivo che ho attaccato sullo zaino ormai dal 5º ginnasio: «quel distintivo ce l'avevo anche io tanto tempo fa. È quello del Komsomol, sa cos'è?»
Mi si illuminano gli occhi: «Certo - rispondo - l'ho messa ormai un po' di tempo fa.. Ce l'aveva anche lei?»


Emblema del Komsomol
«Beh sì, tutti facevano parte del Komsomol: l'organizzazione liceale comunista. I più piccoli erano.. Come si dice... Figli di Ottobre "Oktoberskaja", poi i Pionieri i "Pionerskaja" e poi c'era il Komsomol. Facevamo un sacco di cose e ne apprendevamo altrettante. Era un bel periodo. Ero comunista, tutti lo erano..» e le sue rughe sul volto facevano trasparire un poco di amarezza e di tristezza per "com'erano andate le cose”. Le fermate passano veloci una dopo l’altra, dobbiamo andare entrambi al capolinea, parliamo ora del più e del meno: mi indica il giornale che sta sfogliando polemizzando: «Sei giornalista? A proposito di giornali: qui questo giornale si fa bello perché dice sono aumentati i controlli sui mezzi pubblici e che ci sono molte più multe per chi non paga, ma come si fa a scrivere così? Io non ho mai visto un controllore e se ci sono, certo, magari qualche multa la faranno anche ma poi vengono pagate? E certo, non vengono scritti questi dati»
Scendiamo a Lodi, gli tendo la mano per presentarmi: Valentino, lo pronuncia all’italiana. 
«È studente?», continuando a darmi del lei. «Sì, studente universitario», faccio io. 
«Auguri, buona fortuna - dice - anch’io ero studente universitario, mi sono laureato e sono diventato preside di un liceo» ma dal 2000 è qui in Italia e ha fatto i più disparati mestieri, muratore in primis, come tanti dell’est Europa prima e dopo di lui. 
Mi chiede di cosa mi occupassi, gli rispondo che mi occupavo anche di sport e che recentemente ho scritto un libro con un collega che parlava di Yashin e del calcio nel comunismo. 
«Yashin...», gli occhi si illuminano. «Quello era calcio.. ma quello di adesso ti sembra calcio? A me sembra uno schifo..».

Gli indico dove si prende il 51, autobus che devo prendere anch’io per andare alla conferenza dove sono stato incaricato d’andare. Ci mettiamo a parlare di Chechov, Dostoevskij, Gogol e dopo un momento di silenzio, mi fa: «Sai cos’è che rendeva saldo, stabile, vivo, il comunismo? Non come qui, questa società... come si chiama.. capitalismo!», dice dopo un secondo di incertezza.
«La convinzione che rendeva saldo il sistema, che era realtà, era che l’uomo, nei confronti di un altro uomo, era compagno, amico e fratello. Quando c’era il comunismo da me, in Moldavia, ci dicevano che nel capitalismo l’uomo era lupo per un altro uomo (homo homini lupus) e, davvero, non riuscivo a comprendere questa frase. Ora è dal 2000 che sono qui e ho capito perfettamente»
«Certo - ormai è un fiume in piena - dopo la caduta del comunismo la gente si diceva che era felice ma chi lo era? Era felice era solo quella che prima aveva soldi e doveva - per forza di cose - mettere al servizio del paese quello che aveva. Io ero molto triste, sinceramente. Guadagnavo poco, quando lavoravo, però prendevo dei soldi. Avevo anche borsa di studio e casa, da studente. Tutto. I giovani qui non hanno nulla»
Scende dal 51 e lo saluto rammaricandomi un poco: «Do svidanija, tovarich», scandisce scendendo lo scalino, «spero di rivederti presto! Auguri per tutto»
E se ne va. 
Il socialismo era davvero come l’universo: in espansione.

Di notizie "super partes" e di cugini venezuelani.

La democratica opposizione venezuelana.
Democraticissima, come direbbe - parafrasandolo - De Sica
a proposito dei delicatissimi fusilli della madre.
Solitamente non amo commentare lunghi post su Facebook in cui si dibattono argomenti intensi e densi di attualità, siano essi di politica interna o internazionale. Uno, però, ha attirato la mia attenzione e, sfortunatamente, ha visto anche la mia partecipazione. Sono fuggito, ovviamente, dopo mezz'ora di commenti infuocati, in cui il mio ruolo era nient'altro che quello di mettere ordine tra le falsità di quello che veniva scritto: considerazioni pensate troppo in fretta ed emesse dalla bocca con ancora più velocità di quanto pensate. 

La questione era spinosa, ancora una volta, un post sul Venezuela. Stavolta, tuttavia, si trattava di un direttore di un giornale locale la cui posizione era, sostanzialmente, già espressa dall'immagine del profilo la cui bandiera venezuelana campeggiava sopra la sua testa. Il post, sostanzialmente, si chiedeva se fossero proprio sicuri tutti quelli a sinistra che sostenevano Maduro e il governo del PSUV perché i brogli erano stati accertati, le violenze della polizia erano solo a danno della popolazione civile e il direttore, che si dichiarava di sinistra, non poteva che porsi qualche dubbio a riguardo. 

Nei commenti, sempre più flame più che commenti pacifici, il direttore del giornale ha posto la seguente domanda: mi pongo delle domande, non ho granitiche certezze sul da che parte stare; alcuni miei amici venezuelani mi hanno riferito cose pessime e non ho notizie super partes da cui attingere». 

Come al solito, faccio sempre come i cornuti e alle cose ci penso dopo, come diceva la mia prof. di latino e italiano. Se il cruccio del giornalista in questione era quello della mancanza di notizie super partes non avrebbe dovuto minimamente credere acriticamente a quelle che sono le notizie trasmesse da parenti o amici che vi abitano. Un esempio è presto fatto: un amico di famiglia è italo venezuelano, negli anni 60 i suoi genitori decisero di  emigrare a Caracas, come accadde a molte famiglie abruzzesi. Questo tizio, poi tornato e stabilitosi in Italia, non ha avuto esitazione, già qualche anno fa, di dirsi antichavista e tutto quel che comportava questa sua presa di posizione. La sua tesi era che suo fratello, dirigente di banca, piangeva tutte le sere perché Chavez (quando era ancora vivo) avrebbe messo un tetto agli stipendi più alti di imprese e banche private. Tale disposizione, di cui non ero né sono a conoscenza ma verosimile, non  permetteva a questa persona di accedere ad uno stipendio in linea coi dirigenti americani (circa 3.000 dollari). Gli ho risposto che era una norma di civiltà, che non potevano esistere delle persone che sfruttassero delle altre solo in virtù del loro stipendio. Mi rispose che i chavistas erano una casta e che se eri del PSUV avevi accesso a tutte le cose gratuite e a tutte le altre no, come scuola, sanità e cose simili.

Quest'ultima è una sonora panzana, tuttavia se detta dallamamma/dalnonno/dalcugino/dall'amicodelfratellodellozio, assume i toni di una verità incontestabile perché: lui ci abita, lui ci vive, sa che succede, noi non sappiamo

Così come il non avere notizie super partes si porta con sé un altro strascico di considerazioni non molto edificanti per colui che l'ha scritto: un tempo le notizie super partes erano dispacci governativi, agenzie stampa e così via. Adesso, dal momento che la situazione in questione porta con sé un carico di polemiche senza fine, le notizie super partes diventano le agenzie stampa di altri paesi che hanno già espresso aprioristicamente una posizione negativa su questo o quel processo politico che accade in Venezuela.

Ecco, dunque, che cade il mito dell'attendibilità della notizia prodotta dalla stampa estera
TeleSur, a tal proposito, mostrava come il giorno della votazione per la Costituente i grandi giornali europei e statunitensi affermavano come In Venezuela si stesse per calare il sipario sulla democrazia, quando poco tempo prima delle votazioni farsa, le cui testimonianze di inquinamento del voto sono state documentate e registrate, registravano il parere opposto da parte di quegli stessi quotidiani. 

Ho terminato con i commenti sintetizzando che si stava andando fuori dal seminato, dato che mi venivano attribuite frasi da me mai scritte; ho provato a spiegarmi ma come al solito non ci sono riuscito. 

O, forse, l'interlocutore b non aveva la benché minima voglia di stare ad ascoltare, dato il flame che ha messo in piedi, con commenti ogni secondo e accuse a destra e a manca. La predisposizione d'animo di entrambi deve essere una condicio sine qua non, altrimenti chi reprime è chi non ascolta. 

Venezuela for dummies

Da qualche anno a questa parte mi sono particolarmente interessato alla cosiddetta questione venezuelana. In Italia si ha una percezione completamente distorta di quello che è il sistema politico, economico e sociale del paese latinoamericano in questione.
Nel 31 marzo 2014 (dunque 3 anni fa) ho avuto modo di scrivere su Lindro.it un articolo abbastanza dettagliato che andava a destrutturare tutte le menzogne della propaganda occidentale e imperialista sul Venezuela riguardo le proteste e le guarimbas.
L’articolo risultò essere un po’ lungo, pertanto, alla luce di quanto accaduto recentemente, ho deciso di intraprendere lo stesso percorso che mi ha mosso tre anni fa strutturandolo tuttavia in maniera più snella.
Un Venezuela for dummies, per l’appunto, che mira a destrutturare 4 affermazioni tra le più comuni. Credenze, in questo caso. L’ultima, la quarta, è stata inserita all’ultimo per estrema necessità per contrastare le narrazioni tossiche di queste ore.

Prima affermazione:

«In Venezuela non ci sono elezioni. Se ci sono, sono controllate dal Governo»
Falso. Una delle più grandi menzogne a riguardo è stata declamata da Giovanna Botteri, direttamente dalla roccaforte newyorkese in cui risiede la giornalista RAI.
La giornalista, nel servizio mandato in onda il 10 marzo 2013 alla morte di Hugo Chavez Frias e a tre giorni dalle elezioni che avrebbero eletto Presidente Nicolàs Maduro, affermò che quelle che si stavano per tenere nell’aprile del 2013 fossero le prime elezioni in 20 anni.
In realtà, di elezioni, nei vent’anni di Venezuela bolivariano, se ne sono tenute 19 di cui due perse dai chavistas. ‘El Paìs’, quotidiano spagnolo primo nella produzione di disinformazione riguardo il Venezuela, nei primi mesi del 2014 affermava come «Il Venezuela ormai non è un paese democratico». Peccato però che Salim Lamrani (Docente alla Sorbona di Parigi e all’Università di La Reunion) abbia affermato che «si siano svolte 19 consultazioni popolari dal 1998 e che i chavistas abbiano vinto 17 di queste elezioni che tutti gli organismi internazionali, dall’Organizzazione degli Stati Americani fino all’Unione Europea passando per il Centro Carter, hanno giudicato trasparenti». In realtà, molte municipalità delle regioni confinanti con la Colombia (come il Tàchira) sono governate dall’opposizione.
In questi giorni, dunque, in cui imperversa la propaganda pre e post Constituyente, spegnere la televisione è un atto rivoluzionario.
Si è scritto, e si continua a diffondere, delle falsità totali. S’è scritto davvero la qualunque, per citare indirettamente il politico calabrese interpretato da Antonio Albanese.
A tal proposito, TeleSur, mentre migliaia di persone andavano a votare per la Constituyente, forniva esempi di come le notizie venivano manipolate dalla stampa occidentale.
(traduz: «I media egemonici cercano di screditare l’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) e il Presidente del Venezuela») 

La quasi totalità dei portali online di quotidiani occidentali (ispanfoni, anglofoni e italianofoni), titolavano come Maduro stesse tentando un golpe facendolo passare come Assemblea Costituente e che la democrazia, sostanzialmente, fosse ormai sepolta.
El Mundo, ad esempio, titolava: «Maduro tenta un altro colpo di stato e annuncia un’assemblea costituente». El Pais, allo stesso modo, bollava l’Assemblea Nazionale Costituente come una modalità scelta da Maduro per liberarsi dell’opposizione.

Seconda affermazione:

«Il Venezuela è una dittatura, non c’è democrazia»
Falso. In Venezuela, a partire dalla presidenza di Hugo Chavez, si è attuato un processo di cambiamento radicale dello Stato (bolivarismo) Pur con decine di cose che non vanno, si sono introdotti elementi di socialismo nel sistema venezuelano. Uno Stato non si cambia per decreto: 20 anni, nel corso della Storia di un Paese sono relativamente pochi.
L’era chavista si aprì con la nazionalizzazione dell’industria petrolifera, ovvero, far sì che i proventi dell’estrazione del petrolio venezuelano non finissero nelle mani delle varie Petrobras, Repsol etc etc andando a creare la società PDVSA (Petròleo de Venezuela SA). I profitti della nazionalizzazione del petrolio hanno fatto sì che si potessero avviare le misiones sociales, ovvero, le riforme sociali che ben conosciamo: assistenza sanitaria gratuita per tutti, costruzione di 1.700.000 (un milione e settecento mila) case popolari, accesso gratuito a scuola e università. Questo, solo per citare alcuni esempi. Nei primi anni del nuovo millennio, proprio a causa della prima ondata nazionalizzatrice, ci fu un golpe sostenuto dagli USA, per rovesciare il governo di Hugo Chavez e ripristinare lo status quo.
La democrazia liberale, in Venezuela, esiste: «l’architrave dello stato liberale è stato mantenuto», come ha detto la giornalista Geraldina Colotti, intervistata poco prima dell’elezione dell’ANC (Assemblea Nazionale Costituente), dunque, verrebbe da collocare tale Paese nell’alveo della socialdemocrazia, come ha chiarito Alessandro Mustillo (Partito Comunista, già candidato sindaco a Roma lo scorso anno): «Definire l’orientamento politico del PSUV (Partito Socialista Unito del Venezuela) sinceramente “socialdemocratico” potrebbe sembrare una bestemmia, se si considera ciò che oggi è divenuta la socialdemocrazia ufficiale. In realtà il chavismo è una forma moderna di una reale, originaria, socialdemocrazia, o come diceva Chavez di democrazia socialista, che recupera le più autentiche e originarie visioni di sinistra della socialdemocrazia, lì dove oggi la socialdemocrazia ufficiale è del tutto passata nel campo dell’imperialismo. Ma il fatto che la nostra socialdemocrazia si sia spostata su posizioni apertamente filo-imperialiste non rende la visione socialdemocratica, priva dei suoi limiti storici, non può promuoverla automaticamente a esempio, al punto da teorizzarla nella forma del “Socialismo del XXI Secolo”».

Terza affermazione

«La gente non ha accesso ai beni di prima necessità»
Falso. Per rispondere a questa affermazione, mi limiterò a riportare quanto detto dalla Colotti nell’intervista che ho realizzato per La Riscossa il cui link ricorre spesso in questo testo.
«Innanzitutto il sistema di distribuzione (alimentare) non è nelle mani statali ma private. O meglio, la piccola produzione agricola, quella che fa mettere insieme più agricoltori formando una cooperativa ha una sua distribuzione, facendo vendere ai mercati la propria merce, quando questo non può avvenire per un motivo o per un altro, si deve ricorrere alle grandi compagnie di distribuzione. Ne esistono di statali ma sono la minor parte rispetto alla quasi totalità che è in mani di privati. Si è verificato di tutto, come si può ben immaginare, dalle tangenti agli “accaparramenti”: per anni i grandi trafficanti andavano a rifornirsi dai produttori, compravano tutto l’acquistabile e vendevano i prodotti al mercato nero a prezzi maggiorati. Un po’ come è accaduto in passato col petrolio al confine con la Colombia, nel Tàchira: fare il pieno per un SUV in Venezuela costa quanto comprare una bottiglietta d’acqua dunque immagina quanto poco ci si mette ad andare avanti e indietro alla frontiera per svuotare i distributori venezuelani. […] Lo stesso discorso è stato fatto con il cambio dollaro/bolivar: c’è un sistema parallelo, basato su un sito che si chiama dolartoday.com che perverte l’economia. Tale sito, basato a Miami, fornisce dei falsi parametri per il cambio dollaro/bolivar, tant’è che nel sito c’è espressamente scritto “Càmbio y valor de el dolar paralelo” che perverte e deprime l’economia, come ho detto. […] Il Venezuela, deve far fronte ai prezzi del mercato ma non per questo fa pagare questa crisi indotta dai mercati alla popolazione: il 70% degli introiti derivanti dal petrolio lo si investe in ‘misiones’ sociali. Ecco perché le coperture, per lo studio, la cultura e i diritti elementari, non sono mai venuti meno.
[…] In Italia abbiamo inserito il pareggio di bilancio in Costituzione che mette fuorilegge non solo le riforme strutturali, ma anche il keynesismo.
La natura rapace e guerrafondaia del capitalismo non può consentire il benessere della popolazione perché ha bisogno di distruggere».

Quarta affermazione

«Maduro ha ordinato l’arresto di Leopoldo Lopez e dell’ex sindaco di Caracas senza alcuna motivazione»
Falso. Nella seduta del Senato di ieri [1 agosto 2017 nda aggiornato al 23/07/2018] Pierferdinando Casini (noto leader, dirigente e forse unico esponente pubblico dell’UDC) ha dichiarato che il Venezuela è governato da una «narco-dittatura» che «imprigiona le voci dissidenti come quella di Leopoldo Lopez e dell’ex sindaco di Caracas Antonio Ledezma». Questa la dichiarazione del Tribunale Supremo di Giustizia del Venezuela:
«Il Tribunale Supremo di Giustizia venezuelano ha revocato gli arresti domiciliari e deciso per il ritorno al carcere degli oppositoriLeopoldo López e Antonio Ledezma per “non aver adempiuto alle condizioni imposte affinché si mantenessero gli arresti domiciliari”».
Antonio Ledezma: Nel 2002 sostenne il golpe contro Chavez partecipando alla serrata petrolifera contro la volontà di nazionalizzazione chavista. Dal 2004 coordina le guarimbas sopra citate e nel 2015 viene condannato per implicazione nel fallito colpo di Stato contro Maduro.
Leopoldo Lopez: Esponente politico di un’organizzazione interna alla MUD (opposizione venezuelana) è stato ripetutamente indagato e accusato per frode fiscale, corruzione e distrazione di fondi.


Lopez, in sostanza, è “un Berlusconi che non ce l’ha fatta”.
Non dico nulla sul narco-dittature perché neanche bisogna perdere tempo a commentare un’affermazione del genere. L’immagine qui a lato, chiarisce bene la strumentale falsità che ha sostenuto Pierferdinando Casini.
Spero che il testo in questione sia stato utile ai più a comprendere la complessa situazione venezuelana.

“I narco-Stati che concordano con le sanzioni degli Stati Uniti contro il Venezuela”

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