Forconi, la protesta antisistema - intervista a Carlo Pala

Articolo pubblicato su Lindro.it https://www.lindro.it/forconi-la-protesta-antisistema/
All’interno del movimento dei Forconi vi è un crogiolo di movimenticomitaticittadini autorganizzati che vogliono scendere in piazza per mostrare i muscoli e far vedere di cosa sono capaci. Far valere le proprie rivendicazioni, in sintesi. Il movimento che dal 9 dicembre porta in piazza diverse migliaia di persone si è caratterizzato camaleonticamente e non si è ancora riuscito a fornirgli una connotazione politica ben precisa.
I comitati, dunque, tutti quelli che si riconoscono nella protesta partita dagli autotrasportatori del 9 dicembre scorso, sono accomunati da una battaglia ‘anti sistema’ e ‘anti istituzionale’ che unisce il più vasto insieme di lotte vertenziali e comitati estremamente locali. Dalla località dei territori, alla globalità delle proteste in tutto lo Stivale; dall’anticastaall’antieuropeismoCarlo Pala, primo politologo barbaricino e docente presso l’università di Sassari, prova a tracciare un quadro delle proteste che stanno infiammando il Paese. A partire, quindi, dalla nomenclatura: i cosiddetti Forconi sono nati in Sicilia, in concomitanza della nascita del movimento dei pastori della Sardegna.
Forconi, comitati del 9 dicembre, agricoltori, autotrasportatori, strade bloccate e disagi. Tutto questo ha portato ad una protesta antisistema che si è fatta sempre più palese col passare dei giorni, oggi è 13 dicembre e le proteste non scemano. Come si inquadra il modus di protesta antisistema degli italiani? 
Una piccola ricostruzione di verità occorre farla. Il movimento dei Forconi è nato quando in Sardegna si sviluppava il Movimento dei pastori. Questo movimento dei Forconi è nato in Sicilia per opera di diversi agricoltori e aveva una connotazione fortemente regionale e non aveva minimamente la pretesa di caratterizzarsi nazionalmente. Questa volta, in questi ultimi giorni, c’è stata una protesta similare che è partita da alcune partite categorie professionali, di persone, a cui è stato semplicisticamente dato il nome di Forconi ma che con la protesta, inizialmente avvenuta in Sicilia, aveva poco a che fare, senonché anche in Sicilia i forconi ‘veri’, quelli che inizialmente si erano definiti tali, hanno cominciato a protestare. Questa è una prima distinzione che va fatta, altrimenti si accomuna tutto in un’unica etichetta e non va assolutamente bene.
Quello che sta accadendo adesso è che tutta una serie di persone, di categorie professionali, di movimenti, di protesta che prima erano abbastanza sparpagliati – potremmo usare questo termine – si sono uniti in funzione di una protesta che, però, non si capisce nemmeno bene a che cosa voglia tendere. Probabilmente per il fatto che ci sono diverse componenti, all’interno di questo movimento, e probabilmente anche per il fatto che manca una regia, o meglio, manca una regia chiara. Ma i media molto spesso fanno emergere, non so se a torto o a ragione, come questa protesta sia effettivamente gestita da persone che stanno all’ombra: c‘è qualcuno che adombra, tanto per giocare con le parole, anche il fatto che vi siano delle persone poco raccomandabili, o comunque delle organizzazioni, che non hanno niente a che fare con i veri motivi della protesta. Addirittura c’è qualcheduno che dice che dietro a tutto questo ci sia una destra organizzata e di proporzioni sempre più crescenti. Naturalmente ora non si può stabilire cosa ci sia dietro, certo è che questa è  una protesta che per il momento non accenna a diminuire e, fondamentalmente, ma questa non è una novità, si rivolge in modo particolare alle istituzioni, soprattutto quando c’è stata la fiducia al Governo Letta, si è esacerbato il momento in cui questa protesta è avvenuta, però manca ancora una posizione comune.
Tanto vuol dire tutto questo che, ad esempio, in tv non si è ancora visto un vero leader, o comunque uno dei diversi leader di questo movimento, ad essere chiamato a spiegarne le ragioni. C’è, poi, il Ministro Angelino Alfanoche dice come non si debba prestare il fianco alla protesta, soprattutto chi sta nelle istituzioni -riferendosi ovviamente alla Lega- non deve sobillare chi sta fuorisi possono capire le ragioni della protesta altrimenti la risposta del Governo sarà dura in qualsiasi caso. Cioè, cosa significa: il Governo vede questa ondata di sommovimenti come proteste che possono degenerare, quindi ne teme l’effetto, e il Copasir stesso ha detto che non bisogna sottovalutarne il fenomeno,  e quindi tratta i movimenti come un problema di ordine pubblico.
I movimenti stessi fanno, però , un pò fatica a evidenziare, ed imporre, quelle che sono le loro ragioni. Per cui vedo una situazione ancora molto fumosa e abbastanza precaria, da questo punto di vista: cioè, la gente non ha ancora capito bene che cosa sta accadendo, a parte i blocchi nelle strade eccetera, dove naturalmente verranno consegnati dei volantini alla gente di passaggio, effettivamente non si è ancora ben capito cosa stia accadendo. Questo movimento non ha ancora, ma non ha detto che non ce l’abbia di qui a brevissimo, una forma definita.

Ha tirato in ballo il Governo, quindi ti chiedo: il voto antisistema, antieuropa, per ‘mandare tutti a casa’ fino a febbraio era rappresentato dal Movimento 5 stelle. Gli stessi manifestanti hanno inglobato i parlamentari-cinque-stelle all’interno della cosiddetta casta. Cos’è cambiato dal voto di febbraio?
Probabilmente niente. E’ semplicemente il fatto che, adesso, ad agìre della protesta così forte non è più il Movimento 5 stelle che, da un certo punto di vista, è stato identificato come appartenente al sistema, una volta entrato in esso, dalla gente che sta fuori delle istituzioni. Cioè, a febbraio c’era una certa fiducia nell’attribuire al Movimento cinque stelle quel genere di proteste che dovevano essere portate all’interno dell’istituzione stessa. Avendo visto che, invece, il movimento cinque stelle non è stato propriamente all’altezza di questa mansione, la società, o parte della società, ha provato ad organizzarsi al di fuori. Per cui non è immutato,  secondo me, lo spirito anticasta, antisistema, antipolitico e chi più ne ha più ne metta, semplicemente si è spostato l’asse di evidenziazione.
Da un momento in cui è sembrato che potesse essere agitato all’interno delle istituzioni proprio attraverso il Movimento Cinque Stelle, ora invece si è capito che bisogna riagìrlo, riattivarlo e cavalcarlo -per così dire – al di fuori. Quindi, diciamo, che è mancata anche questa connessione, perché lo stesso Beppe Grillo, anche se timidamente, ha provato a dire che questa è una protesta giusta, che va appoggiata etc etc, ma non c’è stato allo stesso tempo un chiaro segnale da parte di chi sta protestando, nell’individuare il Movimento Cinque Stelle come un partner importante di veicolazione della protesta stessa. Probabilmente è il classico caso di disconnessione, semmai ci sia stata una connessione, di un elemento all’interno dell’istituzione che voleva portare avanti le idee di chi stava fuori.  E invece chi sta fuori che -per slacciarsi ancora di più dalla casta – ha pensato di fare tutto da sé.
Da una parte i cosiddetti Forconi, dall’altra gli studenti de La Sapienza di ieri. Da una parte  la notizia -anche strumentalizzata- dei poliziotti che, solidarizzando con le manifestazioni dei Forconi hanno abbassato scudi e tolto caschi; dall’altra le forze dell’ordine che  ‘caricano’ gli studenti. C’è una diversa percezione tra una rivendicazione e l’altra da parte dell’opinione pubblica o è tutto inglobato in un’unica protesta?
Potrei dire che, poverini, gli studenti sono sempre i più sfortunati perché sono quelli che protestano, a mio modo di vedere, a maggior ragione -spesso è successo così-  e invece sono quelli che pagano maggiormente le conseguenze di queste proteste. Il fatto che il poliziotto si sia tolto il casco non vuol dire assolutamente nulla, non vuol dire granché: ci si dimentica che anche durante il G8 di Genova ci sono stati dei casi, per nulla ricordati, di poliziotti che non avevano voluto infierire o, comunque, avevano avallato determinate cose. La visione del casco è assimilabile a questo comportamento e probabilmente lo potrebbe essere anche il comportamento di quei poliziotti, ma non è lì il punto. Il punto è che si vuole, in un certo qual modo, accomunare la protesta di chi oggi sta scendendo in piazza, e sta bloccando le strade, con la protesta di tutti gli italiani. Ovvero c’è il tentativo di chiarire come questa protesta possa essere percepita, e possa essere agìta, sulla base di  tutte quelle che sono le componenti sociali del Paese. Ma così non è! Innanzitutto perché difficilmente è concepibile una cosa di questo genere, secondariamente perché nel momento stesso in cui tu dai un’etichetta ad un movimento o non riesci a dargliela perché composito al proprio interno -come sta avvenendo adesso- è normale che devi creare una interlocuzione o, comunque, anche un antagonista.
Questa volta i poliziotti, che sono sempre stati visti come antagonisti, diciamo così, di come coloro che difendono lo status quo -ricordiamoci Grillo che cosa detto pochi giorni fa: «mettetevi dalla parte di chi protesta perché anche voi siete parte di quella protesta», per esempio, salvo oggi smentire per confermare «Nessuno ha incitato all’insubordinazione le forze dell’ordine, a meno che insubordinazione significhi togliersi il casco e sfilare con la gente esasperata»-   non ha funzionato ugualmente, perché in ogni caso i poliziotti sono sempre scesi a fare il proprio mestiere.  Checché se ne abbia da dire sul giudizio che si può dare del loro comportamento, o del comportamento dei manifestanti,  non vedo questo tentativo di contrapposizione, oppure a volte, anche di assimilazione delle due componenti come efficace. Perché, appunto, con gli studenti non è successo e anzi sono stati caricati anche prima che potessero iniziare una forma di protesta lì a Roma. Quindi non può valere lo stesso principio in un caso e invece per un altro no semplicemente sono contesti diversi.
Com’è possibile che la destra sia riuscita ad immettersi nei temi delle proteste del 9 dicembre e la sinistra non sia stata neanche contemplata? 
Bella domanda, ma è molto utile per capire che grado di influenza possano avere oggi, in tutta Europa, i movimenti di destra con quella che è la crisi economica. Non solo il caso della Grecia con Alba dorata, ma vediamo che anche in Gran Bretagna, in Germania e in Francia, quindi Paesi per lunga tradizione democratica si siano trovati e si stanno trovando di fronte a fenomeni di questo genere, a parte la Grecia che ha chiuso con la dittatura dei colonnelli nel 1974. Mi si potrebbe dire “ma l’estrema destra c’è sempre stata e ha sempre cavalcato, in un certo qual modo, la protesta sociale”.  Ma perché soprattutto adesso si vede che la destra ha questo vantaggio? Secondo me, due sono le ragioni: la prima è l’Europa. Ossia l’Europa è percepita, sempre di più, anche attraverso difficoltà che fa passare l’Euro, come l’origine di tutti i mali. L’origine della crisi, sappiamo che è stata e deve essere collocata oltreoceano, eppure qui in Europa si pensa che mentre oltreoceano o da altre parti siano state portate avanti delle politiche in grado contrastare la crisi economica, da noi l’Euro, e una politica finanziaria che andava semplicemente a salvaguardare la moneta unica, e non ad agire concretamente nelle leve economiche per migliorare le condizioni della popolazione, è stata letta maniera diversa.
Per cui l’Europa è uno dei primi elementi da considerare. Il secondo elemento, purtroppo non una novità per chi si colloca in quella parte politica, è che la sinistra non riesce più ad intercettare le proteste popolari. Se questo era normale, ad esempio, diversi decenni fa, ora non lo è più. Perché questo? Secondo me avviene per due ordini di ragioni: la prima è che la sinistra, oggi , è diversamente collocata su posizioni che non agevolano un processo di sintesi delle posizioni politiche comuni di sinistra; il secondo è che i partiti di sinistra non hanno più quella forma in grado di attirare la gente a partecipare. Essi sono ancora strutturati in modo tale da rispecchiare quelle che sono le idee di partito che si avevano ancora negli anni 70 e 80. Mentre l’estrema destra, invece, organizzata più o meno in partiti, o più o meno in movimenti, è molto più movimentista, è molto più immediata e penetra, anche con linguaggio politico, più nelle corde dei cittadini.
Ora, cosa sta accadendo adesso nella protesta dei cosiddetti Forconi rispetto alle infiltrazioni di destra, è ancora presto per dirlo. Prima dicevo che c’erano alcuni media che avevano sottolineato il fatto, che vi potessero essere degli attori appartenenti ad ambienti di destra, o di estrema destra che, in un certo qual modo, agivano o influivano all’interno di questa protesta. Ora, non so dire se questo sarà così, sarà approvato e dimostrato come tale. Certo è che sempre più si dice di persone, che facevano parte degli ambienti di destra, anche in Veneto, che sono stati visti, che sono stati notati come elementi di spicco nell’organizzazione delle proteste. Occorre verificare quali sono, infine, i contenuti della protesta stessa, se ci sono dei temi di policy, come si dice nel nostro gergo, di politiche pubbliche chiaramente di destra. Per il momento, ad esempio, giusto per fare un riferimento classico ai temi di destra, non ho visto le proteste caratterizzarsi per una xenofobia o per un populismo spicciolo.
Per il momento non si è visto, non si è assistito al fatto di voler affermare che l’immigrazione è una causa della situazione. Certo è che un altro tema di destra molto importante, e mi ricollego a quanto dicevo prima, è l’antieuropeismo. Non perché esso sia collocabile solo a destra: assolutamente no!  Ci sono molti partiti di sinistra che dal loro punto di vista sono anche europei, ma non antieuropei per l’idea dell’unione dei popoli, ma quanto per le istituzioni che questa unione vuole rappresentare. Per cui la destra e la sinistra si dividono da questo punto di vista, ecco. Però, sicuramente, l’impronta antieuropea è un tema che è cavalcato in modo particolare dalla destra.  E la sinistra a volte, non dico che insegua perché non insegue, la trovo in difficoltà a contrapporre elementi di riflessione tali da poter dire la propria. Quindi sono assolutamente fuori da questa partita: non vedo la sinistra, di certo, come una delle principali collocazioni politiche a cui questi ‘protestanti’ si rivolgano, anzi.
Tra l’altro Lei prima ha fatto riferimento al Veneto e proprio l’inizio delle proteste c’è una forza indipendentista veneta come la Liga veneta che aveva cavalcato la protesta mettendoci il ‘cappello’. Ed era uscita allo scoperto assieme alla Forza Nuova del Veneto per affermare che erano loro ad aver organizzato i primi focolai di proteste.
Questa domanda mi consente di fare un altro riferimento che in Italia non si conosce tanto bene. Una delle prime proteste di questo genere, con contenuti completamente differenti,  ma che in un certo senso è stata forse quella che ha originato diversi tipi di proteste anche in altre parti d’Europa, non dico che l’Italia si sia legata a quella a cui sto per fare riferimento:  la protesta degli agricoltori in Bretagna.  La protesta degli agricoltori in Bretagna, che nasce anche con forti connotazioni regionaliste autonomiste e federaliste se non anche indipendentiste in alcune sacche di quella protesta,  nasce come e con l’idea di fondo che la Francia non può imporre, attraverso l’egira dell’UE, dei dazi per la commercializzazione di prodotti che vengono realizzati in quella regione. Da lì, nasce un’ondata di proteste che va a finire anche alla lotta contro il pedaggio che la Francia voleva far pagare agli automobilisti che arrivavano in Bretagna. O che uscivano da essa. Naturalmente ciò avrebbe rappresentato e, potrebbe rappresentare per l’economia di quella regione, un colpo durissimo: si impedirebbe, effettivamente, di avere una libera circolazione delle merci in una regione che, comunque, è abbastanza periferica rispetto al resto della Francia.
Questo è un esempio, naturalmente, non è esaustivo. Ma è da lì che nascono una serie di proteste in giro per l’Europa, a cui bisognerà capire se quelle dell’Italia possa essere in qualche modo assimilabile. Credo di no, certo è che -cronologicamente- è proprio la Bretagna che ha iniziato questo tipo di proteste. Il fattore che accomuna tutte le proteste, in tutte le Nazioni, è la componente antieuropea. Per cui ci può essere nelle Fiandre il Vlaams Belang, che è un partito indipendentista fiammingo di destra, che ha portato avanti una serie di proteste ad Anversa che sono anche a sostegno degli agricoltori e dei pescatori fiamminghi, contro l’Unione Europea. Per cui c’è sempre questa dinamica stretta di legare delle proteste a quanto impone l’UE. In più ci sono alcune regioni che -magari- sono sensibili a temi più locali, regionalisti, così come si dice in un linguaggio un po’ più tecnico, che anche loro portano avanti questo tipo di protesta. Questa avvenuto anche in Sardegna, in parte, è avvenuto in Catalogna e, credo, che stia per avvenire anche in Scozia. Per cui, potrebbe essere una protesta che potrebbe avere una connotazione anche regionale. Secondo me non è ancora così organizzata e pronta per essere percepita come tale, direi che la protesta è fondamentalmente a livello nazionale, a livello centrale.

Primarie con legge elettorale proporzionale - Intervista a Carlo Galli

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Domenica scorsa si sono tenute le primarie del Partito Democratico, non di coalizione come quelle che hanno determinato il candidato Primo Ministro Pier Luigi Bersani. Prima dello sfacelo di febbraio, della non-vittoria del centrosinistra e delle larghe intese.
Dopo tutti gli accadimenti che ben si conoscono (larghe intese,  patto di Governo Pd-Pdl, ora Forza Italia) Pier Luigi Bersani si dimise da Segretario del partito per far posto, seppur per una fase transitoria, al traghettatore Guglielmo Epifani.
Ex Segretario della Cgil, socialista, era costretto a tenere in piedi «la ditta», come era stata chiamata dal suo predecessore, e traghettarla a nuove primarie, quindi ecco la data: dopo controversie interne legate alle regole, tensioni e minacce di scissioni, l’8 dicembre si sarebbero tenute le primarie del Pd.
Il quadro politico, però, nel frattempo si era fatto piuttosto singolareSilvio Berlusconi era appena decaduto da Senatore, la scissione dei cosiddetti ‘alfaniani’ che avrebbero poi costituito il NCD (Nuovo Centrodestra) era ormai manifesta, e, il 3 dicembre, la Corte Costituzionale si sarebbe pronunciata circa gli elementi di incostituzionalità della legge 270/2005,  la Legge Calderoli, il Porcellum.
Quindi, la Corte sancisce che gli elementi del premio di maggioranza e delle liste bloccate sono incostituzionalirestituendo agli elettori un sistema proporzionale puro, ma  con sbarramento al 4%.
Il Partito Democratico, dunque, ha eletto il proprio Segretario, Matteo Renzi,  in un quadro politico che vede: un sistema elettorale proporzionale e una Repubblica Parlamentare e non Presidenziale. Che non prevede, dunque, l’elezione diretta del Capo dello Stato né, tantomeno, stando così la legge elettorale e nel caso più sfortunato in cui le elezioni si dovessero tenere di qui a breve senza che il Parlamento abbia messo mano ad un nuovo sistema, il Segretario del Pd potrebbe non essere designato dal Presidente della Repubblica per un mandato esplorativo per formare l’ipotetico Governo.
Dato, appunto, il sistema elettorale ora vigente.
Anche perché il sindaco di Firenze, ed ora neo segretario dei democratici vorrebbe, e manterrebbe, un sistema maggioritario per arrivare ad una sintesi in senso bipolare del sistema partitico italiano che si sostanzi anche con l’elezione diretta del candidato Primo Ministro dei due schieramenti contrapposti.
Questi ed altri nodi prova a scioglierli il politologo Carlo Galli, docente presso l’Università di Bologna e deputato del Partito Democratico
Si sono concluse le primarie del Partito Democratico in un sistema elettorale proporzionale e con un architrave istituzionale non presidenzialista. Che senso ha svolgere  le primarie con questi due fattori? L’Italia non è l’America in cui è presente l’elezione diretta del Capo dello Stato …Le primarie alle quali abbiamo partecipato domenica sono servite ad eleggere il segretario del partito. Probabilmente  non sarebbe corretto definirle primarie, dato che con quel termine si intende – di solito – la determinazione dei candidati ad una carica elettiva monocratica. Noi le chiamiamo primarie, però, per indicare la nostra volontà di rendere partecipate le scelte fondamentali della vita del partito e dunque per far sì che il segretario del partito goda di una legittimazione più larga rispetto da quella che gli viene dall’essere iscritto solamente dagli iscritti. Aldilà di quello che si possa pensare di questa scelta, essa è, comunque sia, originaria: fa parte dello statuto e della costituzione materiale del Partito democratico.
Proprio su quello che ha detto, è un po’ improprio chiamarle primarie perché non si determina ‘la carica elettiva monocratica’. Il problema è che la Corte Costituzionale ha eliminato gli elementi di incostituzionalità della legge elettorale consegnandone una proporzionale. E, magari, il candidato che propone il Partito democratico non sarà scelto o mandato avanti, dal Presidente della Repubblica per un mandato esplorativo per la formazione di un nuovo Governo…Si può rispondere in vari modi a questo proposito.. Prima di tutto il Parlamento è ancora in grado – e speriamo che lo voglio fare – di realizzare una nuova legge elettorale che debba essere ad esito maggioritario, anche perché molti sono concordi su questo punto,  e dunque una legge nella quale un’indicazione ancorché non vincolante, poiché non siamo una Repubblica Presidenziale, di un candidato Primo Ministro da parte di un partito o da parte di una coalizione, continuerebbe ad avere senso. Anche nell’ipotesi, abbastanza infelice e sciagurata, che il Parlamento non riuscisse a modificare la legge elettorale e si dovesse andare ad elezioni anticipate – non si sa ancora quando – con la legge elettorale vigente quale risulta dalla sentenza della Corte Costituzionale (che peraltro non è ancora nota nei suoi dispositivi, e quindi non siamo in grado di conoscere davvero la dinamica delle preferenze) anche se ciò avvenisse, dunque, è chiaro che il Capo dello Stato è libero di conferire un incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri a chi egli crede. E’altrettanto vero che, con ogni ragionevolezza,  il segretario del partito più importante sarà quello che verrà prescelto in prima battuta, e quindi una designazione popolare del segretario del Partito democratico, che si gioca la partita per essere la forza politica più importante, più numerosa, più votata del nostro Paese, non è insensata.
La maggior parte dei commentatori afferma che Renzi è un homo novus che ha sbaragliato «la ditta», come l’ha chiamata più volte Bersani,  e che non viene dai partiti della prima Repubblica, in realtà lui era iscritto al Partito popolare, era un margheritino. «La ditta» ha chiuso i battenti o la cosiddetta Seconda Repubblica è collassata anch’essa sotto i colpi dei populismi e degli homines novi?Gli homines novi, in questa situazione politica, non ci sono, non esistono: Renzi ha 38 anni e ne ha fatti una ventina – o poco meno – come uomo politico di professione. Tanto nuovo non è.
Proviene, però, come giustamente ha fatto notare, da un’esperienza politica, come chiunque; l’eccezione sarebbe Grillo o il Berlusconi del 1994.
Non c’è nulla di male, non è una discriminante né positiva né negativa l’ avere un passato politico alle spalle… Bisogna vedere, però, quale passato, quale presente e quale futuro. Da questo punto di vista, il nuovo segretario del Partito democratico è certamente di provenienza diversa, di stile diverso e anche di prospettive diverse rispetto a quello che è stato finora il nucleo dirigente del partito: esso è formato da ex Ds e da ex Margherita, cioè da ex comunisti  e ex- democristiani, in ultima istanza. Quindi, persone che nei casi dei più giovani hanno cinquant’anni e che, per coloro che hanno esercitato il potere finora, ne hanno fra i 60 e i 70. Renzi è nuovo nel senso che – beato lui – è giovane. Tuttavia non vi è dubbio che il Partito democratico, come si è configurato finora, soprattutto come si è configurato durante la gestione Bersani, avesse una preponderanza interna di personale politico derivante dall’esperienza della sinistra storica italiana, con qualche aggiunta dell’esperienza democratico cristiana. Sinistra storica italiana alla quale molte cose devono essere imputate, comprese le sconfitte che in politica sono decisive, se non si ha della politica una visione da testimonianza. Una sinistra storica italiana rispetto alla quale Renzi è sicuramente estraneo nei valori, nello stile e nell’idea stessa di politica. Direi che il punto fondamentale è che la politica, come è stata concepita a sinistra, era una politica che aveva necessariamente uno spessore storico, che andava analizzato con strumenti culturali prima che si potesse passare all’azione politica. Cosa che, per l’appunto, si è imputata a Cuperlo a cui è stato rimproverato che, quando i giornalisti gli rivolgevano domande di politica, cominciava a parlare dal Tardo Rinascimento, ma questo perché secondo l’impostazione dell’analisi politica. Che,  tra parentesi , faccio mia: io sono un vecchio professore quindi non posso pensare diversamente, la politica si fa così. E bene: Renzi non la fa così, è un altro modo di fare politica. La sua estraneità è, prima di tutto, culturale e questa è una discriminante politica perché io credo si sia giocata la partita su questo, almeno in parte. Ma credo anche  che la maggioranza dei voti che sono andati a Renzi derivino  non solo dall’adesione ad un nuovo modo di pensare la politica, ma anche dalla rabbia e dall’esasperazione per le sconfitte del nucleo storico della dirigenza del Pd che, dopotutto, non è stata all’altezza del proprio passato .
Nel suo primo discorso da Segretario la sera stessa in cui ha vinto le primarie, Renzi ha definito i sostenitori del proporzionale come sconfitti per l’ampia partecipazione alle primarie. Ma se uno dei due Segretari maggiori dei partiti che sostengono il Governo afferma che bisogna tornare ad un sistema maggioritario, con superamento del bicameralismo perfetto, non si rischia una situazione di ingovernabilità come fino ad ora si è verificata, o comunque una banale commistione di argomenti fra centrodestra e centrosinistra?Tenga conto che molte delle cose che ha detto Renzi, ma anche altri, negli ultimi giorni della campagna delle primarie, hanno una giustificazione di carattere retorico/propagandistico.
Renzi è un forte sostenitore del sistema bipolare e vuole che al bipolarismo si arrivi attraverso leggi elettorali maggioritarie – farei notare che il bipolarismo c’era anche tempi della Prima Repubblica: c’erano i comunisti e i loro alleati e i democristiani con i loro alleati, nonostante le leggi proporzionali -, e dal momento che è la  persona che ha più potere nel partito, che è il più grande degli altri, ciò fa sì che sarà difficile che si possa marciare verso una riforma della legge elettorale avendo in mente di farne una proporzionale.  Insomma, se il nuovo capo del Pd non vuole una legge proporzionale, diventa difficile farla. Resta ancora, tuttavia, difficile trovare con chi fare una legge, una qualunque legge. Ricordiamoci che abbiamo un Parlamento inchiodato in una situazione di costante instabilità, generata dalla reciproca incompatibilità delle forze politiche, e dalla loro incapacità di allearsi se non sotto costrizione.  Quando si sono alleate le due forze politiche che reggevano le larghe intese, una delle due,  quella più debole, cioè la destra, si è spaccata. E in questo momento, perché ci sia una legge maggioritaria (e poniamo il caso che questo effetto maggioritario debba essere prodotto attraverso un doppio turno), bisogna puntare sulla disponibilità di Alfano ad attuare il doppio turno. Questo, peraltro, lo butterebbe  tra le braccia di Berlusconi:  il che non è ovvio. Renzi  può volere fortissimamente quest’impostazione maggioritaria, ma poi è il primo a sapere che non è che la si possa ottenere dall’oggi al domani.
E’ più facile che Renzi possa ottenere risultati di carattere simbolico, come il deposito di una legge costituzionale di abolizione del Senato, oppure con qualche cosa che ha a che fare con la diminuzione dei costi della politica, ma sulla legge elettorale ho paura che gli ostacoli ci siano ancora tutti…
Oggi è il secondo giorno del blocco annunciato degli autotrasportatori, strade del Nord e del Sud bloccate, panico per il reperimento dei carburanti il giorno prima. Il tutto condito con dei presidi degli stessi lavoratori in lotta senza bandiere di partito, nonostante Forza Nuova e Liga Veneta ne rivendichino la paternità. Come mai la destra radicale riesce ad intercettare quei movimenti mentre il Pd sembra esserne sempre più distante? Premesso che non parlo a nome del Pd, mi sembra che un partito di governo come il Pd – per quanto possa essere preoccupato (ed effettivamente lo è) della situazione economica, delle conseguenze sociali e civili che dalla crisi economica discendono -, difficilmente schizofrenia si possa mettere tra i movimenti armati di forconi a protestare contro se stesso. E’  più probabile che questo tipo di proteste sia intercettato da altre forze politiche, che in questo caso sono il Movimento cinque stelle da una parte  e a vota di più le formazioni di destra dall’altra (da Casa Pound a Forza Italia). Cosa che, peraltro, ritorna come costante, basti pensare ai camionisti che fecero cadere, anche se non solo essi, il governo Allende.
Proprio riguardo alle piazze, dopo uno sciopero generale della Fiom di settembre, Guglielmo Epifani aveva dichiarato che, in preda alle polemiche circa il Pd che non aveva preso parte al corteo, bisogna «saper ascoltare la piazza e non subire il richiamo della foresta di essa». Il Pd, però, di richiami della foresta ne ha subiti ben pochi … Quello degli autotrasportatori ne è la riprova?Diciamo che se c’è un partito abbastanza immune dalle vicende della piazza è il Pd, che ha sacrificato se stesso, e una parte del proprio ceto dirigente, sull’altare della stabilità, della governabilità e della responsabilità. Questo col risultato di risultare sgradito ad una parte della piazza e ad una parte anche del proprio elettorato. Non a caso chi ha vinto le primarie come segretario del partito democratico, ha utilizzato – e questo lo si è detto senza polemica, ma  è un dato di fatto – in dosi omeopatiche, toni e modalità argomentative di tipo populista. Ripeto: in dosi omeopatiche. Mentre gli altri se ne servono in dosi massicce, a fini anti sistema. Ma un tono del genere è venuto anche da Renzi perché il Partito democratico si è dimostrato, in nome della governabilità, della stabilità e della responsabilità, sostanzialmente incapace, o almeno  nell’impossibilità, di rispondere alle esigenze e alle sofferenze durissime

Immigrazione e Periferia - intervista a Roberto de Angelis

Articolo pubblicato su Lindro.it https://www.lindro.it/immigrazione-e-periferia/
Tor Pignattara un po’ di tempo fa era considerato un quartiere della periferia romana, ora è uno dei primi quartieri a ridosso del centro della Capitale. La sua storia è di quelle con la S maiuscola: Catacombe di San Marcellino, Residenza della madre dell’Imperatore Costantino, teatro di primo piano della Resistenza romana e, ora, luogo di incontro di varie culture; secondo quartiere multietnico dopo Piazza Vittorio, luogo che dà i natali alla ormai famosissima orchestra omonima che ne rappresenta al meglio l’anima.
Il quartiere, Tor Pignattara, dunque, è noto anche per la sua inclusione: la Casa del Popolo organizza corsi di italiano per stranieri sempre affollatissimi, le organizzazioni di immigrati bengalesi sono ben integrate col territorio, così come quelle di altri gruppi etnici. Qualcosa, però, non è andato per il verso giusto: nel corso di quest’anno, tra Tuscolano e Casilino sono stati 50 i pestaggi a bengalesi del ‘Bangla Tour’, questo il nome della missione di alcuni affiliati della destra eversiva romana. Forzanovisti  e altri appartenenti al mondo neofascista ne hanno rivendicato alcuni atti e, per un pestaggio ad un bengalese, è stato fermato un sedicenne. D’altra parte anche la Capitale, attraverso nuovi agglomerati urbani sempre più esclusivi, più che inclusivi, hanno dato opportunità ad alcune organizzazioni estremistiche di usare l’immigrazione clandestina come leva per la più becera propaganda.
Il prof. Roberto de Angelis, docente di Sociologia delle Città presso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma, ci aiuta ad analizzare questo fenomeno partendo da una distinzione. I nuovi quartieri, i nuovi agglomerati urbani, possono essere teatro di incontro multiculturale e di degrado, tutto questo può portare ad acuirsi di estremismi politici: “Non sono tanto d’accordo sul fatto che la presenza di migranti costituisca un indicatore di degrado. Le faccio un esempio: a partire da Bangla Tour, bisogna dire che i quartieri dove sono  maggiormente insediati i migranti del Bangladesh sono zone pregiate come l’Esquilino, oppure Tor Pignattara”. Quest’ultimo era “un quartiere periferico ma oggi è una delle primissime periferie il quale, grazie alla presenza di migranti asiatici, come i bangladeshi e i cinesi, in qualche modo ha ritrovato la sua vitalità commerciale. Per cui starei attento a parlare di degrado, perché il termine, normalmente, viene utilizzato in una maniera impropria. Per quanto riguarda il caso di Torpignattara, dunque, ci sono delle problematiche che sono legate alla periferia. Nel caso dell’Esquilino è diverso: quella, ripeto, è una delle zone più pregiate di Roma per cui sia i bangladeshi che i cinesi si sono inseriti perché era uno spazio disponibile sul mercato. E, dato che oggi si inneggia al mercato che deve essere assolutamente sovrano, si sono trovati un pezzo di città a prezzi ridotti, a causa della crisi di tutta una serie di realtà economiche della città, e vi si sono inseriti”. Essi, però, conferma il professore: “non sono assolutamente in concorrenza con attività economiche o portate avanti da cittadini italiani: i bengalesi sono perlopiù commercianti, soprattutto a Torpignattara, che è stata definita una città-emporio. E poi, fanno mestieri di strada che conosciamo tutti: venditori di ombrelli, venditori di palloncini a Piazza Navona o da altre parti, e non sono assolutamente in concorrenza con i nostri connazionali”.
Stando al Bangla Tour, però, forzanovisti, quindi neofascisti, hanno rivendicato pestaggi a danno delle comunità bengalesi.  Stando a Tor Pignattara com’è possibile che, nonostante il quartiere abbia una storia che dia unimprinting  ben chiaro al suo passato, ora sembra preda di facili estremismi? De Angelis: C’è da fare una distinzione, ancora una volta: io credo che il quartiere non c’entri assolutamente nulla. Questi sono fatti gravissimi che, però, declinerei in una maniera diversa, un po’ più specifica: cioè come forme di bullismo razzista, nomade per la città. Per cui se un gruppo di adolescenti, diciamo così, frustrati, che in piccoli branchi sono alla ricerca disperata di una dignità identitaria, molto difficile in tempi di crisi, tempi nei quali quella che era l’estrema destra – se prima era diventata berlusconiana – si è persa completamente dal momento che gli ultimi riferimenti sono quelli di Forza nuova e Casa Pound. Questi piccoli gruppi che organizzano questi tour –  se li fanno –  possono colpire dovunque e in qualsiasi situazione, non necessariamente col consenso, diciamo così, popolare: tutt’altro”.
Anche perché, prosegue il professore Non dimentichiamoci che la specificità delle nuove migrazioni, di tutte le migrazioni che riguardano il nostro Paese, sono tali da essere fortemente integrate in quelli che sono i bisogni di servizi del quotidiano. Pensi a tutte le centinaia di migliaia di colf e badanti o, comunque, di persone che sono addette alla persona. Se esse non fossero nel nostro Paese, ci ritroveremmo immediatamente di fronte ad una delle crisi più spaventose”.
I comportamenti, questi gravissimi del Bangla Tour – prosegue il docente – che andrebbero repressi, prevenuti e stigmatizzati adeguatamente, sono, però, disperati ed episodici. Essi non sono rappresentativi di quello che è un sentore generale della popolazione nei confronti del fenomeno immigrazione. Nonostante ci siano forze politiche del nostro Paese, che hanno avuto anche rappresentanza nazionale e ministri della Repubblica, che hanno spinto e hanno centrato la loro campagna elettorale contro la presenza degli immigrati. Pensi alla Lega Nord…”. Il reato di clandestinità, infatti, è un prodotto della legge Bossi-Fini, esponenti di Lega Nord e della fu Alleanza Nazionale.
I quartieri della periferia romana, però, certo non includono situazioni che potrebbero essere di forte cooperazione sociale, più che di esclusione. De Angelis, conoscendo bene la realtà del Casilino oltre il Grande Raccordo Anulare, spiega che “in zone come Ponte di Nona e Tor Bella Monaca ci ha lavorato tutta una vita: sono un etnografo di strada, un antropologo urbano e conosco anche queste situazioni estreme. Per cui nella realtà come può essere quella di Tor bella monaca accadevano, spesso, dei fatti di violenza gratuita alle fermate dell’autobus, sono state fatte saltare delle frutterie rumene, sono stati picchiati diversi immigrati, ma sono tutti fatti – ripeto, gravissimi –  ma non di significativo disagio nei confronti dei migranti. Proprio per parlare della Nuova Ponte di Nona e Tor Bella Monaca sono dei quartieri, in questo momento, di una sofferenza sociale che è pressoché inimmaginabile: la maggior parte delle persone, in certi casi, è costretta a sopravvivere alternando le poche occasioni di lavoro legale con l’illegalità, allo spaccio. Cioè, spaccio per necessità. Per sopravvivere. Non è assolutamente in concorrenza con i migranti. Se noi consideriamo degrado e sofferenza sociale, esso non è portato da (i migranti nda). A Ponte Di Nona, per esempio, sono state realizzate degli edifici di edilizia popolare di grande pregio, anche dal punto di vista architettonico dell’architetto Portoghesi: tutte villett policrome. Lì, ad esempio, ci sono delle situazioni di persone, che vivono lì dentro, che è esplosiva: la casa, benché gradevole, non basta risolvere i problemi delle persone. Mentre, invece, i migranti che si trovano a vivere lì, nello stesso contesto, che hanno ottenuto le case popolari – a Ponte di Nona, infatti, è presente anche un piccolo spazio-Moschea – non si trovano nelle condizioni di sofferenza che hanno i nostri connazionali. Essi ci arrivano con tutta una rete forte di capitale sociale, che hanno diffuso nella metropoli: l’arrivo alla casa popolare è un ulteriore elemento di rinforzo nella loro strategia migratoria. Per cui, tra i migranti, tra i pochi migranti che si trovano lì, e tra i nostri connazionali, c’è una lontananza incredibile”.

Indipendentismo, secessionismo, federalismo

L'indipendentismo in Sardegna, Sud Tirolo e Val D'Aosta ad elezioni imminenti nell'Isola

L'avanzata delle formazioni indipendentiste e secessioniste sudtirolesi è stato un dato di fatto: i numeri raggiunti dal Sud-Tiroler Freiheit, dai Die Freiheitlichen e dal PATT (Partito Autonomista Trentino Tirolese) lasciano basiti molti commentatori.​
Quest'ultimo, solo per fare un esempio della provincia di Trento, ha incrementato i propri voti dall'8,5% al 17,5% delle ultime provinciali.​
Il primo partito sud Tirolese citato, quello della pasionaria Eva Klotz, ha raggiunto il 7,2% partendo  dal 4,9% delle precedenti elezioni.​
Il dato da segnalare, dunque, è anche quello del Die Freiheitlichen: la destra tedesca raggiunge, così, un invidiabile 17% che li fa arrivare ad avere ben tre consiglieri  nel consiglio provinciale di Bolzano.​
La situazione Valdostana narra di un consiglio regionale con forze di opposizione e maggioranza dai nomi eloquenti, che chiariscono immediatamente la loro natura: Union Valdotaine Progressiste e Union Valdotaine.​
La situazione in Sardegna, invece, è un po' più complicata ma, di secessionismo/autonomismo e federalismo, di indipendentismo ed elezioni nell'isola, chiarisce il quadro Carlo Pala.​
Politologo dell'Università di Sassari traccia un quadro esauriente circa i vari indipendentismi, secessionismi e federalismi presenti nello Stivale, con un particolare, ovviamente, occhio rivolto all'Isola.​
Di seguito, dunque, la conversazione con Carlo Pala.

Domenica si sono svolte le elezioni provinciali a Trento e Bolzano che avrebbero dato poi vita al consiglio regionale del Trentino Alto Adige. Le formazioni che vogliono l’autodeterminazione del sud Tirolo, a prescindere dal Svp,  hanno incrementato i loro voti. In Val D’Aosta si è venuto a creare uno scenario in cui maggioranza ed opposizione sono entrambi composti da forze autonomiste. In Sardegna si sono venute a creare nuove formazioni che si sono sovrapposte a quelle esistenti, come mai questo slancio rivolto verso l’autodeterminazione sta riscuotendo grande successo in un momento come questo?
Sta riscuotendo successo perché, fondamentalmente, è in atto la destrutturazione dello Stato Nazione così come abbiamo lo conosciuto finora. Molto spesso ci si convince a voler negare, a se stessi e agli osservatori più importanti, che il modello di Stato Nazione, così com’è stato costruito secoli or sono e rafforzatosi soprattutto nell’ultimo secolo mezzo, mantiene tutte le sue crepe. Coloro i quali pensavano che i vagiti sub-nazionali avessero una forza pungente pari ad una spilla, o che fossero dei fossili del passato, si sono dovuti ricredere. Ma il problema è che si ricredono sempre: nel senso che, pur non avendo queste forze, se non in alcuni casi, e non essendo riusciti ad avere una guida politica nella regione che intendono -o della nazione, meglio-  rappresentare, non sono spariti. Perché proprio in questo momento? Io credo che la crisi economica stia facendo molto: nei vari Stati, e mi voglio riferire in modo particolare alla Spagna e alla Gran Bretagna, che pure sono diversissimi tra loro.  In Catalogna e in Scozia, dunque,  sappiamo tutti che cosa sta succedendo: questo movimento di opinione non è più solo politico, ma è un movimento che ha attecchito nella società e che, secondo me dato ancora più importante, è un movimento che recuperando l’identità dei popoli all’interno degli Stati-Nazione così come li abbiamo conosciuti, si politicizzano un’altra volta.

Perché l’indipendentismo oggi è più forte che ieri? 

Perché esso oggi ha saputo, a mio modo di vedere, innovarsi: è un indipendentismo moderno che non è più chiuso in se stesso, non è un indipendentismo reazionario. E’ tutto il contrario: è un’indipendentismo come l’ho definito - alcune volte mi permetto di autocitarmi -  un indipendentismo dialogante, che riesce, cioè, non solo a dialogare con tutti gli altri partiti omologhi europei,  ma riesce addirittura a dialogare con i partiti centralisti. Caso strano, non solo in Sardegna ma anche da altre parti, i partiti indipendentisti, o comunque quelli fortemente autonomisti, identitari o federalisti che dir si voglia - qui il vocabolario potrebbe essere molto ampio - ,sono presi ad esempio dai partiti centralisti che siedono in loco. Ovverosia, ad esempio, la centrale  cagliaritana del Pd o del Pdl, lo stesso per il Psoe in catalogna o per i laburisti in Scozia o addirittura per una regione come la Bretagna in Francia - che comunque non è decisamente indipendentista, sebbene è presente una sacca anche lì -  cosa fanno? Copiano: cercano di inseguire questi partiti nel loro terreno. Ed è una cosa che non era mai successa prima se non raramente, perché ovviamente le storie delle nazioni senza Stato sono tutte diverse, e adesso in quasi tutti i contesti vediamo come i vari partiti prendano spunto e cerchino di copiare quello che fanno, quello che dicono e  quello che interpretano i partiti identitari. Questo perché sia nei contesti in cui il partito agisce in un territorio svantaggiato rispetto al centro, come potrebbe essere la Sardegna o la Corsica, sia invece in zone dove questo non è arrivato, per esempio nei Paesi Baschi nella Catalogna, che notoriamente sono dei territori più ricchi dell’Andalusia o comunque della Spagna, così come la intendiamo.

La crisi economica fa sì che ci siano due spinte convergenti: la prima è quella che agisce nelle nazioni ricche, la seconda è quella che agisce nelle nazioni più povere. Nelle nazioni ricche c’è la spinta a dimostrare che con la crisi economica gli Stati Nazione opprimono l’economia della nazione mancata, e, quindi, la spinta indipendentista ha più vigore per questa ragione; nelle nazioni povere la crisi economica fa sì che colpendo lo Stato centrale, esso continui ad disinteressarsi di quelle regioni che, magari storicamente, ha tralasciato, in un certo qual modo, per usare un eufemismo. Per cui questa spinta, che ha una duplice connotazione, riesce a trasformare questi sentimenti di malessere in voti.
E qui chiudo questa parte della domanda dicendo questo:  non sono solo voti di protesta quelli per le formazioni indipendentiste, bisogna essere attenti nell’analisi.
La riscoperta dell’identità, con tutta la letteratura che se ne può leggere, è tale per cui la riscoperta dell’essere, della consapevolezza di popolo, fa sì che molto spesso i voti, in chi riscopre quest’identità, vadano a questi partiti
.  Un’ultimissima parentesi finale: succede ad esempio in Sardegna, dove non è mai stata fatta la domanda se non in uno studio che è stato pubblicato dall’Università di Cagliari con la collaborazione dell’Università di Edimburgo, per il quale ho curato il capitolo sull’indipendentismo, in cui si fa una domanda ai sardi che non è stata fatta: in tutte le Nazioni senza Stato è stata fatta questa domanda, che è semplicissima e si chiama, in termini politologici, question moreno: “ti senti più Corso o Francese? Francese e Corso allo stesso tempo? Solo Corso o solo Francese?”.
E’ lo stesso in Scozia, in Catalogna, in Bretagna etc etc. In Sardegna non è mai stata fatta, se non a piccole dosi e non in maniera strutturata così com’è stata fatta questa volta. Il risultato, non solo dal punto di vista statistico – sono stati interpellati circa 6000 sardi –, è un dato importante, ma alla domanda “come vuoi che la Sardegna sia in un futuro” regala dei dati che io immaginavo ma che non avevano possibilità di poter dimostrare scientificamente e che invece questo studio finalmente mi ha dato possibilità di dimostrare. Prescindendo dal dato che il 70% dei Sardi si definisce o solo sardo o più sardo italiano, e questo potrebbe anche non stupire, vista l’identità indubbia che il popolo sardo possiede. Ma c’è un altro dato che invece dovrebbe far riflettere, cioè quella che dicevo prima, alla domanda: “voi Sardi come immaginate la Sardegna nel futuro?”. Il 41% risponde che vorrebbe una Sardegna indipendente, di questo 41% il 30% la vorrebbe all’interno dell’Unione Europea mentre  l’11% fuori dall’Unione. Questo vuol dire che i partiti indipendentisti alle regionali del prossimo anno avranno il 41%? Neanche per sogno: in politica, ovviamente,  la traduzione di un sentimento in variabile elettorale è un processo molto più elaborato. E questo è evidente.
Andando a leggere, tornando alla domanda di prima, i dati di Bolzano ci si rende conto che la SVP che è il partito storicamente più importante, inserito in tutti i gangli della società altoatesina nel senso positivo del termine, passa dal 48,1% del 2008 al 45,7% circa del 2013. Si potrebbe facilmente pensare ad un piccolo calo, ad una candidatura sbagliata,  et similia.

Nel 2003, però, lo stesso partito aveva il 55,6% e più del 60% alle scorse elezioni, È sempre il primo partito ma è evidente come esso stia un po’ calando. Quello che è importante sottolineare, che tu giustamente chiedevi,  sono altri due partiti: i Die Freiheitlichen e il Sud-Tiroler Freiheit.

Queste due organizzazioni politiche hanno avuto un incremento non da poco: la prima è arrivata al 17,9%, partendo dal 14,3% delle scorse elezioni; la seconda, che ora è arrivato al 7,2%, partiva dal 4,9%.
Questi due sono partiti, soprattutto il secondo, assolutamente secessionisti, o come si dovrebbe dire meglio dire in scienza politica, annessionisti. Ovvero chiedono la separazione dall’Italia per confluire in uno Stato, attualmente esistente come l’Austria, per riunificare quello che è tutto il Tirolo. Anche in provincia di Trento, però, c’è un dato assolutamente significativo: il PATT (il Partito Autonomista Trentino Tirolese) passa, e questo dato è veramente incredibile, dall’8,5% che aveva nel 2008 al 17,5% che ha raggiunto domenica 27 ottobre. Sono solo fenomeni passeggeri? Può darsi: in politica un po’ tutto è passeggero. Quello che è certo è che coloro i quali pensano che siano fenomeni da baraccone o che l’indipendentismo faccia parte dell’archeologia politica, si stanno sempre più ricredendo.

Ci sarebbero molti spunti per altre domande, dall’ampia ed esauriente risposta che hai fornito ma volevo concentrarmi sulla nomenclatura: giacché prima hai fatto riferimento “all’ampio vocabolario dell’indipendentismo” ti chiedo, perché, secondo te, non esiste il sovranismo ma solo l’indipendentismo, o l’autonomismo?
Per questa semplice ragione: la sovranità esiste, e come si esiste! E’ un concetto che rappresenta una tappa dell'indipendentismo. La Scozia è diventata sovrana quando alla fine degli anni ‘70 ha scoperto i giacimenti di petrolio al largo delle isole Ebridi. Il partito che adesso governa la Scozia, in quell'epoca era un partito fortemente autonomista e identitario ma non avevo una caratterizzazione ben definita, nel momento in cui sono stati scoperti i giacimenti di oro nero e Londra se ne voleva impossessare non lasciando niente alla Scozia, essa inizia quel percorso per cui, piano piano, diventa sovrana dal punto di vista economico, prima che vi fosse la devolution di Blair.
Questo vuol dire che la sovranità esiste, come concetto, può essere applicato in diversi campi della vita della popolazione, anche in quello culturale ad esempio, ma è una tappa per arrivare all’indipendentismo. Gli indipendentisti veri odiano il termine sovranismo, innanzitutto perché, secondo me a ragione non significa nulla, ma secondariamente perché vedono nella sovranità un aspetto molto importante del loro agire politico, ma è una tappa. Quantomeno, non solo - ma soprattutto - in Sardegna con la nascita di iRS nel 2003(indipendentzia – Repubrica de sa Sardigna) - che è stato un esempio per i nuovi partiti indipendentisti in Europa dal momento che ha creato un nuovo modo, anche a livello intellettuale non spicciolo, con teste pensanti, di ragionare in termini indipendentisti, il termine sovranità esisteva ma è il termine sovranismo che viene rifiutato, secondo me.
Quel termine indica, semplicemente, una tappa della tappa.
Sarebbe meglio definirsi autonomisti. Se mi definisco sovranista potrei confondermi con il mare magnum di persone, che sono affezionate alla propria identità, ma che non hanno un’idea e una caratterizzazione politica chiara. Ecco perché quel termine è da rifuggire, almeno in un dialogo scientifico, ma anche in un dialogo più colloquiale. Anche perché gli stessi indipendentisti tengono da parte quel termine, almeno in Sardegna: lo vedono come una stratagemma affinché le coalizioni più grandi, che vanno formandosi per le regionali, possano vivere anche loro di essere sovranisti. Fino a poco tempo fa era impossibile che dei partiti italiani i spostassero verso tematiche che sono fortemente identitarie.

Quale connessione ci può essere, dal momento che entrambi fanno riferimento e prendono ad esempio il percorso intrapreso dalla Catalogna, tra l’autodeterminazione Sudtirolese e quella Sarda?
Chi si è spinto in maniera più seria, sebbene questa attività l’abbia promossa il terzo partito tra quelli che ho citato prima, cioè quello di Eva Klotz, ha già iniziato a far partire una campagna e calcola di arrivare a 400.000 firme di sudtirolesi che chiedono il referendum per la secessione.
In Sardegna questa cosa è stata fatta da un personaggio, quantomeno folkloristico, come Doddore Meloni [1].
E’ un processo lungo: per cui chiedere adess,o in Sardegna, un referendum sull’indipendenza è un qualche cosa di folle. Non tanto per l’identità è l’idealità, quanto per la contingenza: è un’isola talmente allo stremo che, probabilmente, abbandonare qualche cosa di conosciuto - in Sardo c’è proprio un detto che fa parte di un evento storico molto importante definito Su connotu, il conosciuto, quello che fa parte del nostro patrimonio interiore - spaventa molto.
Magari spaventa di meno in Alto Adige, perché sono in condizioni economiche indubbiamente diverse.
In Sardegna è aggravato dal fatto che ci sono forze politiche e non che  far capire a tutti che la Sardegna potrebbe reggersi da sola se avesse indietro dallo Stato quello che lo Stato non gli dà. Mi spiego meglio: in Sardegna abbiamo il nostro articolo dell’autonomia regionale per il quale noi dovremmo avere indietro tutta una serie di compartecipazioni. Ora, tutte le tutte le regioni ce le hanno ma la Sardegna non ha visto indietro ancora tutto questo. I partiti indipendentisti, iRS per primo, hanno educato il popolo Sardo a capire che, in parte, la condizione di dipendenza viene esacerbata da questo fatto qui. Ma loro che cosa tendono a dimostrare facendo questo paragone? Nel dire che “se noi adesso ci paghiamo la sanità e trasporti” come la legge sul federalismo fiscale ci impone “con i soldi del nostro bilancio”, è vero siamo allo stremo, “ma siamo l’unica regione che non ha indietro tutti i soldi “(e stiamo parlando di 10 miliardi di euro!! non di bruscolini) che dovrebbe avere, secondo il loro punto di vista,  il popolo Sardo dovrebbe capire che non è vero che, siccome siamo piccoli da soli moriremmo. E allora li, via a tutta una serie di esempi: da Malta in poi, di nazioni molto più piccole geograficamente, ed anche demograficamente, della Sardegna che da soli ce la fanno.

L'unica cosa è che la Sardegna, purtroppo, è un po' strana:  vive la sua riscoperta dell'identità, e della politicizzazione della stessa, a ondate regolari di tempo. Quindi ci sono delle decadi di forte riscoperta e delle decadi nelle quali l’identità rimane confinata, più che altro, alla lingua, alle espressioni culturali di popolo, di costume e non si trasforma in ambito politico. Questo sembra essere, invece, un momento molto favorevole e dipenderà dalla strategia degli indipendentisti se riusciranno a capitalizzarlo al meglio.

Riprendendo un concetto che avevamo espresso nella prima domanda,  le differenze tra indipendentismo Sardo e Tirolese ce ne sono, cosa che è impossibile da tracciare in quello valdostano che è fortemente legato alla Carta di Chivasso ed alla collaborazione con l’Italia.
Da lì, però, si è venuta a creare una situazione “anomala”: nel consiglio regionale della Val d’Aosta la maggioranza e l’opposizione è composta da due gruppi come l’Union Valdotaine e l’Union Valdotaine Progressiste. Un po’ come l’Svp in Trentino Alto Adige che sta perdendo voti gradualmente, si è venuto a creare, in tutte queste Regioni o Stati, un indipendentismo diverso dagli altri. Qual è l’indipendentismo che si è venuto a creare negli ultimi tempi in Sardegna anche dopo la spinta propulsiva di iRS?
Innanzitutto chiariamo subito la terminologia, che ci aiuta non poco a rispondere a questa domanda: in Sardegna abbiamo un indipendentismo, in sud Tirolo abbiamo un annessionismo o secessionismo, in Val d’Aosta abbiamo un federalismo molto spinto con piccole sacche di annessionismo alla Francia, ma piccolissime. Quindi, da così, già abbiamo tre differenze. Anche all’interno delle varie regioni abbiamo, poi, delle ulteriori differenze.
Naturalmente la Sud-Tiroler Freiheit e i Die Freiheitlichen di Pius Leitner sono due cose diverse, così come iRS o A Manca pro s’Indipendentzi o il Psd’Az sono cose diverse tra loro. Quindi già come concetti sono abbastanza diversi, quello che sembra unire, almeno in Sardegna, tutti questi partiti è la voglia e la volontà di indipendentismo. Quindi è chiara l’idea che lo sbocco finale, almeno nell’Isola, deve essere quella.
La situazione in sud Tirolo è un po’ diversa perché la Svp vuole uno Stato federale insieme all’Italia federata mentre Sud-Tiroler Freiheit e Die Freiheitlichen vogliono una indipendenza e una propria autodeterminazione all’interno dello Stato Austriaco mentre, invece, in Val d’Aosta avviene un qualche cosa di più nebuloso, se vogliamo, come il federalismo “un po’ più spinto” che dicevo prima. E questa è una differenziazione di base che si deve fare.
Come si legano? Innanzitutto alcuni di questi sono legati dal fatto di appartenere all’ALE, associazione che mette assieme i partiti autonomisti che esistono in Europa, per cui un dialogo con tutto passa attraverso quell’ambito lì. Poi però c’è un’altra cosa da dire: la Sardegna, ad esempio, ha un indipendentismo più spinto perché è diventato tale dopo l’aver preso coscienza di un fallimento storico: quello dell’autonomia. La regione sarda, per non poca colpa dei politici sardi - sia ben chiaro ci tengo a sottolinearlo - e anche per molta colpa dello Stato Italiano, non ha mai avuto l’autonomia che hanno altre regioni. Diciamo che sulla carta è un’autonomia forte come altre regioni, ma poi dal lato pratico non lo è.
Quindi, i partiti indipendentisti che già comparivano nei primi anni ’60, con una figura straordinaria non solo per l'indipendentismo sardo ma per tutti i movimenti e le etnie - perché non deve fare paura questa parola – dell’ Europa che è Antonio Simon mossa - e qui si potrebbe aprire un'altra pagina grandissima, ma sorvolo - già da allora l’idea di indipendentismo era tale che si contrapponeva a quella dell’autonomia.
Di essa si criticava, e si critica ancora adesso, il fallimento storico del progetto, sia la dipendenza elevata che di autonomia non ha più niente. Per cui la terza strada che rimaneva, e rimane, da percorrere per far sì che il popolo sardo sia veramente autonomo resta l’indipendenza: solo attraverso quella strada, secondo i partiti indipendentisti, si raggiungerebbe quell’obiettivo. Ecco dove sta fondamentalmente differenza.

Mentre nel Sud Tirolo la situazione è diversa: le due province autonome hanno sempre funzionato in un modo diverso  tra loro. E c’è anche un fattore, assolutamente da non tenere in secondo piano, della violenza politica: in Sardegna è abortito subito. Negli anni ’60 il babbo di Eva Klotz, Georg aveva fatto qualcosina per cui poi Andreotti aveva cercato una mediazione coi sud –Tirolesi, per cui si erano elargite evidenti libertà di azione. In Sardegna c’è stato un embrione di violenza politica etnonazionalista ma non ha raggiunto, ovviamente, quelle proporzioni, però sono stati gli unici arresti per attentato all’Unità dello Stato in tutta Repubblica Italiana. Al contrario quelli della Serenissima, qualche anno fa, della Liga veneta sono stati praticamente scarcerati subito. Doddore Meloni, però, e con lui anche altri patrioti, come ci tengono a chiamarsi,  sardi, hanno fatto parecchia galera in un processo che ancora adesso è poco chiaro.

E’ nato tutto da lì, insomma, l’indipendentismo e l’autonomismo sardo, dunque? Da organizzazioni come Su Populu Sardu…
Certo! E’ nato tutto da lì: da quel ramo è nata Sardigna Natzione con Angelo Caria, che adesso è morto. E’ lì che l’indipendentismo si è staccato dall’autonomismo, si è dovuto staccare dal punto di vista della concezione del concetto della pratica politica e dall’idea di allearsi solo con partiti identitari e non con partiti nazionali, come invece il Partito Sardo d’Azione ha sempre fatto storicamente. Tutte queste differenze, che magari ci porterebbero lontano, sono importanti per comprendere bene il fenomeno.

Andando all’attualità più spicciola: tra poco sarà la volta delle elezioni in Sardegna, dopo quelle di pochi giorni fa del Trentino Alto Adige/SüdTirol. Gli indipendentisti che ruolo giocheranno e, soprattutto, com’è organizzato il fronte indipendentista?
Finora è organizzato non tanto bene. Purtroppo, come succede in questi piccoli partiti non solo in Sardegna ma in tutta Europa, prevale il fazionismo e il frazionismo: frazionismo tra partito e partito mentre il fazionismo all’interno di un singola organizzazione politica.
Per lo meno, per quanto sono riuscito a contarne, ad oggi ci sono quattro spezzoni grossi del mondo indipendentista che corrono per conto proprio.

Quali sarebbero i quattro spezzoni?
Sarebbero: ProgReS-Progetu Republica che candida Michela Murgia; A Manca pro S’Indipendentiza, che ha proposto il Fronte Unidu Indipendentista e che mette insieme A Manca, Fortza Paris e altre piccole formazioni indipendentiste insieme ad una parte del movimento dei pastori e degli artigiani; c’è iRS, che ancora non si è capito bene cosa voglia fare, dialoga un po' con tutti, probabilmente entrerà nel fronte di A Manca, probabilmente andrà da solo ma non si capisce; e poi c'è il Partito dei Sardi di Paolo Maninchedda e di Franciscu Sedda che sta cercando di dialogare col centrosinistra per entrare in coalizione; e c’è il Partito Sardo d'Azione che, pur essendosi alleato con il centrodestra nella precedente legislatura, a marzo di quest’anno se ne è distaccato ed ha, in un certo qual modo, aperto un’altra via.
Non si sa bene ancora cosa succederà: l’unico che ha fatto una scelta di campo a sinistra del PSd’AZ, dato che è nato da una scissione, è la formazione dei RossoMori di Gesuino Muledda che ha chiaramente espresso il desiderio di entrare a far parte della coalizione di centrosinsitra.
Questo però produrrà dei danni dal punto di vista elettorale, ma, io, invece, provo ad azzardare questa previsione: secondo me, il prossimo anno, i partiti indipendentisti se uno ha l’accortezza di leggere il dato tutto unito, faranno un risultato che in pochi, oggi, possano affermare che possa succedere.

In senso positivo o negativo?
In senso positivo.

E questo è dovuto dalla forza che si sta dimostrando tale per la propulsione di nuovi partiti che stanno emergendo o dall’unità che alcune forze politiche stanno mettendo in campo, come A Manca Pro S'Indipendentzia?
Secondo me, e qui forse mi contraddico un po’ da politologo, però innanzitutto da quello che sta succedendo all’interno della società: nella circolazione dell’idea, dell’autoconsapevolezza, di quella che ho chiamato identificazione, più che identità, che è un processo progressivo e dinamico piuttosto che passivo come quello dell’identità. Non che l’identità sia passiva, ma con l’identificazione ti ci compenetri, se vuoi riuscire a farlo, e l’indipendentismo sardo moderno, e non solo, è più identificativo che identitario. Quindi per quello che sta succedendo nella società c’è una buona base perché gli indipendentisti abbiano un buon risultato elettorale
In più ti dico: ovviamente, facendo riferimento a tutto ciò che potrebbe succedere, la somma di quanto prenderanno i partiti indipendentisti non sarà sicuramente questo grande numero, però dico che l’identità e la circolazione de questa idea può mettere un germe nella società che viene coltivato. In questo senso ProgReS è stata intelligente perché ha messo sul piatto una candidatura molto buona, che possiede sponde anche laddove uno non si aspetterebbe, cioè nello Stato Italiano. Michela Murgia è supportata da persone importanti, scrittori, letterati italiani e pure tutti sanno che lei è indipendentista. Quindi la coerenza di Michela Murgia non si può dire che venga a mancare, poi, magari, ci sono alcuni indipendentisti la attaccano su altre cose, ma nessuno potrà mai dire che non è indipendentista.
Quello che io dico a ProgReS, quando mi chiamano per una consulenza amichevole più che tecnico-scientifica, passami il termine, è che loro devono riuscire a germinare quello che già si è messo nel terreno: “se riuscite, non pretendendo, ovviamente, di ottenere tutto subito, potreste ottenere un buon risultato. Io ti dico che, secondo me, la coalizione Sardegna Possibile, con a capo Michela Murgia, è molto probabile che superi il 5%.
Non è così improbabile che si possa avvicinare, e non dico altro, al 10%. Mi sbaglierò… Ma questo è il panorama che penso di poter illustrare.


[1] Salvatore “Doddore” Meloni leader della formazione indipendentista Meris ed autoproclamatosi presidente della Repubrica di Malu Entu. L’isoletta in questione è quella di Mal di Ventre, prospiciente la costa della penisola del Sinis ed è situata, per grandi linee, a largo del Mar di Sardegna, tra Cabras e Cuglieri e, dunque, nell’Oristanese. Recentemente Doddore Meloni, dal caratteristico baffo bianco pre repubblicano, ha fatto il giro delle prime pagine dei quotidiani sardi per la notizia del suo sequestro e indagato, successivamente, per simulazione dello stesso (cfr. La Nuova Sardegna del 28/8/2013).

Politiche europee bipartisan. Intervista a Domenico Moro.

L'agosto, per l'esecutivo delle larghe intese capitanato da Enrico Letta, è stato più caldo delle già roventi temperature estive.
Il governo ha rischiato di frantumarsi in più di qualche occasione e il pretesto è stato quasi sempre fornito dalla data del 9 settembre, giorno in cui la giunta per le elezioni in Senato dovrà pronunciarsi circa l'attuazione della legge Severino sull'incandidabilità (approvata sia da Pd che da Pdl).
Che il Pd sia diviso in merito non v'è alcun dubbio, tant'è che la stessa Rosy Bindi, nel pieno del polverone alzatosi in casa democratica, aveva affermato che se ci fosse stato qualcuno che non avrebbe votato per il sì alla decadenza del Cavaliere, avrebbe senza dubbio fatto continuare a vivere l'esecutivo ma non il Partito.
In un clima come questo, il governo sospende l'Imu e istituisce, a partire dal 2014, la Tassa sui Servizi (alias Service Tax).
La seconda, quindi, andrà a sostituire la prima per la quale il partito di Silvio Berlusconi sta già gridando alla vittoria: la promessa elettorale è stata mantenuta.
Poco importa che se invece di Imu si chiami Service Tax, e che avrà un impatto uguale se non maggiore della precedente Imposta municipale unica.
Ciò che importa al Popolo della Libertà, ora, è ricominciare la campagna elettorale: si deve essere pronti a tutto.
E allora, via ai manifesti col bisimbolismo Pdl-Fi che inneggiano alla vittori sull'Imu e alla promessa mantenuta; via alla martellante pubblicità Berlusconiana che è arrivata anche su Youtube, con migliaia di annunci in calce al video che l'utente inizierà a caricare per poter vedere sul proprio pc.

Anche le correnti zoofilo-ornitologiche dei falchi e delle colombe del Pdl sembrano calmarsi ma, forse, solo momentaneamente.
A tutto questo prova a dare una spiegazione, a tracciare una linea, Domenico Moro, giornalista e autore del volume “Club Bilderberg”.

L'agosto, per il governo Letta, è stato molto caldo e irrequieto: minacce di crisi e tensioni arrivavano dal Pdl. Ora che il nodo-Berlusconi arriva al pettine tra pochi giorni, il Governo tecnico potrebbe diventare "Governo balneare", segnare la fine delle larghe intese e il trionfo del berlusconismo o l'esatto contrario?

Innanzitutto, bisogna evidenziare come, nel momento in cui c'è stata un'avvisaglia di crisi di governo, dopo la condanna di Berlusconi, si è registrato un crollo della borsa e le azioni Mediaset sono crollate del 6,2%.
Berlusconi, in poche ore, ha perso circa 150 milioni. Subito dopo, egli è diventato un po' più ragionevole e ha smorzato le polemiche che i cosiddetti falchi del Pdl avevano portato avanti.
Il punto è che i mercati finanziari non vogliono che Letta cada, o meglio preferiscono che, in questa fase, ci sia un governo delle larghe intese che dia una certa stabilità.
E' vero che, comunque, questo governo è molto fragile e non adeguato a proseguire col programma che i mercati finanziari e l'Europa intendono portare avanti.
Il problema principale, però, è che non è stata ancora riformata la legge elettorale: per cui se si dovesse andare a nuove elezioni, si rischierebbe di riprodurre una situazione di parità - o comunque di difficoltà - nel governare in modo univoco e questo non fa piacere né ai mercati finanziari, né al capitale europeo che, entrambi, vogliono un governo forte, in base al principio della governabilità.
Quello che bisogna risolvere, quindi, è essenzialmente il problema della legge elettorale che rimane un nodo molto difficile, per le difficoltà che ci sono all'interno del governo.

Del resto, lo stesso Berlusconi vede che i sondaggi non sono così favorevoli e non è così disponibile ad andare alle elezioni in tempi brevissimi.
Inoltre, ha ancora Forza Italia da ricostruire: ci vuole tempo per trasformare il Pdl in una nuova Forza Italia; lo stesso Pdl, poi, vive una spaccatura, più o meno ampia a seconda dei momenti, tra i cosiddetti falchi e le cosiddette colombe.
In pratica: la caduta del governo non è così probabile a breve.
Lo stesso Berlusconi comincia a ritenere valida l'ipotesi di chiedere la grazia a Giorgio Napolitano e, lo stesso Presidente della Repubblica potrebbe trovare qualche formula che permetta a Berlusconi di continuare a ricoprire il suo ruolo politico senza mettere in difficoltà il Pd che, ovviamente, si troverebbe in grave imbarazzo a votare contro l'autorizzazione a procedere nei confronti di Berlusconi.
Il pallino, quindi, di tutta la faccenda è nelle mani di Napolitano che è il “dominus” - come lo è sempre stato - della politica italiana e il vero garante delle politiche europee.

Se il governo dovesse cadere, ci possono essere due soluzioni, oltre a quella di andare direttamente al voto: una è quella di un governo Pd con l'appoggio di alcuni transfughi del Movimento cinque stelle e del Pdl, e dei senatori a vita; la seconda è, addirittura, quella di un governo tecnico.
In questi due casi si potrebbe pensare alla risoluzione, eventuale, del problema della legge elettorale.

Le faccio due domande su quello che ha appena detto. La prima è in merito alle “correnti” dei cosiddetti falchi e colombe del Pdl: si può dire che, in questo momento, le due fazioni si sono rasserenate (come Berlusconi dopo il calo della Borsa), oppure sono, semplicemente, in tregua e pronte a rifar sentire la propria voce all'interno del partito, qualora ci fossero delle situazioni che lo dovessero richiedere?

Io credo che ci sia una parte del Pdl che vuole tenere ancora in piedi questo governo e un'altra che, invece, vuole farlo cadere: questo è abbastanza evidente.
Probabilmente si tratta di due frazioni che fanno riferimento ad interessi diversi: la parte che vuole sostenere il governo Letta è più attenta agli interessi del capitale finanziario, a quelli dell'Europa e a quelli di politiche di carattere bipartisan che, comunque, il Pdl porta avanti assieme al Pd.
Il punto di fondo è che Berlusconi si trova in una situazione complicata non solo per via delle sue aziende, ma anche perché molto difficilmente, stante la legge elettorale in vigore, potrebbe ottenere quella maggioranza che gli consenta di governare e fare come vuole: anche lui è condizionato da una situazione che mette in difficoltà l'intero sistema politico.
Quindi, non si tratta solo degli interessi economici suoi, che pure esistono, ma anche di un contesto politico di cui deve tener conto; oltre al fatto che il Fiscal compact europeo, comunque, impone determinati vincoli ai quali sia Pd che Pdl hanno aderito. E a cui anche Berlusconi è allineato.

La seconda domanda è in merito all' “imbarazzo del Pd di votare contro l'autorizzazione a procedere nei confronti di Berlusconi”, è possibile che Luciano Violante sia l'anima del partito mandato in avanscoperta?

Violante ha sempre portato avanti posizioni concilianti nei confronti della destra, basti ricordare le sue posizioni sulla Resistenza di qualche anno fa: è l'anima del Pd, forse, più spinta verso il bipolarismo e interessata, in qualche modo, a conservare l'avversario Berlusconi/Pdl.
Proprio perché, tutto sommato, al Pd ha fatto comodo Forza Italia prima e il Pdl dopo: concentrare tutte le sue polemiche su Berlusconi in modo tale da portare avanti una politica regressiva sul piano economico-sociale.
E' altresì evidente che il Partito Democratico non può assumere posizioni troppo morbide nei confronti di Berlusconi, proprio perché entrerebbe in contraddizione con la sua polemica ventennale con il leader del Pdl.
Da una parte, quindi, ci sono tendenze e tensioni a conservare questo governo e a permettere a Berlusconi di mantenere la sua agibilità politica; d'altra parte è molto difficile, però, scoprirsi e compromettersi apertamente per fare questo.

Questa situazione, quindi, si riflette anche sull'azione di governo a livello di politica interna e su tutte le derubricazioni di ipotesi di riforme del governo Letta-Alfano: la situazione in cui versa l'esecutivo è in una fase di stallo?

La situazione è in stallo perché, in realtà, il governo non sta facendo moltissimo, anche dal punto di vista delle politiche europee che tuttavia sono sempre in continuità, con un orientamento, con una linea guida che è quella già evidenziata dai governi precedenti, soprattutto dal governo Monti.
Anche perché, non ci si deve dimenticare che Enrico Letta, come Monti, è stato membro della Trilaterale e invitato alla riunione del Club Bilderberg dell'anno scorso quando Mario Monti era primo ministro: Letta, dunque, è uno dei politici italiani che più garantisce il grande capitale transnazionale.
E' chiaro che la situazione che abbiamo descritto prima, di governo delle larghe intese con una forte presenza del Pdl, rende più difficile l'azione di Letta.
In realtà, però, i vincoli del Fiscal Compact e dell'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione continuano a pesare sull'azione di governo, determinandone le scelte: su questo né il Pd, né il Pdl fanno alcunché di contrario.
Prendiamo, per esempio, la questione della presunta abolizione dell'Imu. Dico “presunta” perché in realtà l'Imu è stata sospesa per quest'anno - sostituita da altre fonti di entrate tra le quali l’aumento delle accise che pesa in proporzione più sui poveri che sui ricchi – e soprattutto il prossimo anno verrà ristabilita sotto altre forme, cioè nella forma della cosiddetta Service Tax che, di fatto, sarà una super-tassa che rischia di far impallidire l'Imu, sotto il profilo della pressione fiscale.
Tra l'altro, una cosa che non si sa, è che la Service Tax non peserà soltanto – e questo è gravissimo -, sui proprietari delle case, ma anche sugli affittuari.
Inoltre, i comuni sono autorizzati ad aumentare le aliquote della componente sui servizi indivisibili (la cosiddetta Tasi) in misura massima tale da determinare un gettito che è pari al maggior gettito che deriverebbe dall'applicazione dell'aliquota massima Imu per l'abitazione principale, ovvero il 6x1000.
Nella migliore delle ipotesi, quindi, ci ritroveremo con una tassa della stessa entità dell'Imu, nel caso peggiore con una tassa ancor più pesante.
Quello che è ancora più preoccupante, e su questo ancora meno si sente discutere in Italia, è che dal 2014 entrerà in vigore quella norma del Fiscal Compact che prevede la riduzione del debito pubblico italiano della metà: da circa il 130% al 60%.
L'Italia, in vent'anni, dovrà tagliare qualcosa come oltre mille miliardi, e ciò vuol dire che ogni anno dobbiamo eliminare 56-57 miliardi di debito, con un avanzo primario (senza spesa per interessi sul debito) che dovrebbe arrivare addirittura a 146,6 miliardi, ovvero il 9% del Pil.
Si tratta di un onere insostenibile che assorbirebbe circa il 60% delle imposte dirette.
È evidente che questa norma del Fiscal Compact peserà sull'azione di qualunque governo, e potrà essere portata avanti solo con tagli draconiani nei confronti delle voci più importanti della spesa pubblica: la sanità, soprattutto.
Ma si interverrà, probabilmente, anche sull'assistenza in generale, sui servizi pubblici in generale e sulle pensioni.
È stato anticipato da diverse fonti governative che la controriforma Fornero, molto probabilmente, sarà bissata da ulteriori controriforme che peggioreranno la situazione pensionistica.
Il tutto, poi, farà peggiorare le condizioni dell'occupazione e dei lavoratori: è chiaro che se si sposta in avanti l'età pensionabile, si rende più difficile il ricambio tra chi va in pensione e chi vorrebbe entrare nel mondo del lavoro.

Prima lei ha fatto riferimento alle politiche europee. Cosa è cambiato, in quell'ambito, dal governo Berlusconi al governo Letta, passando per i tredici mesi di Monti?

In realtà è cambiato poco.
Già lo stesso Berlusconi, nell'ultima parte del suo governo, aveva accettato le linee guida dell'Europa. La disoccupazione aveva cominciato, infatti, ad impennarsi già durante il suo governo giungendo a livelli molto alti a seguito di politiche economiche recessive contrarie alle politiche che si devono operare in stato di crisi, quando, appunto, bisognerebbe portare avanti delle politiche espansive e non politiche di riduzione draconiana del debito e del deficit pubblico.

Quindi, sostanzialmente, nessuna differenza ma, anzi, una continuazione...

Una continuazione, certo.
Bisogna dire, però, che il governo Monti è stato più deciso nel portare avanti le politiche europee del governo Berlusconi.
Non a caso, il governo Berlusconi all'epoca, era parecchio criticato dal capitale finanziario europeo e dagli organi di stampa che ne sono espressione (come il 'Financial Times' e 'The Economist').
Monti e Letta, quindi, sono una garanzia maggiore per questo settore del capitale (il grande capitale europeo, finanziario e transnazionale), di quanto non sia lo stesso Berlusconi.
Ciò non vuol dire che Berlusconi porti avanti, ovviamente, politiche popolari; significa, semplicemente, che ci sono politici che sono più spregiudicati nel portare avanti le politiche di austerità e altri che sono un po' meno conseguenti.
Lo stesso 'The Economist' scriveva nell’ultimo numero di giugno: «L’Italia rappresenta una anomalia in Europa. È il Pd di centro-sinistra il più ansioso di applicare l’austerità fiscale imposta dalla Commissione Europea e dalla Germania,mentre il Pdl di centro destra è felice di ignorare il tetto al deficit…»

Berlusconi, per conservare un certo consenso popolare, anche a fronte delle sue vicende giudiziarie, cerca di apparire come una forza frenante rispetto a determinate misure. Infatti, rispetto all'Imu, Berlusconi ha, dal punto di vista della propaganda, segnato un punto a suo favore.
Come abbiamo visto non si tratta, però, di abolizione dell'Imu: nel 2013 verrà sostituita da aumenti nelle accuse e da tagli alle politiche sociali e nel 2014 questa tassa verrà reintrodotta sotto altre forme.
Il punto politico è che, però, il Pd non perde occasione per presentarsi come “partito del rigore”. A seguito della presunta abolizione dell'Imu, il viceministro all’economia del Pd, Stefano Fassina, ha subito affermato che bisognava aumentare l'Iva dal 21 al 22%, come del resto era stato preventivato dal governo Monti. A quel punto, però, Renato Brunetta del Pdl gli aveva subito risposto che, al contrario, non poteva essere così. Diciamo, quindi, che si tratta di una situazione in cui il Pd appare più allineato sulle posizioni europee, ma ciò non vuol dire che anche il Pdl non si trovi su quelle determinate politiche.
In generale, i due principali partiti e i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, portano avanti una politica di carattere bipartisan, senza grandi differenze per quello che è l'impatto di determinate politiche pubbliche sulle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione italiana e dei lavoratori.