I sistemi elettorali in campo - intervista a Fulco Lanchester

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Nella stagione delle larghe intese, nella stagione del governo letta Alfano, quindi dopo la dipartita di Forza Italia di Berlusconi, il governo sembra non aver ingranato ancora la marciaDall’inizio della nascita delle cosiddette larghe intese, diventate un po’ più strette dopo la decadenza di Berlusconi da senatore della Repubblica, la questione è diventata sempre più intricata e complicata col passare dei giorni, delle settimane e dei mesi: chi pensava di tirare in ballo il tema della legge elettorale come passepartout di alternatività della proposta politica è rimasto disilluso dalla mancata risposta in termini di consenso.
Il sempiterno scontro tra centrodestra e centrosinistra, riuniti nella stessa maggioranza di governo come fu per i tredici mesi di presidenza Monti, ora è imbrigliato dalla legge elettorale e dai sistemi escogitati dalle parti in causa per traghettare il governo oltre la legge Calderoli 270/2005, meglio nota come Porcellum. La Corte Costituzionale, però, otto anni dopo la legge elettorale approvata, con tre elezioni di ritardo, definisce le linee e pone dei limiti alla legge elettorale Calderoli eliminandone gli elementi di incostituzionalità di cui era foriera: la legge, restituita al corpo elettorale italiano, è quella di un proporzionale puro con uno sbarramento al 4%. Niente premio di maggioranza, niente liste bloccate. 
Da quel dì, si potrebbe dire, si è scatenata la discussione che vede come principale interlocutore il neo segretario del Pd Matteo Renzi che auspicherebbe un sistema elettorale maggioritario, che sia bipolarista e che restituisca le preferenze al corpo elettorale. In sostanza: un bipolarismo puro, auspicato, dunque, anche dal capogruppo di Forza Italia alla Camera dei Deputati Renato Brunetta.
Proprio notizia di ieri è l’articolata proposta, contenente tre modelli a cui rifarsi, del segretario Pd in merito alla legge elettorale: modello spagnolo, ritorno alla legge Mattarella, e il famoso sistema del sindaco d’Italia. Per sapere quale di questi tre sistemi sia il più consono al Paese e alla fase che esso sta attraversando, abbiamo interpellato Fulco Lanchester, professore ordinario di Diritto Costituzionale preso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma. “La Corte Costituzionale, in dicembre, ha dichiarato incostituzionale la legge 270 del 2005, ovvero il porcellum (dopo otto anni ci si è arrivati!). La legislazione di risulta è quella che lei ha detto, cioè un sistema tendenzialmente basato sulla formula proporzionalistica, con soglie di sbarramento variabili dal 4% all’8% e, anche, con delle riserve per i partiti minori (miglior perdente e via dicendo).  Gli altri tre sistemi che sono stati proposti da Renzi hanno una loro logica, una logica apparentemente  di tipo bipolare  e presuppongono  la riforma del  bicameralismo paritario.  Il sistema spagnolo proposto dal segretario democratico è stato, per la verità, ipotizzato già da precedenti legislature degli anni scorsi, ma appare  differente da quello  iberico e  anche  dalle  precedenti   prospettazioni.
Sistema spagnolo, per la verità, già ventilato da Luciano Violante tanto che Massimo Bordin, interpellato da ‘L’Indro’ in agosto, aveva affermato: “la proposta di Violante parte da collegi proporzionali molto piccoli che eleggono tre-quattro deputati e , quindi, liste in cui non ci sono preferenze. Liste bloccate ma più piccole. Inoltre, tale proposta prevede anche un doppio turno. Insomma, una cosa abbastanza cervellotica”.
 Quindi Lanchester prosegue: “in realtà bisogna dire che a suo tempo  ci fu  una disputa fra Vassallo e Ceccanti su chi l’avesse proposta prima: è un sistema che   venne   stato definito ispano-tedesco. In realtà, nella versione di Renzi, diviene un sistema con collegi di dimensioni molto piccole (verrebbero a crearsi collegi in cui si assegnerebbero 5-6 seggi) e con  effetti  “brutali”,  capaci  di  favorire(vista la soglia di  esclusione  implicita del  20%  circa)PD,Grillo  e  Forza  Italia. Il   premio  nazionale previsto  per  la maggiore  formazione rischia  di  non superare il  vaglio della Corte  costituzionale”  
“In un sistema liquefatto come il nostro, però, – prosegue Fulco Lanchester  – non è detto che un  simile  funzioni. Anche  la  versione   rinnovata del  mattarellum – con il collegio uninominale per   475 seggi, e   con un premio 97  seggi al  maggior  partito e  la distribuzione   proporzionalistica dei  residui  63) – risulta molto  drastica  ed è affetta dai  problemi relativi alla scomposizione del sistema politico partitico. Infine, c’è l’ultimo modello, quello del sindaco d’Italia, anch’esso molto incisivo, per  cui  al secondo  turno chi  vince   ottiene  il  60%  dei  seggi.
 La realtà dei fatti  è che in questo momento siamo semplicemente alle proposte: Renzi avrà dei problemi all’interno della coalizione di governo delle medie/piccole intese. Alfano e il Nuovocentrodestra un sistema di questo genere non lo possono certo  accettare .Che poi lo facciano questo è un altro tipo di problema. Sicuramente anche Casini sarà contrario, perché accettarne la  logica significherebbe  schierarsi  da una parte o dall’altra”.
E in una situazione di caos magmatico tale, è sempre rischioso prendere le parti di questa o quella organizzazione politica che ha dominato la scena politica.
C’è da dire, comunque, che in realtà Alfano abbia dichiarato di essere  pronto a lavorare sul modello del sindaco d’Italia, anche con Renzi…
“Nel momento in cui ci dicono che vogliono il sindaco d’Italia, in realtà prefigurano un percorso molto lungo: si tratta di un meccanismo che prefigura anche una riforma Costituzionale – non soltanto del bicameralismo, ma dell’intera forma di governo. Quindi è un prendere tempo. Poi si vedrà. Tutti sono terrorizzati, in fondo, ed è questa una delle ragioniper  cui  la   proposta di Renzi può  sembrare  esplosiva, rivelando   l’obbiettivo  di  far saltare la maggioranza di governo per andare alle elezioni.”
Certo è che se si dovesse verificare lo scenario del bipolarismo puro, contestato da molte voci politiche anche all’interno del Transatlantico a più riprese, non potrebbe verificarsi una deriva populistica? “Il problema è valutare anche in una prospettiva storica quello che sta succedendo. Il nostro è un sistema che ha visto il succedersi , tra 1948 e il 1993 fino al 2013,  di tre sistemi elettorali: proporzionale, mattarellum (1993 – 2005), porcellum (2005-2013).
Sia mattarellum che porcellum avevano una logica di tipo bipolare che,  però, non ha avuto  successo   per  la   mancata la riforma costituzionale del bicameralismo. Un sistema elettorale, come il mattarellum o come il porcellum(al di  là dei  vizi di  costituzionalità  di  quest’ultimo) senza la riforma del bicameralismo perfetto, non poteva che fallire. 
In questo momento il vero problema è che non soltanto  non  vi   è stato  il riallineamento  del sistema  partitico, ma che    mancano i partiti: si sono liquefatti..
Si sono liquefatte le principali formazioni presenti  nel  sistema, e lo stesso partito democratico è sotto forti tensioni. Questo evidenzia da un lato l’imballamento del circuito politico parlamentare, con la difficoltà di trovare una soluzione o ad ipotizzare una soluzione. Anche ciò che sta dicendo Renzi, in realtà è un cercare di lanciare una proposta, ma dal punto di vista concreto non vedo che ci sia ancora molto. Dall’altra, poi, ci sono tutti gli organi costituzionali di controllo esterno ed interno (Corte Costituzionale e Capo dello Stato, ad esempio) che impegnati  in una funzione di supplenza, che però li esporrebbe  a forti polemiche. Questo denota che la situazione è molto complessa e molto grave, non c’era bisogno sicuramente di ricordarlo, ma forse non è completamente inutile.”
Quindi è più opportuna, in questo momento storico, una riforma elettorale o una riforma della politica? 
“Una riforma elettorale forte, con la modifica delle regole di selezione sia delle forze politiche, sia del personale politico, è sempre connessa con una crisi di regime. 
La prima crisi di regime a Costituzione repubblicana  vigente   si   è verificata  nel 1993, quella del 2013 pare addirittura la prefigurazione di una crisi di sistema. Quindi è evidente che la legge elettorale e il sistema elettorale, in senso stretto, dovrebbero  certificare questa situazione. Per cui la riforma della politica viene fuori dalla stessa crisi di regime. L’imballamento sta in questo: non è soltanto legge elettorale che non funziona, ma anche   l’apparato istituzionale, perché una cosa tiene l’altra. Per cui c’è grande difficoltà nel trovare una soluzione. Per  ora  siamo ancora al dibattito interno delle e  tra le forze politiche : la soluzione, se si troverà, sarà velocissima”.
Prosegue Lanchester: “Vorrei, comunque, leggere le motivazioni della sentenza  della  Corte Costituzionale perché quello scarno comunicato relativo alla libertà delle assemblee parlamentari di modificare  della legge elettorale, nell’ambito di principi costituzionali, richiede che si  valutino  quali siano  le  indicazioni  della   stessa  in questo senso. La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il premio di maggioranza. Su questo sono perfettamente d’accordo, l’ho sempre detto e l’ho anche auspicato già da quel 2005.Ma c’è  dell’altro. La Corte costituzionale   ha  deciso   che  la lista bloccata è incostituzionale perché non dà la possibilitàal  singolo  elettore di selezionare il proprio candidato. In  questa prospettiva  il giudice  costituzionale  , potrebbe anche ipotizzare  una serie di principi per la regolazione democratica intrapartitica, ovvero per l’individuazione dei candidati .Questo  permetterebbe  di  prevedere   la possibilità di mantenere  sia  il collegio uninominale, ma  anche la lista bloccata  “corta” a livello interpartitico. Per questo, bisognerà attendere  le  motivazioni   che    saranno  depositate   nella  seconda decade di gennaio,”.
Certo è che di modelli elettorali ce ne sono centinaia, ma “ gli  effetti  di questi sistemi è molto correlata con la situazione delle società civili e politiche.In  sostanza i sistemi elettorali aiutano la stabilizzazione. Essi non possono ,però,produrre stabilizzazioni assolute: chi ci racconta che con un sistema elettorale di un certo tipo si   perviene immediatamente alla stabilità, è paragonabile al venditore di lozioni per la crescita dei capelli. E le parla un calvo”.

2013, politicamente sorprendente

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Il 2013 non è stato un anno facile, eufemisticamente parlando, per la politica e per le istituzioni italiane, ma per molti versi per nulla scontato, e perfino sorprendente.
A partire dalla campagna elettorale che ha consegnato la non vittoria delle tre coalizioni che avevano preso più voti delle altre: tutti avevano vinto e, infatti, non aveva vinto, praticamente, nessuno.
Il sistema elettorale allora vigente era il cosiddetto ‘porcellum’, nomignolo mellifluo affibbiato dai cronisti per attenuare quello dato dal suo stesso creatore: ‘porcata’.
Tre coalizioni, dunque, di composizione più o meno  variegata, si contendevano la vittoria: da una parte la coalizione Italia Bene Comune (Pd, Sel, Psi, Cd), da un’altra quella che ruotava attorno al Pdl e a Silvio Berlusconi (Pdl, Fdi, La Destra, MiR, Ln, Grande Sud/Mpa, Pensionati, Ip, LpIe), la terza  -invece- monopartitica, quella del Movimento 5 Stelle.
I numeri parlavano della coalizione di centrosinistra che si attestava al 29,55%, quella di centrodestra al 29,18% e quella monopartitica formata dal solo M5s che si piazzava al 25,56%: l’instabilità era consegnata.
La soluzione, dopo il mandato esplorativo concesso a Pier Luigi Bersani fallito miseramente, non si era riuscita a trovare: la situazione era ancora ingarbugliata, le questioni  -da qualunque parte le si volessero guardare- rimanevano tante ed insolute.
Quindi si arriva alla scorciatoia: larghe intese.
Pd e Pdl si mettono insieme “per il bene del Paese”, e provano a tirare fuori l’Italia dal pantano istituzionale, economico e politico: Enrico Letta ne è il Primo Ministro.

Giorgio Napolitano
Enrico Letta, dunque, sarebbe diventato il Primo Ministro di un Governo che si andava incagliando già prima del suo incarico affidatogli con l’elezione del Presidente della Repubblica.
Dapprima le titubanze delle forze politiche tutte sui nomi da proporre, poi lo spuntare dei vari personaggi, compreso quello di Stefano Rodotà da parte pentastellata che ha scelto di indicarlo  grazie alle quirinarie, le primarie on line del M5S.
Il capogruppo in Senato Vito Crimi, primo della serie dei capigruppo cambiati dal Movimento di Beppe Grillo, alle domande dei cronisti che lo incalzavano sul perché non avesse votato altri nomi, rispondeva «ma perché non Rodotà? Ha qualcosa che non va?».
Le lunghe giornate d’attesa per l’elezione del Capo dello Stato, però, sembravano non dovessero mai finire,  ci sono volute ben sei votazioni per eleggerlo e, alla fine, nuovamente Giorgio Napolitano.
Re Giorgio, come lo chiamava Marco Pannella da mesi prima della sua riconferma e come ora lo chiama la stampa, dal momento che nessun Presidente della Repubblica è mai stato riconfermato per un raddoppio del settennato.
Quindi l’elezione e i suoi momenti, le discussioni e gli scrutini, i 101 franchi tiratori e la rassegnazione di Romano Prodi: c’era, quindi, chi diceva che l’Italia fosse pronta per una Presidente della Repubblica.
Tra queste voci c’era Chiara Saraceno che ha affermato a ‘L’Indro’  “Sarebbe arrivata l’ora da un pezzo, purtroppo, però, le donne sono considerate ancora come una categoria generica, un genere piuttosto che individui capaci in grado di farsi largo nella società e nella politica. Poche sono quelle ‘visibili’, anche dal punto di vista professionale”.E anche se, comunque, la Saraceno contestava il modo in cui veniva proposto il nome di una donna: “Trovo comunque insopportabile il modo in cui se ne discute. Si fa un elenco di possibili ‘papabili’, con nomi, cognomi e ‘qualifiche’ e poi si dice ‘oppure una donna’, come se non esistesse una pluralità di donne, ciascuna con il proprio profilo, posizione, storia pregressa, nome e cognome. È ancora un modo di considerare le donne una categoria generica”.
Nonostante tutto, comunque, il nuovo nome che ha messo d’accordo tutti è stato proprio Giorgio Napolitano che ha accettato il gravoso compito, come dal Presidente spesso ricordato, non senza riserve.
Il risultato, però, è sotto gli occhi di tutti: Napolitano bis.
Un bis, come dichiarato dallo storico e politologo Gian Enrico Rusconi,  che ha affermato «La tendenza ad un presidenzialismo informale» ma che «di fatto, era già implicita nella deriva indicata e sostenuta in modo retorico dal berlusconismo che confusamente -confondendo ‘premierato’ con ‘presidenzialismo’-  ha reso popolare l’idea della necessità di una guida decisa -come a suo tempo tentò Craxi».

Costituzione
Se la riconferma di Giorgio Napolitano come Presidente della Repubblica rappresenta un unicum costituzionale, secondo Domenico Moro, anche l’affidamento del Governo a Mario Monti rappresentava un’eccezione: “Si pensi alla sempre maggiore prevalenza dell’Esecutivo sul Legislativo e all’aumento dei Decreti Legge da parte del Governo, cioè con l’aumento dell’attività legislativa di marca Governativa rispetto a quella di marca Parlamentare, che è una tendenza in atto da 20 anni almeno. E questo avviene a dispetto della Costituzione. Così come bisogna tenere conto del fatto che, nonostante la Costituzione, il Presidente della Repubblica Napolitano si è permesso di mettere a capo del Governo Mario Monti, che non era stato eletto da nessuno e, successivamente, di determinare il governo Letta-Alfano. Di fatto, noi siamo già in una sorta di semi-presidenzialismo, nonostante-la-Costituzione”.Il 2013, infatti, dovrà essere ricordato anche per il dibattito attorno alla Carta Costituzionale: dalle assemblee dei coordinamenti ai cortei, dalle mobilitazioni dell’Anpi alle ipotesi di strutturazione del sistema-Stato  dell’Italia.
Il dibattito circa le ipotesi di sistema che l’Italia dovrebbe adottare è ancora vivo e strettamente connesso con le modifiche costituzionali.
Esattamente come era avvenuto in ottobre, quando per un ‘colpo d’azzardo’come  affermato da Nichi Vendola in quei giorni, si stava mettendo mano all’articolo 138 della Costituzione, che sancisce la partecipazione referendaria circa le modifiche alla Carta.
A tal proposito Gaetano Azzariti, costituzionalista, aveva concordato con la definizione di colpo d’azzardo di Vendola, dicendo “La votazione dell’altro ieri (23 ottobre, nda), in qualche modo, dà conferma che i nostri Parlamentari giochino un poco d’azzardo: sono bastati quattro voti per superare il quorum che impedisce la richiesta referendaria e, in qualche modo, salvaguardare il processo di riforma. Ma, se si considerano i fatti, questo azzardo diventa ancora più accentuato: le motivazioni che hanno indotto una parte degli esponenti delle larghe intese a non votare il Ddl costituzionale, sono ragioni strettamente legate alle competizioni interne ai partiti politici stessi”.La paura che il popolo si potesse esprimere, e avrebbe potuto bocciare, le riforme costituzionali che il Parlamento avrebbe voluto attuare, aveva fatto scendere in piazza l’Anpi nel corso della votazione di fine ottobre circa l’articolo 138.
Tuttavia, il sistema-Stato da adottare parte dall’assunto che il numero dei parlamentari debbano essere ridotti, sicché si possa  arrivare ad un sistema che sia più snello per evitare che le Camere ‘facciano le stesse cose’.
I sistemi che si erano e sono profilati sono diversi, ma tra i più discussi, nel bene e nel male delle loro peculiarità, ci sono il presidenzialismo, il semipresidenzialismo e  il premierato forte; con questi, dunque, ha conseguenza la discussione circa il superamento del bicameralismo perfetto.
Il rettore dell’Università della Val d’Aosta Fabrizio Cassella, che ha preso parte al convegno italo-francese ‘Dalle riforme, la rinascita‘ in ottobre, si era trovato sulle posizioni di un superamento del bicameralismo, così come concepito finora: «Un superamento del bicameralismo perfetto, sì: indubbiamente due Camere così ricche, in termini di quantità, di numeri, di parlamentari, per di più con due ruoli sostanzialmente identici, trovo sia opportuno di modificarne qualcosa».
Lo stesso Azzariti, dopotutto, si era espresso a favore di un superamento del bicameralismo perfetto, dal momento che “il bicameralismo che noi abbiamo potrebbe essere certamente semplificato… “  ma in astratto il costituzionalista dell’ Università La Sapienza di Roma, sarebbe più incline al monocameralismo “in astratto sarei favorevole al monocameralismo. Però non vorrei risolverla solo con una battuta: ‘modifiche costituzionali’ significa mettere mano a delicatissimi equilibri. Neppure il monocameralismo in sé, quindi, è una soluzione idonea»anche perché «un’opzione monocamerale è molto più radicale e profonda dell’elaborazione di differenziazione, un po’ pasticciata, del bicameralismo su cui si stanno confrontando i saggi”. Come si era espresso, poi, lo stesso Senatore e Segretario nazionale del Psi, Riccardo Nencini“pensiamo ad un sistema che non si fondi sul bicameralismo perfetto, che veda decrescere il numero dei parlamentari, che veda tagliati e riorganizzati enti di mezzo (come per esempio le province) e che preveda la presenza in parlamento di rappresentanze di regioni e autonomie locali. Detto questo, non escludiamo un sistema semi presidenziale”.
Le uniche, ad essere scontente, dunque, erano le migliaia di persone che hanno sfilato il 12 ottobre per le vie di Roma, coadiuvate dal coordinamento “Costituzione via Maestra” e da personalità come Maurizio Landini (Fiom) e Stefano Rodotà«Questa non è una zattera per naufraghi, né un onorato rifugio di reduci di battaglie perdute, ma l’avvio di un nuovo percorso per ripartire dalla Costituzione»così aveva esordito lo stesso Rodotà dal palco di Piazza del Popolo.
Ma se da una parte il Psi, favorevole al superamento del bicameralismo perfetto e con apertura di dialogo ad una revisione della forma-Stato perfino in senso semipresidenzialista, dall’altra Fabio Nobile (Pdci), in vista della manifestazione della ‘via maestra’, aveva detto: “Io posso difendere la Costituzione (quella nata dalla Resistenza, non quella nata dal pareggio di bilancio) se dico che sono contro il fiscal compact e l’Europa della BCE, non posso dire che la velocità con cui si vuole modificare l’articolo 138 non è un fatto semplicemente nazionale, perché lì c’è tutto: è il primo punto per mettere in discussione gli altri elementi della Costituzione, per modificarli più velocemente e renderli più  compatibili con gli interessi del capitale”.Le ipotesi e le discussioni restano aperte, così come quelle all’interno dei partiti che compongono la maggioranza di Governo: le organizzazioni politiche, sono state stravolte dallo tsunami-Grillo, e il Pd è l’emblema del frastornamento politico-partitico italiano.
La crepa, se non definitiva quantomeno più ampia delle altre all’interno dei democratici, si era aperta sui nomi dei candidati alla Presidenza della Repubblica: la crisi nel partito di cui Bersani era ancora (anche se per poco) il Segretario, era ormai uscita allo scoperto.
Le trappole tese dai 101 franchi tiratori che, nel segreto dell’urna, avevano violato le disposizioni del partito era una notizia talmente sulla bocca di tutti che non c’era quotidiano che non ne parlasse.
Da una parte i partiti, dall’altra le persone: il divario non poteva che aumentare.

Autorganizzazione all’esterno
Se da una parte le organizzazioni politiche si auto-creano fratture insanabili nel segreto dell’urna, all’esterno dei palazzi del potere il popolo si organizza.

Così com’è successo per i No Tav, così è avvenuto per i No Muos e i No Grandi Navi, tanto che ad un certo momento si è pensato ad un coordinamento nazionale che unisse i movimenti del ‘No‘ sopracitati.
Essi, da qualsiasi punto di vista si guardino, hanno unito lo Stivale nelle lotte dal basso: da Niscemi a Venezia, fino alla Val Susa.
Così come, seppur per una lotta che ha avuto riverbero più localistico ed estremamente più vertenziale, hanno fatto i movimenti di lotta per la casa: Roma è stata invasa dall’assedio, come chiamato dai manifestanti, subito dopo le due grandi mobilitazioni di ottobre (12 e 18 ottobre – Costituzione e mobilitazione dei sindacati di base).
Per giorni, dopo il 19 ottobre, i manifestanti si sono intendati a Porta Pia, in attesa di un positivo riscontro con le Isitituzioni che, alla fine di tutto, non c’è stato. O meglio: l’interlocuzione è avvenuta, ma non positiva secondo gli intendati.Quindi le proteste che sono proseguite sono state a carattere sempre più o meno localista e più o meno vertenziale, eccezion fatta per quelle dei cosiddetti forconi che, partiti dalle proteste degli autotrasportatori, hanno inglobato, nella soggettività delle dimostrazioni, centinaia di realtà diverse.
Quelle dei forconi, dunque, come ha spiegato Carlo Pala, politologo dell’Università di Sassari, “Quello che sta accadendo adesso è che tutta una serie di persone, di categorie professionali, di movimenti, di protesta che prima erano abbastanza sparpagliati – potremmo usare questo termine – si sono uniti in funzione di una protesta che, però, non si capisce nemmeno bene a che cosa voglia tendere. Probabilmente per il fatto che ci sono diverse componenti, all’interno di questo movimento, e probabilmente anche per il fatto che manca una regia, o meglio, manca una regia chiara”.Anche perché “I movimenti stessi fanno, però, un pò fatica a evidenziare, ed imporre, quelle che sono le loro ragioni”, per cui la situazione, secondo Pala era da considerarsi “ancora molto fumosa e abbastanza precaria, da questo punto di vista: cioè, la gente non ha ancora capito bene che cosa sta accadendo, a parte i blocchi nelle strade eccetera, dove naturalmente verranno consegnati dei volantini alla gente di passaggio, effettivamente non si è ancora ben capito cosa stia accadendo. Questo movimento non ha ancora, ma non ha detto che non ce l’abbia di qui a brevissimo, una forma definita”.
Questo, dunque, va ad avvalorare l’ormai dato di fatto di come lo scollamento tra politica e popolo si sia ormai compiuto: le primarie, siano esse on line o ai gazebo, non attraggono un gran numero di persone tali che possano essere competizioni interne da ricordare e mettere negli Annales.
La questione evidente è l’incapacità di rigenerazione, da parte di una classe poltiica e dirigente, che forse cerca escamotages, comunque palliativi, nel cambaimento dell’assetto Statale e delle riforme della Costituzione.
Da qui, dunque, potrebbe nascere, ed acuirsi, lo scontento popolare nei confronti della politica: non sono bastati i V-Day di Grillo (che hanno addirittura cambiato la simbologia mimica gestuale delle persone: l’indice e il medio, con le altre dita strette in pugno, non stanno più ad indicare il simbolo pacifista più comune del globo ma il  VaffaDay grillista!) a ‘mandarli a casa’ perché «Avendo visto che il movimento cinque stelle non è stato propriamente all’altezza di questa mansione, la società, o parte della società, ha provato ad organizzarsi al di fuori. Per cui non è immutato,  secondo me, lo spirito anti-casta, antisistema, antipolitico e chi più ne ha più ne metta, semplicemente si è spostato l’asse di evidenziazione. Da un momento in cui è sembrato che potesse essere agitato all’interno delle istituzioni proprio attraverso il Movimento Cinque Stelle, ora invece si è capito che bisogna riagìrlo, riattivarlo e cavalcarlo -per così dire – al di fuori».All’esterno, dunque, si organizzano persone -come l’imprenditore Antonio Bertolotto-, collettivi, coordinamenti e movimenti: in mancanza di una soggettività politica forte, una parte della società e del tessuto sociale si chiude in lotte sempre più vertenziali e localiste che non hanno alcuno sbocco nazionale.
Il rischio è, dunque, quello profilato da Luciano Canfora in una lettera al quotidiano ‘L’Unità’: una «democrazia oligarchica».
Manifestamente collegiale, internamente privatistica.

Tra larghe intese e proteste - intervista a Domenico Moro

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Le elezioni del febbraio hanno portato con sé una ventata di instabilità: vuoi per la legge elettorale ‘porcata’, vuoi per l’incapacità di tutte le forze politiche nel fissare i paletti per una campagna elettorale più o meno seria, senza boutades berlusconiane o riferimenti ad ipotetici smacchiamenti bersaniani rivelatisi clamorosissimi boomerang.
Alla fine, la tempesta raccolta dalla politica che ha seminato vento per anni, è stato un altro Governo di larghe intese -dopo i 13 mesi di Governo tecnico-, slabbratura nel tessuto sociale del Paesedistanza abissale tra palazzi del potere e cittadinanzaautorganizzazione esterna dei movimenti che non si riconoscono nell’agire delle organizzazioni politiche, accomunandole sempre di più con generico ‘loro’.
Nell’anno appena trascorso le proteste contro le politiche attuate dalle larghe intese sono state molte: dall’Alcoa agli studenti, fino ad arrivare alle proteste dei movimenti di lotta per la casa a Roma. Così come, d’altra parte, si è fatta sentire la destra radicale e neofascista: recente è la condanna a Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound ed ex candidato Sindaco di Roma, che si era arrampicato per togliere la bandiera europea dalla sede italiana dell’Europarlamento.
Le proteste antisistemiche e antieuropee si fanno sempre più pressanti e le condizioni politiche all’interno delle due Camere non fanno in modo che si arrivi alla percezione un po’ più affievolita delle politiche europee: esse, d’altra parte, non possono che generare scontento generale e insoddisfazione.
Di larghe intese e di anno appena trascorso, di politiche europee e europeismo, di scenari politici passati e futuri, di Berlusconi e Renzi, di Grillo e dei forconidi proporzionale e di maggioritario ne abbiamo parlato con l’economista e giornalista Domenico Moro.

Le elezioni politiche del 2013  non hanno dato l’esito di una maggioranza definita, quindi il Presidente Napolitano è ricorso alle larghe intese. Tutto ciò comporta degli squilibri all’interno delle due Camere. Del resto l’equilibrio si era già andato a rompere col Governo Monti. Che cosa possono cambiare, le larghe intese, nella politica italiana?Le larghe intese sono la riproposizione del Governo ‘tecnico’ di Monti in forma indebolita. Il Governo Monti doveva  semplicemente applicare le politiche europee di austerity che non erano state implementate da Silvio Berlusconi in un modo che i centri di potere europei reputavano sufficiente, e in gran parte c’è riuscito. Adesso Enrico Letta sta proseguendo sulla stessa linea di austerity e dovrebbe proseguire con le controriforme auspicate da Bruxelles e dalla Bce, ma a questo proposito sta incontrando delle difficoltà. È sempre la questione dell’Europa, o meglio la questione dell’Euro, a tenere banco: la preoccupazione principale di Letta è quella  di mantenere la fedeltà ai dettati europei e soprattutto il rispetto del Fiscal compact. Ciò significa rispettare il limite del 3% di deficit sul Pil e portare avanti la riduzione del debito pubblico di più di 50 miliardi all’anno. Tutto questo provoca, da una parte, un aumento delle tasse, che però si scarica essenzialmente sui lavoratori dipendenti, sui lavoratori autonomi e sui settori di piccolo e piccolissimo capitale e imprenditoria, che già sono stati tartassati dalla crisi. Dall’altra parte, implica un taglio molto forte del welfare state, in particolare nella sanità, nell’istruzione, nella previdenza. Quindi, diciamo che le politiche di Letta rimangono dello stesso tenore di quelle di Monti. Quanto l’austerity sia devastante per l’economia italiana, lo vediamo anche dal fatto che nelle ultime settimane si sono levati contro le politiche di austerity, in modo più o meno chiaro, due settori conservatori della società italiana: la grande impresa, rappresentata da Confindustria, e i settori legati alla piccola/piccolissima impresa, e al piccolo/piccolissimo commercio, che sono stati in qualche modo rappresentati dalla cosiddetta rivolta dei forconi, che però è un fenomeno molto più complesso e, probabilmente, anche di minore entità rispetto a quello che i mezzi di comunicazione avevano cercato di rappresentare. Per quanto riguarda la Confindustria, è abbastanza significativo che sia il suo Presidente, Giorgio Squinzi, che il direttore de ‘Il Sole 24 Ore‘ (il quotidiano di Confindustria), Roberto Napoletano, abbiano attaccato con grande forza, quasi con aggressività, Letta, lamentando il fatto che non siano state messe in campo politiche di sviluppo e di rilancio dell’occupazione. Sia Squinzi che Napoletano individuano nel taglio del costo del lavoro la leva principale con cui rilanciare l’economia italiana. Sostanzialmente si tratta dell’abbattimento del salario differito e del salario indiretto, perché, come sappiamo, il costo del lavoro non è altro che quella parte del salario che va a pagare la previdenza sociale, le pensioni, il welfare state e così via. Ad ogni modo, è significativo che anche la grande industria si stia muovendo contemporaneamente, da una parte, per l’applicazione integrale delle controriforme del mercato del lavoro prospettate dall’Europa, e, dall’altra parte, contro una adesione, diciamo così, troppo meccanica e troppo zelante al dettato europeo.
Giacché prima ha nominato sia le politiche di austerità, e quello che il Governo Berlusconi non è riuscito a portare avanti, poi ha compiuto Monti, passiamo a dare uno sguardo alle due Camere: Silvio Berlusconi, nel frattempo è di nuovo disceso in campo, ha rimesso in piedi Forza Italia – pur essendo decaduto Senatore- e, in un impeto retrò, in cui si ritira fuori la fiamma AN, ritorna Forza Italia etc etc, arriva da destra, dal partito di Berlusconi, l’opposizione ad un governo di larghe intese. Da un certo punto di vista è cambiata la politica all’interno delle Camere: com’è possibile che Berlusconi mesi fa riusciva ad affermare come le larghe intese fossero l’unico Governo possibile per l’Italia ed ora siano il male assoluto?Evidentemente Berlusconi pensava che, aderendo alle larghe intese, sarebbe stato in qualche modo difeso da Napolitano che magari avrebbe impedito la sua decadenza da Senatore. Una volta che questo non è accaduto, ha pensato bene di ritirare il suo appoggio alle larghe intese. Diciamo che la spaccatura tra il Nuovo centrodestra di Alfano e Forza Italia risponde ad un paio di esigenze. Una, sicuramente, è quella di Berlusconi di rimarcare la sua, chiamiamola così, contrarietà rispetto alla decadenza da Senatore e al fatto che sul piano giudiziario è stato messo all’angolo; dall’altra parte è un po’ la conseguenza del fatto che anche all’interno di Pdl si erano verificate delle spaccature tra personalità politiche, diciamo così, più critiche nei confronti dell’Europa e personalità più intenzionate a perseguire le politiche europee. Possiamo dire che le politiche europee, l’Euro, in qualche modo hanno prodotto spaccature all’interno del Popolo delle libertà. Quindi, si tratta di spaccature dovute non solo agli interessi personali di Berlusconi, e non solo all’interesse di Alfano di rendersi autonomo, di cercare una propria visibilità, un proprio percorso che lo emancipi dalla tutela del padre-padrone del suo ex partito, ma anche a fattori di classe e sociali e alla posizione  che si assume rispetto alla situazione economico-politica generale. Forza Italia prima e il Pdl dopo sono sempre stati partiti che si basavano sul potere economico e mediatico e sulla forte personalità di Berlusconi. Però, sono anche partiti che si basano su circoli di potere territoriali, sul notabilato locale. C’è sempre stata una dialettica tra Berlusconi e questi potentati che, ad un certo punto, almeno per quanto riguarda alcuni, si sono emancipati. C’è anche il fatto che questa spaccatura risponde anche ad un’esigenza tattica: cioè all’esigenza di rimarcare la distinzione con la sinistra in vista delle elezioni europee, in modo da presentarsi alle elezioni come una forza politica diversa, come una forza politica non corresponsabile delle antipopolari politiche europee, continuando però nello stesso tempo ad avere un piede nel Governo. Quindi, potremmo anche vederla come una manovra da parte del centrodestra per mantenere i piedi in due staffe: da una parte nella staffa della contestazione antieuropea; dall’altra parte, nella staffa del rispetto del fiscal compact, nella serietà, nell’affidabilità nei confronti degli altri governi europei e soprattutto della Germania. Dunque, si tratta anche di un gioco delle parti.  Riassumendo: in parte è il riflesso di una contraddizione reale, sia all’interno del Pdl, sia rispetto all’Europa; dall’altra parte, però, rappresenta anche un artifizio tattico impiegato da due soggetti politici (Berlusconi e Alfano), che alla fine si riuniranno in alleanza, come hanno preannunciato, alle prossime elezioni europee.
In questo momento, però, ci sono state delle proteste, all’interno del tessuto sociale, in tutto l’arco dell’anno: dall’Alcoa agli studenti, dalle manifestazioni in difesa della Costituzione in poi, fino ad ora. Fino al 12 ottobre, però, tralasciando per un attimo ciò che è venuto dopo, le proteste erano volte al far rispettare le leggi vigenti che il Parlamento si era dato. E’ possibile, dunque, che le proteste che ci sono state siano ‘pars costruens’ e non come si vogliono dipingere, cioè come ‘pars destruens’?Il problema è che l’Italia sta attraversando la crisi economica più grave dalla sua unificazione: c’è un calo del salario reale molto forte e un aumento della povertà anch’esso significativo, che rappresenta il peggioramento più grave degli ultimi 60/70 anni. Diciamo che tutte le proteste che ci sono state, almeno dal punto di vista dei lavoratori salariati e degli studenti, incontrano un limite: quello di essere proteste frammentate, isolate, non ricondotte ad unità dal punto di vista organizzativo e politico-programmatico. Ci sono state molte mobilitazioni di tipo diverso, in difesa del diritto allo studio, in difesa del diritto del lavoro, in difesa della Costituzione. È mancato, però, un momento di unificazione e di ricompattamento tra le piazze. Questo per due ragioni essenzialmente: la prima è il ruolo dei Sindacati, sostanzialmente passivo o addirittura subalterno nei confronti dei Governi delle larghe intese e precedentemente nei confronti del Governo Monti. Da parte dei Sindacati, compresa la Cgil, non c’è stata una mobilitazione forte e probabilmente è mancata anche la volontà politica di opporsi al Governo. Questo ha fatto sì che la mobilitazione del lavoro salariato sia stata in realtà più debole di quella che poteva essere: più sfilacciata e più frammentata. Per cui, aldilà di alcune singole realtà, come l’Alcoa, non c’è stato un ricollegamento né una azione complessiva. In aggiunta, è mancato il ruolo di un partito o di più partiti di sinistra vera, che riuscissero ad essere un elemento di coagulo e di sintesi politica delle varie lotte. Per cui ci siamo trovati in una situazione in cui la lotta per la difesa della Costituzione è risultata abbastanza slegata dalla lotta per la difesa del lavoro, per la difesa del welfare state e, in sostanza, da una lotta contro l’austerity, contro questo tipo di Europa. Secondo me, il principale elemento di debolezza della capacità popolare di risposta alla crisi sta nel fatto che non si sia individuata la ragione dell’aggravamento della crisi nell’Europa e nell’Euro. Cioè nel modo in cui viene costruita l’Europa e nel modo in cui è stata definita l’architettura della valuta unica europea. Soltanto mettendo al centro del dibattito politico l’Europa e l’Euro, si può riuscire ad elaborare una linea più unitaria, più complessiva in risposta all’austerità e agli attacchi che vengono condotti contro il lavoro salariato, contro il lavoro autonomo e anche contro i settori di piccola e piccolissima impresa.
Visto che prima stavamo parlando delle politiche europee, ci sono state non poche manifestazioni anti europee in Italia: anche quelle dei forconi sono diventate proteste antieuropee, con l’intromissione di Casa Pound e la recente condanna di Simone Di Stefano che ha tolto la bandiera blu-stellata dalla sede italiana del Parlamento Europeo Questo sentimento antieuropeista  si sta creando solo a destra o anche a sinistra nella politica italiana?Il sentimento antieuropeista si è diffuso in maniera trasversale e sta crescendo anche fra alcuni settori della sinistra, ma quello diffuso a sinistra non lo definirei tanto un sentimento antieuropeista, perché l’europeismo fa parte della patrimonio culturale della sinistra. Quello che sta crescendo è un sentimento, o meglio, una valutazione negativa contro questa Europa: quella del capitale finanziario e della grande industria, quella del capitale transnazionale. Cioè ci si sta rendendo conto sempre di più che l’Europa che si è costruita negli ultimi dieci/vent’anni non è un’Europa solidale, non è un’Europa che porta benessere. Essa, al contrario, serve al grande capitale per bypassare i parlamenti nazionali ed imporre quelle politiche di privatizzazione e contro il salario e il welfare state, che altrimenti sarebbe stato impossibile realizzare.
Dopo le elezioni europee, all’Italia spetterà il turno di presidenza del Consiglio Europeo (noto come semestre di presidenza europeo), la maggior parte dei cronisti e commentatori  sta definendo le linee per cui si potrebbe andare alle urne prima dell’evento sopracitato. Cosa comporterebbero le urne per le elezioni politiche prima del turno di presidenza, magari accorpandole con le Europee?Letta, in questo momento, almeno per quanto riguarda l’opinione del Presidente della Repubblica Napolitano, è l’uomo politico che  meglio può portare avanti le politiche europeiste, cioè quelle politiche fondate sul rispetto dell’austerity e dei dettati del Fiscal compact. Se dovesse rimanere Letta, quindi, ci potrebbe essere una prosecuzione di queste politiche che però, in realtà, risultano essere applicate solo fino a un certo punto.
Mi spiego: è vero che Letta è espressione di questo tipo di linea di tendenza, ma è anche vero che è un Governo abbastanza debole. Le larghe intese, almeno queste larghe intese, non hanno la forza per portare avanti le controriforme che gran parte del capitale si aspetta. Diciamo che ci sono, all’interno dell’establishment, varie posizioni: una tra queste è quella di continuare con Letta, pensando che egli possa contribuire ad una stabilità che altri non possono garantire; dall’altra parte, però, ci sono settori che stanno puntando in modo molto forte su Renzi per la sua capacità di riuscire a costituire un partito conservatore di massa. Consideriamo, al proposito, che in Italia c’è sempre stata una notevole difficoltà a costruire un vero partito, chiamiamolo così, conservatore, o, comunque, borghese, di massa. Un partito, dunque, che riuscisse a rappresentare gli interessi della borghesia e che avesse nello sesto tempo un base di massa, un seguito di massa. La DC, in realtà, era un partito molto interclassista, Forza Italia ed il Pdl avevano caratteristiche socialmente ibride, ed è mancato un partito liberale o liberaldemocratico di massa.
Ora, l’operazione che probabilmente si sta cercando di fare attraverso questa figura mediaticamente forte, quale è Renzi, è di costruire un partito liberale o liberaldemocratico di massa che riesca a portare avanti gli interessi del capitale finanziario grazie ad un seguito popolare consistente. Quindi è probabile che, grazie al fatto che Renzi, Berlusconi e Grillo vogliono arrivare alla legge elettorale in tempi rapidi e quindi alle elezioni entro l’ultima settimana di maggio, si riesca effettivamente a mettere insieme le due tornate elettorali, quella europea e quella per il rinnovo del parlamento.  Una ipotesi che, del resto, avevo già ventilato qualche mese fa, quando mi dichiaravo scettico riguardo al crollo immediato del Governo Letta a seguito della espulsione di Berlusconi dal Senato. Infatti, come avevo immaginato, il Governo Letta non è caduto, però è probabile che su una distanza più lunga, di fronte alla necessità di perseguire obiettivi più strategici e di fondo si decida che il Governo Letta non vada da nessuna parte e si provi con un’altra carta: Renzi. Ovviamente tutto questo dipende anche dagli equilibri interni ai gruppi di potere più forti che contano in Italia: la Confindustria, i grandi istituti bancari, la Chiesa, il capitale finanziario europeo e statunitense. L’equilibrio fra tutti questi gruppi va ad influenzare una scelta piuttosto che l’altra. Secondo me, sintetizzando, ci sono due opzioni: una è quella che rimanga Letta, il quale però non ha la forza per portare avanti in modo conseguente determinate controriforme, e l’altra opzione, quella di puntare sul cavallo Renzi. Il Sindaco di Firenze è, ormai da diversi anni, oggetto di una costruzione mediatica che l’ha portato a diventare leader del partito democratico su posizioni di destra economica e politica molto evidenti. Quindi, ritornando alla domanda che facevi prima relativamente al nuovo protagonismo dei movimenti di estrema destra in Italia, io non credo che oggi siamo davanti ad un pericolo fascista, almeno non così come questo si è definito storicamente. Ovviamente dobbiamo sempre esercitare la massima vigilanza nei confronti dei gruppi fascisti, ai quali non bisogna lasciare il minimo spazio, ma ritengo che oggi il vero pericolo consista nel completamento  di quella che chiamerei, secondo le parole di Luciano Canfora, ‘democrazia oligarchica‘. Cioè di una forma di Governo che esteriormente è democratica ma che nella sostanza è oligarchica. Il fascismo non rappresenta, in questa fase storica, un’opzione valida per il capitale finanziario e transnazionale, bensì è proprio la forma di democrazia oligarchica sul modello anglosassone a rappresentarne gli interessi in modo più efficace ed efficiente. È infatti verso una democrazia oligarchica che vanno le varie proposte di  controriforme della Costituzionale, della legge elettorale e dei regolamenti parlamentari.
Ha citato Canfora, quindi mi rifaccio quello che ha scritto nei giorni scorsi a ‘L’Unità’ circa la stabilità del Governo.
La stabilità la dà anche la legge elettorale e in queste settimane si sta avviando il dibattito circa la modifica dell’attuale legge scorporata delle incostituzionalità del porcellum, e le proposte arrivano da destra a sinistra, Canfora detto il suo: proporzionale puro. In Italia si è fatto così dal 1948 al 1992 e non si è mai incappati in situazioni di instabilità come questa. Quindi, cosa significa, che la stabilità la può dare una legge elettorale in sé come un proporzionale, oppure che le contro riforme  – che lei ha accennato – sono volte anche ad una delegittimazione in senso stretto di questo Parlamento per crearne uno diverso, ovvero l’affermazione del monocameralismo e di tutto ciò che esso comporta?
Innanzitutto bisogna vedere cosa intendiamo per stabilità. Se per stabilità intendiamo la governabilità, così come la intendevano Gianni Agnelli e la Trilaterale negli anni ‘70, oppure se intendiamo una situazione in cui la società progredisce in modo egualitario e senza squilibri, senza sperequazioni sociali e territoriali. Oggi, quello che si sta cercando di realizzare, così come lo si sta cercando di fare da trent’anni a questa parte, è il primo tipo di stabilità: cioè la stabilità fondata sulla governabilità che vede la prevalenza dell’Esecutivo, dei Governi sui Parlamenti. È un tipo di governabilità che favorisce ed è funzionale agli interessi del grande capitale. Noi,  invece, dobbiamo puntare ad un altro tipo di stabilità: ovvero una stabilità che nasce dalla redistribuzione della ricchezza in forme egualitarie, e che combatta qualsiasi deriva autoritaria e qualsiasi prospettiva oligarchica o fascista. Per fare questo noi dobbiamo tornare a leggi elettorali democratiche, quale sicuramente è il proporzionale. Ma ciò non basta, dobbiamo puntare anche ad un rilancio dell’intervento statale nell’economia: la stabilità vera e buona si realizza ponendo un freno all’anarchia del mercato capitalistico e alle sue crisi, e rilanciando l’economia in modo da produrre posti di lavoro e difendere il welfare state.
Bisogna chiarire, dunque, che il rilancio dell’economia italiana non può partire dalla riduzione del costo del lavoro. Le imprese private non investono non perché il costo del lavoro è troppo alto, ma perché non ritengono che il loro investimento sia sufficientemente profittevole. Dunque,  l’unico soggetto che può investire è lo Stato. Accanto alla difesa della Costituzione e al rilancio di una legge elettorale proporzionale, dobbiamo intraprendere una lotta per il rilancio dell’intervento pubblico nell’economia: un intervento che non deve consistere nella socializzazione delle perdite delle banche e del grande capitale, ma che si sostanzi in investimenti in attività produttive di alto livello, nell’alta tecnologia, in modo da permettere di creare nuovi posti di lavoro ‘buoni’.  Che siano sufficientemente pagati e che riescano ad essere continuativi, proprio perché si inseriscono in settori di mercato che hanno spazio a livello mondiale. Tutte le politiche di privatizzazione devono essere ribaltate. Anziché privatizzare (come sta accadendo oggi in questi ultimi giorni con Fincantieri) dobbiamo ripubblicizzare. Le recenti vicende delle grandi aziende pubbliche a suo tempo privatizzate dimostrano quanto le privatizzazioni siano state deleterie. I privati, nel caso di Alitalia, sono riusciti a fare peggio del pubblico e, nel caso di  Telecom, hanno trasformato una azienda che era protagonista nell’innovazione e un fiore all’occhiello dell’industria italiana in un comprimario, in difficoltà e pieno di debiti, del mercato delle telecomunicazioni mondiali. 

Svincolarsi dalla Ue è possibile - intervista a Vladimiro Giacché

Articolo pubblicato su Lindro.it https://www.lindro.it/svincolarsi-dalleuropa-e-possibile/

Ci si può svincolare dai trattati europei e dalla troika? A quanto pare sì, e la notizia arriva dall’Irlanda: la piccola isola si svincola da Fmi, Bce e Ue per riacquisire sovranità di bilancio e prevedere una significativa crescita del Pil. Un cambio di passo non da poco in una nazione che, comunque sia, detiene qualche agevolazione fiscale, come spiega Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa Ricerche. Ma per l’economista, autore del volume ‘Anschluss – L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa’, c’è dell’altro: non è vero che non si può disobbedire ai trattati europei, si può e come.

Partiamo con la notizia dell’Irlanda: l’Irlanda è uscita dalla troika svincolandosi dal fiscal compact e riacquistando sovranità di bilancio. Quindi non è come si dice nei salotti televisivi, disobbedire ai trattati si può fare?
Diciamo anche che, se solo si volesse, i trattati si potrebbero cambiare. Soprattutto perché i problemi riguardano molti paesi e sarebbe concretamente possibile, se si volesse, creare una maggioranza all’interno del Consiglio Europeo alternativa a quella, imperniata sulla Germania, che ha guidato sin qui le danze. Chi parla di trattati immodificabili dice una grossa sciocchezza. Per quanto riguarda l’Irlanda, la questione è un po’ più complicata:  l’Irlanda è uscita da una sorveglianza molto stretta, che ha riguardato alcuni dei Paesi europei sinora, connessa al piano di salvataggio che è stato effettuato a suo tempo da Bce, FMI e Unione Europea. È una vicenda interessante per diversi motivi. Il primo dei quali è che si tratta di un salvataggio derivante esclusivamente dal fatto che lo Stato irlandese si era indebitato per salvare le grandi banche.  La crisi irlandese nasce come una crisi bancaria, non del debito sovrano.  Solo dopo è diventata una crisi del debito sovrano, perché ovviamente quando devi spendere decine di miliardi di euro  per salvare dalla bancarotta due grandi banche, chiaramente il tuo debito pubblico aumenta. Secondo motivo di interesse: la cura è stata una severissima politica di austerità: tagli alla spesa pubblica e ai servizi sociali per 15 miliardi di euro,  25 mila impiegati pubblici mandati a casa, neo assunti con uno stipendio del 10% inferiore e cose di questo genere. Direi che l’Irlanda è uno dei casi più emblematici di questa crisi perché è un caso classico in cui a salvare le banche sono stati il contribuente, dipendenti pubblici, lavoratori dipendenti in generale: sono stati loro a pagare il conto. Tutto questo, in realtà, è avvenuto in concomitanza con gli aiuti –  che lei ricordava prima –  che sono arrivati con il coordinamento della troika (Fmi, Ue, Bce).  Anche a questo riguardo la vicenda è stata abbastanza interessante, perché, l’Irlanda ancora nel marzo 2010 era considerata un paese modello da  Jean – Claude Trichet, che la portava a modello addirittura per la Grecia, dopodiché dal novembre 2010 ha dovuto sottoporsi ad un piano di salvataggio con prestiti intorno agli 85 miliardi di euro che sono serviti a salvare le banche.
E qui c’è un’altra cosa interessante: nel caso dell’Irlanda, nonostante la richiesta di quel paesel’Unione Europea si rifiutò di far pagare almeno una parte del conto agli obbligazionisti delle banche coinvolte. Per un motivo molto semplice: questi obbligazionisti erano in gran parte imprese finanziarie, o anche singoli investitori, di due paesi europei che si chiamano Gran Bretagna e Germania. Per cui, in quel caso, si è dovuto accollare tutto il peso al contribuente e anche al lavoratore irlandese, anche violando tutta la retorica corrente sul valore del mercato e sulle sue regole: stando alla logica del mercato,  una banca che sta fallendo la si dovrebbe lasciar fallire; e  comunque, se la devo salvare, dovrei salvarla in primo luogo a spese di chi le ha prestato dei soldi, evidentemente sbagliando il suo investimento.
Ma veniamo a quello che è successo nelle ultime settimane: a metà dicembre l’Irlanda ha chiesto di uscire da questo piano e, quindi, adesso avrà dei vincoli inferiori a quelli che aveva prima: il piano di salvataggio, questo vale per l’Irlanda ma vale anche per gli altri Paesi che ne hanno usufruito sinora a partire dalla Grecia, comporta una serie di vincoli. I vincoli, questo va precisato, sono maggiori di quelli che abbiamo subito noi finora, perché sono connessi al piano di salvataggio, precisamente per questo motivo l’Italia ad un certo momento, a metà dell’estate del 2012, non ha voluto far ricorso a un piano di salvataggio. Poi l’annuncio da parte della Bce di un piano di riacquisto di titoli di Stato a breve termine dei paesi in difficoltà (soltanto l’annuncio: nessun riacquisto è avvenuto) ha contribuito ad alleggerire le tensioni sui mercati. Al riguardo vale la pena di notare che ancora recentemente Jens Weidmann (presidente della Bundesbank), l’unico che votò contro la decisione della Bce, ha rivendicato il suo voto contrario, in un’intervista al ‘Sole 24 Ore’, con la curiosa motivazione che se la pressione dei mercati non fosse stata alleggerita dalla Bce i governi sarebbero stati costretti a fare più rapidamente le riforme..C’è l’idea, quindi, che i paesi debbano soffrire, dopodiché succederà qualcosa di positivo. Questa è un’idea economicamente insensata, ma io direi anche filosoficamente insensata: noi non possiamo pensare che la sofferenza, che significa milioni di disoccupati e cose di questo genere,  sia una cura che si possa somministrare a cuor leggero. Anche perché sinora le cure non hanno prodotto gli effetti sperati: hanno ridotto la domanda interna e fatto chiudere un mucchio di imprese, altro che rilancio della competitività.  Il mondo metafisico in cui vive chi propone queste ricette è davvero molto lontano dalla vita reale di tutti noi.
Verrebbe da dire, con una battuta: sadomasochismo

Sì, sì, la parte loro, però, è quella sadica: quella masochistica è la nostra. Ma torniamo all’Irlanda: la situazione è migliorata (anche se ad esempio la disoccupazione è tuttora superiore alla nostra), ma il governo dice che le politiche di austerità continueranno. Sia pure, ovviamente, senza questo vincolo stretto che è stato rappresentato dal controllo da parte della Troika. Questo simbolicamente è molto importante: c’è l’idea che tu ti debba liberare quanto prima possibile da questi vincoli, perché – in realtà – non fanno il tuo bene. Questo è il messaggio che arriva da questa uscita dal programma, che comunque avviene dopo aver adottato molte misure dolorose.
Una misura, però, non è starà adottata, per il semplice motivo che non era stata richiesta:  l’aumento delle tasse alle imprese. È un aumento che, francamente, in Irlanda sarebbe molto utile visto che le tasse in quel paese sono del 12,5%, ma l’Europa non si è sognata di chiederlo. Per un motivo molto semplice: questo è un tassello fondamentale della costruzione europea, che impernia la concorrenza fra i Paesi sostanzialmente su due elementi: la concorrenza al ribasso del costo del lavoro e la concorrenza al ribasso sulla tassazione delle imprese. Ora, è evidente che se nella stessa area monetaria c’è uno Stato che fa pagare 12,5 % di tasse alle imprese, evidentemente  ho qualcuno che sta  facendo un dumping fiscale, sta facendo una concorrenza sleale nei confronti degli altri. È ovvio che questa cosa qui può funzionare soltanto se un gettito così basso è controbilanciato dal fatto che molte imprese si spostano in Irlanda, e questo a sua volta può accadere soltanto perché gli altri Stati non fanno lo stesso. Perché se gli altri facessero lo stesso non ci sarebbe più convenienza per le imprese ad andare in Irlanda, e il risultato che si avrebbe sarebbe una riduzione del gettito generalizzata e una crisi fiscale in tutti i Paesi. Trovo molto significativo che questa distorsione legalizzata della concorrenza in Europa basata sul dumping fiscale non sia stata eliminata neppure in presenza della grave crisi del debito che ha colpito l’Irlanda. 
Nel suo ultimo libro Anschluss. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”, come riportato da Alexander Hobel nella sua recensione, scrive che “la cessione della sovranità monetaria ed economica della Repubblica Democratica Tedesca, spianò la strada alla fine della sovranità politica”. Sta avvenendo così anche per i Paesi dell’Europa? Direi di sì,  ma in una misura che chi oggi governa in Germania trova ancora insoddisfacente. Guardi, durante l’ultimo Consiglio Europeo è avvenuta una cosa molto interessante.  La cancelliera tedesca ha cercato di forzare ulteriormente sul controllo dei budget dei vari paesi e sulle cosiddette “riforme strutturali”, e ha trovato un muro. Forse, una delle prime volte che ha trovato resistenze. Tutta la faccenda, quindi, è stata rimandata di un anno. Lei non ha preso bene la cosa. E ha fatto un paragone parecchio inquietante tra la Germania est e il resto dell’Europa. L’ha riportato ‘Le Monde’ (la fonte è probabilmente qualche esponente del governo francese) ed è stato ripreso dalla Tageszeitung. La Merkel ha detto più o meno questo: “guardate, io sono cresciuta in un paese che è stato salvato (le modalità di questo cosiddetto “salvataggio” le ho spiegate nel mio libro) dalla Germania ovest. L’Europa non potrà salvarsi se si continua a procedere in questo modo, come si faceva nel comunismo: non sarà possibile salvare l’Europa e quest’ultima esploderà”, etc etc etc. 
Le cose interessanti da notare sono due: la prima è che per la prima volta non si considera il comunismo come totalitarismo ma quasi come uno stato sociale eccessivo, uno stato sociale che non ci si può permettere, e la cosa è abbastanza singolare; la cosa più interessante, però, è un’altra: gli esponenti del governo tedesco continuano a partire  dall’idea che loro sono i salvatori dell’Europa e che il salvataggio consiste nel fatto di mettere in campo esattamente le politiche che loro hanno realizzato precedentemente. Infatti, il contesto della polemica era che la Germania ,come sta facendo da diversi mesi, ha riproposto alla Francia e ad altri paesi la necessità di fare propria l’Agenda 2010 di Schröder. Il cancelliere che ha preceduto la Merkel ha ridotto servizi sociali e sussidi di disoccupazione, ha creato un mercato parallelo di lavoro precario pagato molto poco e, in questo modo, ha rilanciato la competitività della Germania. Perché la competitività degli ultimi 15 anni della Germania non deriva dall’aumento di produttività, ma dal fatto che questo aumento (esso stesso tutt’altro che spettacolare) non è stato minimamente trasferito ai salari. Il segreto della competitività tedesca consiste in  una politica di dumping sociale. Dire questo può sembrare strano, perché i lavoratori tedeschi sono tradizionalmente ben pagati. Ma le loro condizioni sono peggiorate proprio grazie all’Agenda 2010: in Germania ci sono circa 8 milioni di minijobs pagati 450€al mese. e tutti gli indicatori sociali di povertà in Germania, in questo periodo, sono peggiorati. Secondo il rapporto annuale sulla povertà in Germania, uscito il 19 dicembre, i poveri in Germania sono in media il 15 per cento della popolazione, con un picco di oltre il 25 per cento in Pomerania Occidentale, nell’ex Germania Est “salvata” dalla Germania Ovest secondo la Merkel. Ma anche all’Ovest non si scherza, con il 23 per cento di Brema e una crescita della povertà superiore alla media nella zona della Ruhr. Se nella città di Dortmund i poveri nel 2005 erano pari al 17,4 per cento degli abitanti, ora sono cresciuti al 22,8 per cento.
Insomma: non sembra che le politiche seguite in Germania siano un successo strepitoso neppure da loro. Sono precisamente questi nuovi poveri che hanno pagato il prezzo delle esportazioni tedesche. Ma c’è di più:  anche in questo caso vale il discorso che si faceva prima sull’Irlanda. Anche le politiche di dumping sociale finalizzate a rafforzare le esportazioni  hanno un senso soltanto se non vengono generalizzate:  se vengono generalizzate comportano semplicemente un impoverimento generalizzato molto forte, e una crisi da domanda.
È quello che è già successo nei paesi del sud Europa, a cui queste politiche sono state imposte in una misura che la Merkel ritiene insufficiente ma che io ritengo eccessiva: e infatti uno dei nostri principali motivi di crisi è il calo della domanda interna. Sono soprattutto i produttori che producono soltanto per l’Italia a essere in grave crisi.
Se tutto questo è vero, è abbastanza singolare che si interpreti il ruolo della Germania oggi in Europa non come un partner fra gli altri, ma come uno che deve educare gli altri alla parsimonia, alle riforme strutturali, e che questo Paese chieda continuamente agli altri ulteriori cessioni di sovranità (oggi ad esempio sui bilanci), oltretutto   asimmetriche. Perché quando si parla dell’unione bancaria la Germania, invece, ha frenato: i tedeschi tendono ad andare avanti dove si sentono sicuri (controllo del budget e simili), ma dove si sentono – del tutto a ragione – poco sicuri, come riguardo al settore bancario, hanno imposto all’Europa delle regole che rendono l’unione bancaria estremamente sbilanciata.
Mi spiego: a Bruxelles verranno sorvegliate soltanto 24 banche tedesche, perché tutte le altre, e sono tante, perché il sistema tedesco bancario è poco concentrato, molto meno del nostro, si trovano sotto le soglie che il ministro delle finanze tedesco Schäuble ha imposto in sede europea. In concreto,  soltanto le banche che hanno più di 30 miliardi di attivi saranno sorvegliate da Bruxelles: per farle un esempio, in Germania ci sono 417 Casse di Risparmio ma una sola sarà sorvegliata da Bruxelles, quella di Amburgo. In altri paesi le banche sorvegliate sono molte di più, in termini di proporzione al Pil, perché i sistemi sono più concentrati.
Questa asimmetria non è una cosa da poco, perché comporta che l’unione bancaria non funzionerà: se io lascio fuori dal controllo di Bruxelles delle banche, che magari in sé sono piccole, ma che possono comportare un rischio sistemico, io non risolto i miei problemi. Questa posizione negoziale tedesca è passata anche se era facilmente contestabile, perché in Europa i rischi sistemici sono venuti spesso dal fallimento proprio di banche relativamente piccole, come la Northern Rock in Gran Bretagna o le Casse di risparmio in Spagna, che hanno innescato….
…un meccanismo a catena…
Certo: non è soltanto LehmanBrothers che ha provocato la crisi. In ogni caso, anche dietro i negoziati sull’unione bancaria, è facile scorgere un atteggiamento che si presenta  come europeista, ma che in realtà è egoismo nazionale neppure troppo mascherato.
Quindi si può dire, magari in maniera non corretta, che coloro che propugnano l’unione bancaria si troveranno senza la sovranità politica?
La cosa che dico è ancora un’altra: quando noi diciamo, e l’ho anche scritto nel mio libro, c’è soltanto l’unione monetaria e non c’è  l’unione politica, interpretando l’unione monetaria come una cosa di poco conto, non vincolante, non abbiamo capito il punto fondamentale: l’unione monetaria è uno dei vincoli più forti che ci siano. Il problema è, come si esce da questa situazione? Qualcuno pensa di uscirne cedendo ulteriore sovranità, sperando che così la situazione migliori. Io credo invece che si debbano  cambiare in maniera radicale le regole del gioco: se non si fa questo ogni ulteriore cessione di sovranità va nella direzione sbagliata, è destinata a peggiorare la situazione anziché migliorarla.
Io non desidero uno Stato europeo se le regole economiche che lo sorreggono sono quelle attuali: non ho proprio nessun motivo di desiderarlo, lo dico molto sinceramente. So che in Italia molti si dicono europeisti. Ma è una definizione mistificatoria in un momento in cui quello che si chiama europeismo, di fatto, è il privilegio degli interessi di un paese, o di un gruppo di paesi, su altri – compreso il nostro.
Questo è il punto, secondo me, fondamentale.
Quindi lei contrappone l’idea di europa dei popoli a quella del “grande capitale”, mi pare di capire..
Più in concreto, io  contrappongo l’idea di un’Europa che promuove il benessere dei propri cittadini ad un’Europa in cui sono stati impegnati qualcosa come 5000 miliardi di euro per salvare le banche. Questi miliardi di euro, poi, sono stati ribaltati e diventati dei sacrifici da imporre ai propri cittadini. In generale è questo meccanismo, per cui si socializzano le perdite e alla fine tutto diventa un carico fiscale da far pagare ai cittadini, alle imprese, a coloro che con questa crisi oggettivamente non c’entrano nulla,  è questo meccanismo che andrebbe assolutamente rovesciato. 
Io non credo che sia, neanche una cosa particolarmente rivoluzionaria, si tratta semplicemente di affermare l’idea che la politica e la politica economica non debbano essere determinate dalle grandi banche e dalle grandi corporations.
In questi anni noi abbiamo vissuto in uno strano mondo magico, mitologico in cui si dicevano certe cose ma se facevano altre: si diceva “bisogna lasciar fare al mercato”. Ma la cosa ha funzionato così: quando le cose andavano bene i profitti erano privati, quando hanno cominciato ad andare male le perdite sono diventate pubbliche. Che è un modo un po’ curioso di interpretare il funzionamento del mercato. Oltretutto, il risultato si è rivelato non solo ingiusto (quello che si è avuto è stato di fatto una redistribuzione dal basso verso l’alto), ma anche fallimentare da un punto di vista economico.
Ci sono dei fatti così evidenti che quasi ci si vergogna a doverli ricordare. Ad esempio il nostro Paese mette in campo, da diversi anni , una politica di austerity che è stata pesante, perché ha comportato un aumento della tassazione significativo e anche dei tagli ai servizi sociali che non sono irrilevanti, come sa chiunque vada a scuola o all’università, o abbia avuto modo di usufruire del servizio sanitario negli ultimi anni. Con un colpo di penna è stata aumentata l’età pensionabile di sei anni per alcune classi di età, e sono state ridotte le prestazioni. In questo momento siamo il paese europeo che ha l’età di pensionamento più elevata in assoluto, più elevata della stessa Germania. Di fronte a tutto questo uno è portato a credere : “il debito sarà diminuito!”. E invece no, il debito è cresciuto di oltre 10 punti percentuali. Anche volendosi tenere prudenti, siamo comunque ben oltre il 130% del Pil.
E questo per due motivi. Da un lato abbiamo dovuto onorare gli impegni europei sul fondo salva stati, di cui non abbiamo usufruito ma al quale abbiamo pagato 50 miliardi di euro (contabilizzati come debito – cosa folle ! –  secondo le regole europee). Oltre a questo, il resto dov’è? Molto semplice: le politiche di austerity hanno provocato una perdita del prodotto interno lordo per cui la proporzione del debito sul Pil è peggiorata. Questa era una cosa prevedibile, largamente prevista, io stesso in un libro che ho pubblicato in prima edizione all’inizio del 2012 l’avevo detto, e purtroppo a ragione. E non sono il solo.  In diversi hanno previsto questa cosa: totalmente inascoltati perché bisognava andare dietro alle sirene dell’austerity come misura salvifica per la nostra economia.
La verità è che non abbiamo salvato un bel niente, che il gettito fiscale è risultato inferiore alle attese nonostante l’aumento delle tasse  –  ovviamente, perché quando c’è la crisi il reddito diminuisce, e con esso le tasse – , e che stiamo peggio di prima. Un minimo di onestà intellettuale dovrebbe indurre a dire che  bisogna non correggere, ma cambiare la rotta, cambiare strada..
Politicamente parlando, i governi che difendono e tutelano queste politiche, si è detto più volte, sono i governi di grande coalizione, ultimo caso quello tedesco. Ma in che modo i governi traballanti come quello letta possono mettere in prati s ricette economiche come quelle europee?
E’ evidente a tutti che siamo in una situazione di incertezza. Con la maggioranza attuale,  anche misure che sembrano facili diventano complicatissime: basti considerare  il balletto sull’Imu etc. E’ evidente che, in effetti, i governi di grande coalizione hanno il pregio  di avere una larghissima maggioranza parlamentare, ma hanno il difetto di essere esposti a ricatti reciproci e ceti incrociati. Il difetto principale però è un altro: il fatto di non esprimere, nel caso italiano, una maggioranza chiara emersa alle elezioni, che sarebbe in grado di dare anche più voce in capitolo in Europa ai nostri rappresentanti. Qui dietro però c’è un altro tema molto più grande, secondo me. Perché lei giustamente diceva che i governi di grande coalizione sono in Germania, sono in Italia, io aggiungo che sono in Grecia. Ma il presupposto reale di queste coalizioni è sempre più spesso il fatto che i  partiti quelli di centrodestrae quelli socialdemocratici in realtà propongono ricette politiche molto simili.
Qui c’è un problema gigantesco che consiste com’è ovvio negli interessi tutelati , ma è anche un problema culturale. Probabilmente la cultura neoliberistica, per usare una definizione generale che forse andrebbe meglio precisata, ha fatto breccia su un numero vasto di forze politiche. E invece è sempre più urgente la necessità di avere Allora, comunemente, il tema è proprio quello di dare rappresentanza anche a posizioni che rifiutano questo genere di approccio. Qualche anno fa andava di moda parlare del pensiero unico, io all’epoca ero un po’ perplesso perché pensavo che fosse  una definizione un po’ semplicistica, . Forse chi parlava di pensiero unico non aveva ragione allora, ma avrebbe ragione adesso. Il dibattito pre-elettorale che c’è stato in Germania, ad esempio, era paradossale: nei confronti televisivi tra la Merkel e Steinbrück – che era lo sfidante della Spd –  c’erano delle sfumature ma più o meno dicevano le stesse cose. E del resto già nella scorsa legislatura  la SPD, per essendo all’opposizione, ha quasi sempre votato col governo.
E non a caso  il referendum interno della Spd ha ora votato a favore delle larghe intese con la Cdu della Merkel.
Esatto. E la SPD che rientra nella coalizione di governo non fa nulla per scalzare dal suo posto uno dei principali responsabili delle politiche che sono state effettuate sinora: il ministro delle finanze Schäuble.  È il posto più importante di tutto il governo! Non ci hanno neanche provato,  perché più o meno la pensano allo stesso modo. Al posto delle grandi coalizioni ci vorrebbero dei grandi pensieri. Quanto meno dei pensieri nuovi e più ambiziosi. Che non si rinchiudano nella difesa di un ordine sociale e istituzionale, come quello europeo attuale, che non funziona.