Ad inizio 2023 si è tornati a parlare di violenza ostetrica, soprattutto a causa di un fatto di cronaca avvenuto a Roma presso l’Ospedale “Sandro Pertini”: una donna di 29 anni, già ricoverata presso il medesimo nosocomio, si addormenta nella notte fra il 7 e l’8 gennaio mentre allatta il figlio appena nato dopo 17 ore di travaglio. Il bambino sarebbe morto il giorno successivo. «Più volte ho chiesto in reparto di essere aiutata - ha dichiarato dopo i fatti la donna al quotidiano «Il Messaggero» - perché non ce la facevo da sola e di portare per qualche ora il bambino al nido per permettermi di riposare, eppure mi è stato detto sempre di no». Donne lasciate sole senza avere possibilità di aiuto concreto da parte del personale medico. Eppure, partorire non dovrebbe rappresentare un’espressione di malattia quanto piuttosto un evento naturale a cui le donne potrebbero avvicinarvisi in maniera informata e consapevole. Tutto sta in una parola: “fisiologia”.
Ne abbiamo parlato con l’ostetrica Maria Carolina Salvi, ostetrica libera professionista.
Perché in Italia si parla di “violenza ostetrica”?
«Purtroppo attualmente non conosciamo un altro modo di partorire che non comporti manovre invasive e lesive per la salute della donna. In taluni casi anche di quella del nascituro. La gamma di azioni che possiamo classificare come violenza è molto ampia: si va dal non rispetto della privacy (ad esempio il fatto di dover partorire davanti a più personale medico [e non] nonché ad ostetriche) al non rispetto delle decisioni di coppia sull’evento-nascita, sulla salute del proprio bambino fino ad arrivare alle più lesive».
A cosa ti riferisci?
«Mi riferisco a manovre invasive e lesive dell’integrità della persona, come ad esempio l’episiotomia [un taglio netto di più strati muscolari], la “manovra Kristeller” [una pressione su un fondo uterino verso il basso] che “dovrebbe” favorire la fuoriuscita del bambino ma che, in realtà, comporta una coercizione. Nonché una manovra invasiva, come già detto».
A proposito del fatto tragico con cui abbiamo introdotto l’intervista: quella donna è stata lasciata sola. L’effetto dei tagli alla sanità ha portato a questo?
«Siamo inseriti in un sistema che non valorizza la donna, la depotenzia e la depaupera di moltissime risorse. Ad esempio la presenza di un compagno (magari padre del bambino, [ride]) nell’immediato post-parto che possa fare il papà e che si prenda cura del bambino e della mamma. I tagli alla sanità sono il mezzo attraverso cui situazioni a rischio degenerano e si trasformano in tragedie. Una mamma nel post-parto non deve essere mai lasciata sola perché fisiologicamente è portata a creare legami che le permettano di accudire il proprio bambino in serenità».
Come si esce dal binomio ospedalizzazione-patologia?
«Se ne esce rendendo la gravidanza prima, e l’evento parto e nascita poi, un evento fisiologico che sia una scelta e non un binario obbligato ridotto agli studi medici. Che se ne parli con figure professionali che sono formate e aggiornate sulla fisiologia del parto e della nascita, aventi competenze per discernere quando una gravidanza sia fisiologica e quando, invece, ha dei criteri di attenzione per cui ci si deve avvalere della competenza di un esperto di patologia, quale è il ginecologo, ad esempio.
Quindi partorire non significa patologia?
«Categoricamente no. Si chiama “stato interessante” proprio perché debba essere attenzionato non perché debba essere vessato e pilotato».
Che significa “gravidanza” e “parto fisiologico”?
«Parlerei piuttosto di fisiologia in sé»
Parliamone.
«Significa che all'interno della gravidanza e del parto ci sono risorse di salute, di cui la donna deve essere resa consapevole, che sono funzionali al buon percorso della gravidanza e che sono finalizzate ad un positivo espletamento del parto»
Cioè?
«Se una donna ha compiuto un percorso di salute nella fisiologia durante la gravidanza, avrà molte più possibilità di una buona riuscita del parto»
Esistono realtà in Italia che non “patologizzano” l’evento-nascita?
«Non credo che esistano “realtà” ma professionisti che possono fare la differenza in tal senso.
Ad esempio: posso lavorare in un ospedale che ha un alto tasso di medicalizzazione e, comunque, attuare comportamenti di tutela delle donne che assisto (ad esempio favorendo libere posizioni in travaglio o evitando di somministrare integratori inutili o nocivi talvolta). Oppure, al contrario, posso far parte di una struttura privata – o in regime di libera professione in autonomia – ed essere io stessa vettore di integrazioni inutili e/o comportamenti di abuso. In buona sostanza: è la/il professionista che fa la differenza. Certo è che in ospedale il lavoro è molto più difficile».
«La persona fa la differenza in una struttura ricettiva delle richieste delle donne. L’importante è che la donna sia realmente al centro e non il profitto. La scelta della donna deve essere libera, informata e consapevole».
Gli unici tre paesi ad aver legiferato sulla violenza ostetrica sono in America Latina (Messico, Argentina, Venezuela) [1].
«In Italia il problema più grande è che gli episodi a cui accennavo non sono facilmente documentabili, dal momento che quelle stesse manovre spesso vengono spacciate alle donne per garanti della riuscita di una buona nascita quando in realtà sono esse stesse che potrebbero più facilmente essere iatrogene [cioè portare una patologia indotta], cioè recare danno alla donna. E spesso queste stesse non sono nemmeno annotate nelle cartelle cliniche.
Dall’America Latina è partito il ‘movimento’ che ha portato al cambiamento delle linee dell’OMS a riguardo. È bene che in Italia si inizi a fare una reale mappatura della situazione e si inizi a guardare a Paesi (Svizzera, Regno Unito) in cui le leggi sono più aggiornate, le procedure e i tanto amati protocolli sono basati sulle evidenze scientifiche e non sulla pratica usuale ospedaliera.
Hai citato, per altro, due paesi che non fanno parte dell’Unione Europea...
«Buona osservazione. Non porrei la questione sulla distinzione binaria UE/non-UE, perché non ho le competenze per farlo».
Su quale base, allora?
«Partiamo dall’Italia. Il fatto che ad oggi ci sia una netta distinzione tra ostetriche ospedaliere e non ospedaliere, che non ci sia un percorso che fa tendere la donna all’unità nella relazione assistenziale, complica terribilmente le cose».
«Perché non c’è l’attenzione 1 a 1 nei confronti della donna, è seguita da professionisti sempre diversi tra loro che non le assicurano una continuità nel percorso di gravidanza, parto e post parto e spesso questi stessi professionisti sono oberati di burocrazie che mirano solamente alla tutela legale. Perché spesso la donna è abbandonata a se stessa e non supportata e tutelata da una rete che sia presente anche al momento della dimissione a 48 ore dal parto».
Un’ipotetica soluzione quale potrebbe essere?
«La vera risorsa penso che sia lavorare sulle giovani generazioni, cioè sulle ragazze fin dall’adolescenza, in modo che arrivino più preparate all’evento-gravidanza e all’evento-nascita. In modo tale che si riconoscano in un corpo che è ‘bello’ e ‘potente’ e ‘competente’, che non ha bisogno di essere guidato o controllato dall’esterno perché [il corpo] sa quel che può e che deve fare».
Quindi l’ostetrica è una figura positiva per la partoriente?
«E me lo chiedi?! (ride). È fondamentale fin dalla prima mestruazione: deve essere colei che tutela lo spazio fisico della donna e le permette di diventare sempre più consapevole delle sue potenzialità, in qualsiasi fase della vita».
Note:
[1] Angela Galloro, Violenza ostetrica, tra tabù e omertà diffusa, 26 maggio 2023, «Micromega».
Pubblicato su Atlante Editoriale: https://www.atlanteditoriale.com/una-buona-nascita-parte-da-una-buona-informazione/
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