La biblioteca del Prof(e). Richard Macksey a Guilford, Baltimora, Stati uniti d'America |
«Scusa, maestra posso andare a bere?», e lei con un cenno della testa ti diceva che si, potevi andare, l’importante era utilizzare il tuo asciugamani con le iniziali cucite da tua madre ad hoc per evitare che il tuo andasse troppo in giro o che, peggio ancora, venisse scambiato con quello di altri.
Maestra era anche il modo con cui ci rivolgevamo alle elementari ma, già verso la quinta, si iniziava a dare del lei perché alle medie non c’erano più loro ma le professoresse. Il ruolo era lo stesso ma la figura si discostava leggermente: si faceva più imponente e più autoritaria. Quel lei conferiva distanza e vicinanza: la prima era tutta a vantaggio di chi stava «dall’altra parte della barricata», la seconda era – paradossalmente – a vantaggio del discente che iniziava a prendere le misure con il mondo oltre la maestra.
La professoressa era una sorta di übermaestra: sapeva tutto
di te anche se non ti aveva mai visto e si sforzava a dirti che dovevi
rivolgerti a lei con la terza singolare e con il verbo coniugato al
congiuntivo. Se coniugavi male o pronunciavi un fantozziano vadi o facci ti toccava la flessione del verbo.
Inflessibile: appena sentiva un tu, diceva: «scusa, come?!».
Meravigliosa era la professoressa Fosca che, appena sentiva uno studente
della classe dire «dai» rivolgendosi a lei, scattava incalzandoti:
«dai?!? DAI?!?». Il più creativo era chi rispondeva: «DIA, DIA!» oppure
c’era chi si sentiva già in odor di medioevo rispondendo: «Scusi, scusi:
suvvia!»
Capitava, però, che nella foga del voler rispondere, in quel
frangente simile alla lotta fra oppressi chiamata “interrogazione dal
posto”, il termine professoressa si abbreviasse in «pessoré!»:
tutte le altre sillabe, evidentemente inutili, erano state sacrificate
per poter estendere verso l’alto il braccio destro o sinistro con
l’indice ben visibile. Più lo si alzava, più si era sicuri della
risposta che si dava.
Capitava, però, che l’abbreviazione da pié-veloce (pessoré!)
venisse attribuita anche agli unici due professori maschi del consiglio
di classe: don Angel e Pernaselci di musica. Un’anomalia bella e buona.
In quel caso l’accento sulla e finale non rappresentava l’invocazione al genere femminile dell’insegnante: jamais!
Era piuttosto un rafforzativo del professore in sé: come se
l’espressione fosse “OH, PROFESSOREE”. Con quella immaginaria doppia e che
evidentemente andava a caratterizzare l’interlocutore uomo con cui si
voleva intrattenere una conversazione, pur limitata in ambito
scolastico.
Con le superiori si dichiarava finita l’esperienza del pessoré: quel termine veniva abbandonato alla chiusura dei cancelli delle medie (scuolasecondariadiprimogrado). Varcare le porte del liceo significava abbracciare l’idea che la professoressa (donna) poteva anche essere un professore (uomo): non più un’anomalia. Allora il termine si abbreviava naturalmente in «prof». L’abbreviazione era una vera e propria ancora di salvezza: veniva accettata dall’insegnante, uomo o donna che fosse, ed era tanto sbrigativo quanto professionale: «hai sentito il prof. di greco?». Improvvisamente diventavamo tutti grandissimi perché utilizzavamo le abbreviazioni.
E così è stato anche nei primi anni di servizio dall’altra parte della barricata: «buongiorno prof», «salve prof», «ciao prof». Talvolta i più audaci ti chiamavano «professò», riprendendo l’abbreviazione che fu tipica del genere femminile riservata alla parte docente delle medie (scuolasecondariadiprimogrado). Qualche ragazzo di qualche scuola di periferia osa, ma solo verso la fine dell’anno e solo se c’è stato un buon rapporto, con un «ciao professò» mentre si accinge ad entrare in aula con lo zaino su entrambe le spalle, strascicando le suole delle scarpe grosse come carri armati (ma rigorosamente alla moda).
Qui a Bergamo è diverso. Non c’è il prof ma il profe. Con la o chiusa. Ed è una abbreviazione che calza a pennello sia in caso di insegnante uomo, sia in caso di insegnante donna. «Profe, buongiorno!», ti dicono. Lo scrivono anche nei messaggi di posta elettronica. Ma è una cosa che vale solo a Bergamo: in nessuna altra zona della Lombardia c’è il profe: è tipicamente bergamasco.
È strana, neh, una sorta di unicum delle valli bergamasche nel rapportarsi con l’insegnante.
Strana… Ma, proprio perché è così, è anche molto tenera.
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