Un blog in cui scrivo tutto quello che mi occupa e mi pre-occupa. Ma anche di molto (troppo) altro.
Forconi, la protesta antisistema - intervista a Carlo Pala
Primarie con legge elettorale proporzionale - Intervista a Carlo Galli
Dopo tutti gli accadimenti che ben si conoscono (larghe intese, patto di Governo Pd-Pdl, ora Forza Italia) Pier Luigi Bersani si dimise da Segretario del partito per far posto, seppur per una fase transitoria, al traghettatore Guglielmo Epifani.
Ex Segretario della Cgil, socialista, era costretto a tenere in piedi «la ditta», come era stata chiamata dal suo predecessore, e traghettarla a nuove primarie, quindi ecco la data: dopo controversie interne legate alle regole, tensioni e minacce di scissioni, l’8 dicembre si sarebbero tenute le primarie del Pd.
Il quadro politico, però, nel frattempo si era fatto piuttosto singolare: Silvio Berlusconi era appena decaduto da Senatore, la scissione dei cosiddetti ‘alfaniani’ che avrebbero poi costituito il NCD (Nuovo Centrodestra) era ormai manifesta, e, il 3 dicembre, la Corte Costituzionale si sarebbe pronunciata circa gli elementi di incostituzionalità della legge 270/2005, la Legge Calderoli, il Porcellum.
Quindi, la Corte sancisce che gli elementi del premio di maggioranza e delle liste bloccate sono incostituzionali, restituendo agli elettori un sistema proporzionale puro, ma con sbarramento al 4%.
Dato, appunto, il sistema elettorale ora vigente.
Anche perché il sindaco di Firenze, ed ora neo segretario dei democratici vorrebbe, e manterrebbe, un sistema maggioritario per arrivare ad una sintesi in senso bipolare del sistema partitico italiano che si sostanzi anche con l’elezione diretta del candidato Primo Ministro dei due schieramenti contrapposti.
Questi ed altri nodi prova a scioglierli il politologo Carlo Galli, docente presso l’Università di Bologna e deputato del Partito Democratico
Proviene, però, come giustamente ha fatto notare, da un’esperienza politica, come chiunque; l’eccezione sarebbe Grillo o il Berlusconi del 1994.
Non c’è nulla di male, non è una discriminante né positiva né negativa l’ avere un passato politico alle spalle… Bisogna vedere, però, quale passato, quale presente e quale futuro. Da questo punto di vista, il nuovo segretario del Partito democratico è certamente di provenienza diversa, di stile diverso e anche di prospettive diverse rispetto a quello che è stato finora il nucleo dirigente del partito: esso è formato da ex Ds e da ex Margherita, cioè da ex comunisti e ex- democristiani, in ultima istanza. Quindi, persone che nei casi dei più giovani hanno cinquant’anni e che, per coloro che hanno esercitato il potere finora, ne hanno fra i 60 e i 70. Renzi è nuovo nel senso che – beato lui – è giovane. Tuttavia non vi è dubbio che il Partito democratico, come si è configurato finora, soprattutto come si è configurato durante la gestione Bersani, avesse una preponderanza interna di personale politico derivante dall’esperienza della sinistra storica italiana, con qualche aggiunta dell’esperienza democratico cristiana. Sinistra storica italiana alla quale molte cose devono essere imputate, comprese le sconfitte che in politica sono decisive, se non si ha della politica una visione da testimonianza. Una sinistra storica italiana rispetto alla quale Renzi è sicuramente estraneo nei valori, nello stile e nell’idea stessa di politica. Direi che il punto fondamentale è che la politica, come è stata concepita a sinistra, era una politica che aveva necessariamente uno spessore storico, che andava analizzato con strumenti culturali prima che si potesse passare all’azione politica. Cosa che, per l’appunto, si è imputata a Cuperlo a cui è stato rimproverato che, quando i giornalisti gli rivolgevano domande di politica, cominciava a parlare dal Tardo Rinascimento, ma questo perché secondo l’impostazione dell’analisi politica. Che, tra parentesi , faccio mia: io sono un vecchio professore quindi non posso pensare diversamente, la politica si fa così. E bene: Renzi non la fa così, è un altro modo di fare politica. La sua estraneità è, prima di tutto, culturale e questa è una discriminante politica perché io credo si sia giocata la partita su questo, almeno in parte. Ma credo anche che la maggioranza dei voti che sono andati a Renzi derivino non solo dall’adesione ad un nuovo modo di pensare la politica, ma anche dalla rabbia e dall’esasperazione per le sconfitte del nucleo storico della dirigenza del Pd che, dopotutto, non è stata all’altezza del proprio passato .
Renzi è un forte sostenitore del sistema bipolare e vuole che al bipolarismo si arrivi attraverso leggi elettorali maggioritarie – farei notare che il bipolarismo c’era anche tempi della Prima Repubblica: c’erano i comunisti e i loro alleati e i democristiani con i loro alleati, nonostante le leggi proporzionali -, e dal momento che è la persona che ha più potere nel partito, che è il più grande degli altri, ciò fa sì che sarà difficile che si possa marciare verso una riforma della legge elettorale avendo in mente di farne una proporzionale. Insomma, se il nuovo capo del Pd non vuole una legge proporzionale, diventa difficile farla. Resta ancora, tuttavia, difficile trovare con chi fare una legge, una qualunque legge. Ricordiamoci che abbiamo un Parlamento inchiodato in una situazione di costante instabilità, generata dalla reciproca incompatibilità delle forze politiche, e dalla loro incapacità di allearsi se non sotto costrizione. Quando si sono alleate le due forze politiche che reggevano le larghe intese, una delle due, quella più debole, cioè la destra, si è spaccata. E in questo momento, perché ci sia una legge maggioritaria (e poniamo il caso che questo effetto maggioritario debba essere prodotto attraverso un doppio turno), bisogna puntare sulla disponibilità di Alfano ad attuare il doppio turno. Questo, peraltro, lo butterebbe tra le braccia di Berlusconi: il che non è ovvio. Renzi può volere fortissimamente quest’impostazione maggioritaria, ma poi è il primo a sapere che non è che la si possa ottenere dall’oggi al domani.
E’ più facile che Renzi possa ottenere risultati di carattere simbolico, come il deposito di una legge costituzionale di abolizione del Senato, oppure con qualche cosa che ha a che fare con la diminuzione dei costi della politica, ma sulla legge elettorale ho paura che gli ostacoli ci siano ancora tutti…
Immigrazione e Periferia - intervista a Roberto de Angelis
Indipendentismo, secessionismo, federalismo
L'indipendentismo in Sardegna, Sud Tirolo e Val D'Aosta ad elezioni imminenti nell'Isola
L'avanzata delle formazioni indipendentiste e secessioniste
sudtirolesi è stato un dato di fatto: i numeri raggiunti dal Sud-Tiroler
Freiheit, dai Die Freiheitlichen e dal PATT (Partito Autonomista
Trentino Tirolese) lasciano basiti molti commentatori.
Quest'ultimo, solo per fare un esempio della provincia di Trento, ha
incrementato i propri voti dall'8,5% al 17,5% delle ultime provinciali.
Il primo partito sud Tirolese citato, quello della pasionaria Eva Klotz, ha raggiunto il 7,2% partendo dal 4,9% delle precedenti elezioni.
Il
dato da segnalare, dunque, è anche quello del Die Freiheitlichen: la
destra tedesca raggiunge, così, un invidiabile 17% che li fa arrivare ad
avere ben tre consiglieri nel consiglio provinciale di Bolzano.
La
situazione Valdostana narra di un consiglio regionale con forze di
opposizione e maggioranza dai nomi eloquenti, che chiariscono
immediatamente la loro natura: Union Valdotaine Progressiste e Union
Valdotaine.
La situazione in Sardegna, invece, è un po' più
complicata ma, di secessionismo/autonomismo e federalismo, di
indipendentismo ed elezioni nell'isola, chiarisce il quadro Carlo Pala.
Politologo
dell'Università di Sassari traccia un quadro esauriente circa i vari
indipendentismi, secessionismi e federalismi presenti nello Stivale, con
un particolare, ovviamente, occhio rivolto all'Isola.
Di seguito, dunque, la conversazione con Carlo Pala.
Domenica si sono svolte le elezioni provinciali a Trento e
Bolzano che avrebbero dato poi vita al consiglio regionale del Trentino
Alto Adige. Le formazioni che vogliono l’autodeterminazione del sud
Tirolo, a prescindere dal Svp, hanno incrementato i loro voti. In Val
D’Aosta si è venuto a creare uno scenario in cui maggioranza ed
opposizione sono entrambi composti da forze autonomiste. In Sardegna si
sono venute a creare nuove formazioni che si sono sovrapposte a quelle
esistenti, come mai questo slancio rivolto verso l’autodeterminazione
sta riscuotendo grande successo in un momento come questo?
Sta riscuotendo successo perché, fondamentalmente, è in atto la
destrutturazione dello Stato Nazione così come abbiamo lo conosciuto
finora. Molto spesso ci si convince a voler negare, a se stessi e agli
osservatori più importanti, che il modello di Stato Nazione, così com’è
stato costruito secoli or sono e rafforzatosi soprattutto nell’ultimo
secolo mezzo, mantiene tutte le sue crepe. Coloro i quali pensavano che i
vagiti sub-nazionali avessero una forza pungente pari ad una spilla, o
che fossero dei fossili del passato, si sono dovuti ricredere. Ma il
problema è che si ricredono sempre: nel senso che, pur non avendo queste
forze, se non in alcuni casi, e non essendo riusciti ad avere una guida
politica nella regione che intendono -o della nazione, meglio-
rappresentare, non sono spariti. Perché proprio in questo momento? Io
credo che la crisi economica stia facendo molto: nei vari Stati, e mi
voglio riferire in modo particolare alla Spagna e alla Gran Bretagna,
che pure sono diversissimi tra loro. In Catalogna e in Scozia, dunque,
sappiamo tutti che cosa sta succedendo: questo movimento di opinione
non è più solo politico, ma è un movimento che ha attecchito nella
società e che, secondo me dato ancora più importante, è un movimento che
recuperando l’identità dei popoli all’interno degli Stati-Nazione così
come li abbiamo conosciuti, si politicizzano un’altra volta.
Perché l’indipendentismo oggi è più forte che ieri?
Perché
esso oggi ha saputo, a mio modo di vedere, innovarsi: è un
indipendentismo moderno che non è più chiuso in se stesso, non è un
indipendentismo reazionario. E’ tutto il contrario: è un’indipendentismo
come l’ho definito - alcune volte mi permetto di autocitarmi - un indipendentismo dialogante,
che riesce, cioè, non solo a dialogare con tutti gli altri partiti
omologhi europei, ma riesce addirittura a dialogare con i partiti centralisti.
Caso strano, non solo in Sardegna ma anche da altre parti, i partiti
indipendentisti, o comunque quelli fortemente autonomisti, identitari o
federalisti che dir si voglia - qui il vocabolario potrebbe essere molto
ampio - ,sono presi ad esempio dai partiti centralisti che siedono in
loco. Ovverosia, ad esempio, la centrale cagliaritana del Pd o del Pdl,
lo stesso per il Psoe in catalogna o per i laburisti in Scozia o
addirittura per una regione come la Bretagna in Francia - che comunque
non è decisamente indipendentista, sebbene è presente una sacca anche lì
- cosa fanno? Copiano: cercano di inseguire questi partiti nel loro
terreno. Ed è una cosa che non era mai successa prima se non raramente,
perché ovviamente le storie delle nazioni senza Stato sono tutte
diverse, e adesso in quasi tutti i contesti vediamo come i vari partiti
prendano spunto e cerchino di copiare quello che fanno, quello che
dicono e quello che interpretano i partiti identitari. Questo perché
sia nei contesti in cui il partito agisce in un territorio svantaggiato
rispetto al centro, come potrebbe essere la Sardegna o la Corsica, sia
invece in zone dove questo non è arrivato, per esempio nei Paesi Baschi
nella Catalogna, che notoriamente sono dei territori più ricchi
dell’Andalusia o comunque della Spagna, così come la intendiamo.
La crisi economica fa sì che ci siano due spinte convergenti: la
prima è quella che agisce nelle nazioni ricche, la seconda è quella che
agisce nelle nazioni più povere. Nelle nazioni ricche c’è la spinta a
dimostrare che con la crisi economica gli Stati Nazione opprimono
l’economia della nazione mancata, e, quindi, la spinta indipendentista
ha più vigore per questa ragione; nelle nazioni povere la crisi
economica fa sì che colpendo lo Stato centrale, esso continui ad
disinteressarsi di quelle regioni che, magari storicamente, ha
tralasciato, in un certo qual modo, per usare un eufemismo. Per cui
questa spinta, che ha una duplice connotazione, riesce a trasformare
questi sentimenti di malessere in voti.
E qui chiudo questa parte
della domanda dicendo questo: non sono solo voti di protesta quelli per
le formazioni indipendentiste, bisogna essere attenti nell’analisi.
La
riscoperta dell’identità, con tutta la letteratura che se ne può
leggere, è tale per cui la riscoperta dell’essere, della consapevolezza
di popolo, fa sì che molto spesso i voti, in chi riscopre
quest’identità, vadano a questi partiti. Un’ultimissima
parentesi finale: succede ad esempio in Sardegna, dove non è mai stata
fatta la domanda se non in uno studio che è stato pubblicato
dall’Università di Cagliari con la collaborazione dell’Università di
Edimburgo, per il quale ho curato il capitolo sull’indipendentismo, in
cui si fa una domanda ai sardi che non è stata fatta: in tutte le
Nazioni senza Stato è stata fatta questa domanda, che è semplicissima e
si chiama, in termini politologici, question moreno: “ti senti più Corso
o Francese? Francese e Corso allo stesso tempo? Solo Corso o solo
Francese?”.
E’ lo stesso in Scozia, in Catalogna, in Bretagna etc
etc. In Sardegna non è mai stata fatta, se non a piccole dosi e non in
maniera strutturata così com’è stata fatta questa volta. Il risultato,
non solo dal punto di vista statistico – sono stati interpellati circa
6000 sardi –, è un dato importante, ma alla domanda “come vuoi che la
Sardegna sia in un futuro” regala dei dati che io immaginavo ma che non
avevano possibilità di poter dimostrare scientificamente e che invece
questo studio finalmente mi ha dato possibilità di dimostrare.
Prescindendo dal dato che il 70% dei Sardi si definisce o solo sardo o più sardo italiano,
e questo potrebbe anche non stupire, vista l’identità indubbia che il
popolo sardo possiede. Ma c’è un altro dato che invece dovrebbe far
riflettere, cioè quella che dicevo prima, alla domanda: “voi Sardi come immaginate la Sardegna nel futuro?”. Il 41% risponde che vorrebbe una Sardegna indipendente,
di questo 41% il 30% la vorrebbe all’interno dell’Unione Europea
mentre l’11% fuori dall’Unione. Questo vuol dire che i partiti
indipendentisti alle regionali del prossimo anno avranno il 41%? Neanche
per sogno: in politica, ovviamente, la traduzione di un sentimento in
variabile elettorale è un processo molto più elaborato. E questo è
evidente.
Andando a leggere, tornando alla domanda di prima, i dati di Bolzano ci si rende conto che la SVP
che è il partito storicamente più importante, inserito in tutti i
gangli della società altoatesina nel senso positivo del termine, passa dal 48,1% del 2008 al 45,7% circa del 2013. Si potrebbe facilmente pensare ad un piccolo calo, ad una candidatura sbagliata, et similia.
Nel 2003, però, lo stesso partito aveva il 55,6% e più del 60% alle scorse elezioni, È sempre il primo partito ma è evidente come esso stia un po’ calando. Quello che è importante sottolineare, che tu giustamente chiedevi, sono altri due partiti: i Die Freiheitlichen e il Sud-Tiroler Freiheit.
Queste due organizzazioni politiche hanno avuto un incremento non da
poco: la prima è arrivata al 17,9%, partendo dal 14,3% delle scorse
elezioni; la seconda, che ora è arrivato al 7,2%, partiva dal 4,9%.
Questi due sono partiti, soprattutto il secondo, assolutamente
secessionisti, o come si dovrebbe dire meglio dire in scienza politica,
annessionisti. Ovvero chiedono la separazione dall’Italia per confluire
in uno Stato, attualmente esistente come l’Austria, per riunificare
quello che è tutto il Tirolo. Anche in provincia di Trento,
però, c’è un dato assolutamente significativo: il PATT (il Partito
Autonomista Trentino Tirolese) passa, e questo dato è veramente
incredibile, dall’8,5% che aveva nel 2008 al 17,5% che ha raggiunto
domenica 27 ottobre. Sono solo fenomeni passeggeri? Può darsi:
in politica un po’ tutto è passeggero. Quello che è certo è che coloro i
quali pensano che siano fenomeni da baraccone o che l’indipendentismo
faccia parte dell’archeologia politica, si stanno sempre più ricredendo.
Ci sarebbero molti spunti per altre domande, dall’ampia ed
esauriente risposta che hai fornito ma volevo concentrarmi sulla
nomenclatura: giacché prima hai fatto riferimento “all’ampio vocabolario
dell’indipendentismo” ti chiedo, perché, secondo te, non esiste il
sovranismo ma solo l’indipendentismo, o l’autonomismo?
Per questa semplice ragione: la sovranità esiste, e come si esiste!
E’ un concetto che rappresenta una tappa dell'indipendentismo. La Scozia
è diventata sovrana quando alla fine degli anni ‘70 ha scoperto i
giacimenti di petrolio al largo delle isole Ebridi. Il partito che
adesso governa la Scozia, in quell'epoca era un partito fortemente
autonomista e identitario ma non avevo una caratterizzazione ben
definita, nel momento in cui sono stati scoperti i giacimenti di oro
nero e Londra se ne voleva impossessare non lasciando niente alla
Scozia, essa inizia quel percorso per cui, piano piano, diventa sovrana
dal punto di vista economico, prima che vi fosse la devolution di Blair.
Questo vuol dire che la sovranità esiste, come concetto, può essere
applicato in diversi campi della vita della popolazione, anche in quello
culturale ad esempio, ma è una tappa per arrivare all’indipendentismo.
Gli indipendentisti veri odiano il termine sovranismo, innanzitutto
perché, secondo me a ragione non significa nulla, ma secondariamente
perché vedono nella sovranità un aspetto molto importante del loro agire
politico, ma è una tappa. Quantomeno, non solo - ma soprattutto - in
Sardegna con la nascita di iRS nel 2003(indipendentzia – Repubrica de sa
Sardigna) - che è stato un esempio per i nuovi partiti indipendentisti
in Europa dal momento che ha creato un nuovo modo, anche a livello
intellettuale non spicciolo, con teste pensanti, di ragionare in termini
indipendentisti, il termine sovranità esisteva ma è il termine sovranismo che viene rifiutato, secondo me.
Quel termine indica, semplicemente, una tappa della tappa.
Sarebbe meglio definirsi autonomisti. Se mi definisco sovranista potrei confondermi con il mare magnum
di persone, che sono affezionate alla propria identità, ma che non
hanno un’idea e una caratterizzazione politica chiara. Ecco perché quel
termine è da rifuggire, almeno in un dialogo scientifico, ma anche in un
dialogo più colloquiale. Anche perché gli stessi indipendentisti
tengono da parte quel termine, almeno in Sardegna: lo vedono come una
stratagemma affinché le coalizioni più grandi, che vanno formandosi per
le regionali, possano vivere anche loro di essere sovranisti. Fino a
poco tempo fa era impossibile che dei partiti italiani i spostassero
verso tematiche che sono fortemente identitarie.
Quale connessione ci può essere, dal momento che entrambi
fanno riferimento e prendono ad esempio il percorso intrapreso dalla
Catalogna, tra l’autodeterminazione Sudtirolese e quella Sarda?
Chi si è spinto in maniera più seria, sebbene questa attività l’abbia
promossa il terzo partito tra quelli che ho citato prima, cioè quello
di Eva Klotz, ha già iniziato a far partire una campagna e calcola di
arrivare a 400.000 firme di sudtirolesi che chiedono il referendum per
la secessione.
In Sardegna questa cosa è stata fatta da un personaggio, quantomeno folkloristico, come Doddore Meloni [1].
E’ un processo lungo: per cui chiedere adess,o in Sardegna, un
referendum sull’indipendenza è un qualche cosa di folle. Non tanto per
l’identità è l’idealità, quanto per la contingenza: è un’isola talmente
allo stremo che, probabilmente, abbandonare qualche cosa di conosciuto -
in Sardo c’è proprio un detto che fa parte di un evento storico molto
importante definito Su connotu, il conosciuto, quello che fa parte del nostro patrimonio interiore - spaventa molto.
Magari spaventa di meno in Alto Adige, perché sono in condizioni economiche indubbiamente diverse.
In Sardegna è aggravato dal fatto che ci sono forze politiche e non
che far capire a tutti che la Sardegna potrebbe reggersi da sola se
avesse indietro dallo Stato quello che lo Stato non gli dà. Mi spiego
meglio: in Sardegna abbiamo il nostro articolo dell’autonomia regionale
per il quale noi dovremmo avere indietro tutta una serie di
compartecipazioni. Ora, tutte le tutte le regioni ce le hanno ma la
Sardegna non ha visto indietro ancora tutto questo. I partiti
indipendentisti, iRS per primo, hanno educato il popolo Sardo a capire
che, in parte, la condizione di dipendenza viene esacerbata da questo
fatto qui. Ma loro che cosa tendono a dimostrare facendo questo
paragone? Nel dire che “se noi adesso ci paghiamo la sanità e
trasporti” come la legge sul federalismo fiscale ci impone “con i soldi
del nostro bilancio”, è vero siamo allo stremo, “ma siamo l’unica
regione che non ha indietro tutti i soldi “(e stiamo parlando di 10
miliardi di euro!! non di bruscolini) che dovrebbe avere, secondo il
loro punto di vista, il popolo Sardo dovrebbe capire che non è vero
che, siccome siamo piccoli da soli moriremmo. E allora li, via a tutta
una serie di esempi: da Malta in poi, di nazioni molto più piccole
geograficamente, ed anche demograficamente, della Sardegna che da soli
ce la fanno.
L'unica cosa è che la Sardegna, purtroppo, è un po' strana: vive la sua riscoperta dell'identità, e della politicizzazione della stessa, a ondate regolari di tempo. Quindi ci sono delle decadi di forte riscoperta e delle decadi nelle quali l’identità rimane confinata, più che altro, alla lingua, alle espressioni culturali di popolo, di costume e non si trasforma in ambito politico. Questo sembra essere, invece, un momento molto favorevole e dipenderà dalla strategia degli indipendentisti se riusciranno a capitalizzarlo al meglio.
Riprendendo un concetto che avevamo espresso nella prima
domanda, le differenze tra indipendentismo Sardo e Tirolese ce ne sono,
cosa che è impossibile da tracciare in quello valdostano che è
fortemente legato alla Carta di Chivasso ed alla collaborazione con
l’Italia.
Da lì, però, si è venuta a creare una
situazione “anomala”: nel consiglio regionale della Val d’Aosta la
maggioranza e l’opposizione è composta da due gruppi come l’Union
Valdotaine e l’Union Valdotaine Progressiste. Un po’ come l’Svp in
Trentino Alto Adige che sta perdendo voti gradualmente, si è venuto a
creare, in tutte queste Regioni o Stati, un indipendentismo diverso
dagli altri. Qual è l’indipendentismo che si è venuto a creare negli
ultimi tempi in Sardegna anche dopo la spinta propulsiva di iRS?
Innanzitutto chiariamo subito la terminologia, che ci aiuta non poco a rispondere a questa domanda:
in Sardegna abbiamo un indipendentismo, in sud Tirolo abbiamo un
annessionismo o secessionismo, in Val d’Aosta abbiamo un federalismo
molto spinto con piccole sacche di annessionismo alla Francia, ma
piccolissime. Quindi, da così, già abbiamo tre differenze. Anche all’interno delle varie regioni abbiamo, poi, delle ulteriori differenze.
Naturalmente la Sud-Tiroler Freiheit e i Die Freiheitlichen di Pius
Leitner sono due cose diverse, così come iRS o A Manca pro
s’Indipendentzi o il Psd’Az sono cose diverse tra loro. Quindi già come
concetti sono abbastanza diversi, quello che sembra unire, almeno in
Sardegna, tutti questi partiti è la voglia e la volontà di
indipendentismo. Quindi è chiara l’idea che lo sbocco finale, almeno
nell’Isola, deve essere quella.
La situazione in sud Tirolo è un po’ diversa
perché la Svp vuole uno Stato federale insieme all’Italia federata
mentre Sud-Tiroler Freiheit e Die Freiheitlichen vogliono una
indipendenza e una propria autodeterminazione all’interno dello Stato
Austriaco mentre, invece, in Val d’Aosta avviene un qualche cosa di più
nebuloso, se vogliamo, come il federalismo “un po’ più spinto” che
dicevo prima. E questa è una differenziazione di base che si deve fare.
Come si legano? Innanzitutto alcuni di questi sono legati dal fatto di
appartenere all’ALE, associazione che mette assieme i partiti
autonomisti che esistono in Europa, per cui un dialogo con tutto passa
attraverso quell’ambito lì. Poi però c’è un’altra cosa da dire: la
Sardegna, ad esempio, ha un indipendentismo più spinto perché è
diventato tale dopo l’aver preso coscienza di un fallimento storico:
quello dell’autonomia. La regione sarda, per non poca colpa dei politici
sardi - sia ben chiaro ci tengo a sottolinearlo - e anche per molta
colpa dello Stato Italiano, non ha mai avuto l’autonomia che hanno altre
regioni. Diciamo che sulla carta è un’autonomia forte come altre
regioni, ma poi dal lato pratico non lo è.
Quindi, i partiti
indipendentisti che già comparivano nei primi anni ’60, con una figura
straordinaria non solo per l'indipendentismo sardo ma per tutti i
movimenti e le etnie - perché non deve fare paura questa parola – dell’
Europa che è Antonio Simon mossa - e qui si potrebbe aprire un'altra
pagina grandissima, ma sorvolo - già da allora l’idea di indipendentismo
era tale che si contrapponeva a quella dell’autonomia.
Di essa si
criticava, e si critica ancora adesso, il fallimento storico del
progetto, sia la dipendenza elevata che di autonomia non ha più niente.
Per cui la terza strada che rimaneva, e rimane, da percorrere per far sì
che il popolo sardo sia veramente autonomo resta l’indipendenza: solo
attraverso quella strada, secondo i partiti indipendentisti, si
raggiungerebbe quell’obiettivo. Ecco dove sta fondamentalmente
differenza.
Mentre nel Sud Tirolo la situazione è diversa: le due province autonome hanno sempre funzionato in un modo diverso tra loro. E c’è anche un fattore, assolutamente da non tenere in secondo piano, della violenza politica: in Sardegna è abortito subito. Negli anni ’60 il babbo di Eva Klotz, Georg aveva fatto qualcosina per cui poi Andreotti aveva cercato una mediazione coi sud –Tirolesi, per cui si erano elargite evidenti libertà di azione. In Sardegna c’è stato un embrione di violenza politica etnonazionalista ma non ha raggiunto, ovviamente, quelle proporzioni, però sono stati gli unici arresti per attentato all’Unità dello Stato in tutta Repubblica Italiana. Al contrario quelli della Serenissima, qualche anno fa, della Liga veneta sono stati praticamente scarcerati subito. Doddore Meloni, però, e con lui anche altri patrioti, come ci tengono a chiamarsi, sardi, hanno fatto parecchia galera in un processo che ancora adesso è poco chiaro.
E’ nato tutto da lì, insomma, l’indipendentismo e l’autonomismo sardo, dunque? Da organizzazioni come Su Populu Sardu…
Certo! E’ nato tutto da lì: da quel ramo è nata Sardigna Natzione
con Angelo Caria, che adesso è morto. E’ lì che l’indipendentismo si è
staccato dall’autonomismo, si è dovuto staccare dal punto di vista della
concezione del concetto della pratica politica e dall’idea di allearsi
solo con partiti identitari e non con partiti nazionali, come invece il
Partito Sardo d’Azione ha sempre fatto storicamente. Tutte queste
differenze, che magari ci porterebbero lontano, sono importanti per
comprendere bene il fenomeno.
Andando all’attualità più spicciola: tra poco sarà la volta
delle elezioni in Sardegna, dopo quelle di pochi giorni fa del Trentino
Alto Adige/SüdTirol. Gli indipendentisti che ruolo giocheranno e,
soprattutto, com’è organizzato il fronte indipendentista?
Finora è organizzato non tanto bene. Purtroppo, come succede in
questi piccoli partiti non solo in Sardegna ma in tutta Europa, prevale
il fazionismo e il frazionismo: frazionismo tra partito e partito mentre
il fazionismo all’interno di un singola organizzazione politica.
Per lo meno, per quanto sono riuscito a contarne, ad oggi ci sono
quattro spezzoni grossi del mondo indipendentista che corrono per conto
proprio.
Quali sarebbero i quattro spezzoni?
Sarebbero: ProgReS-Progetu Republica che candida Michela Murgia; A Manca pro S’Indipendentiza, che ha proposto il Fronte Unidu Indipendentista e che mette insieme A Manca, Fortza Paris e altre piccole formazioni indipendentiste insieme ad una parte del movimento dei pastori e degli artigiani; c’è iRS,
che ancora non si è capito bene cosa voglia fare, dialoga un po' con
tutti, probabilmente entrerà nel fronte di A Manca, probabilmente andrà
da solo ma non si capisce; e poi c'è il Partito dei Sardi
di Paolo Maninchedda e di Franciscu Sedda che sta cercando di dialogare
col centrosinistra per entrare in coalizione; e c’è il Partito Sardo
d'Azione che, pur essendosi alleato con il centrodestra nella precedente
legislatura, a marzo di quest’anno se ne è distaccato ed ha, in un
certo qual modo, aperto un’altra via.
Non si sa bene ancora cosa
succederà: l’unico che ha fatto una scelta di campo a sinistra del
PSd’AZ, dato che è nato da una scissione, è la formazione dei RossoMori di Gesuino Muledda che ha chiaramente espresso il desiderio di entrare a far parte della coalizione di centrosinsitra.
Questo però produrrà dei danni dal punto di vista elettorale, ma, io,
invece, provo ad azzardare questa previsione: secondo me, il prossimo
anno, i partiti indipendentisti se uno ha l’accortezza di leggere il
dato tutto unito, faranno un risultato che in pochi, oggi, possano
affermare che possa succedere.
In senso positivo o negativo?
In senso positivo.
E questo è dovuto dalla forza che si sta dimostrando tale per
la propulsione di nuovi partiti che stanno emergendo o dall’unità che
alcune forze politiche stanno mettendo in campo, come A Manca Pro
S'Indipendentzia?
Secondo me, e qui forse mi contraddico un po’ da politologo, però
innanzitutto da quello che sta succedendo all’interno della società:
nella circolazione dell’idea, dell’autoconsapevolezza, di quella che ho
chiamato identificazione, più che identità, che è un processo
progressivo e dinamico piuttosto che passivo come quello dell’identità.
Non che l’identità sia passiva, ma con l’identificazione ti ci
compenetri, se vuoi riuscire a farlo, e l’indipendentismo sardo moderno,
e non solo, è più identificativo che identitario. Quindi per quello che
sta succedendo nella società c’è una buona base perché gli
indipendentisti abbiano un buon risultato elettorale
In più ti dico:
ovviamente, facendo riferimento a tutto ciò che potrebbe succedere, la
somma di quanto prenderanno i partiti indipendentisti non sarà
sicuramente questo grande numero, però dico che l’identità e la
circolazione de questa idea può mettere un germe nella società che viene
coltivato. In questo senso ProgReS è stata intelligente perché ha messo
sul piatto una candidatura molto buona, che possiede sponde anche
laddove uno non si aspetterebbe, cioè nello Stato Italiano. Michela
Murgia è supportata da persone importanti, scrittori, letterati italiani
e pure tutti sanno che lei è indipendentista. Quindi la coerenza di
Michela Murgia non si può dire che venga a mancare, poi, magari, ci sono
alcuni indipendentisti la attaccano su altre cose, ma nessuno potrà mai
dire che non è indipendentista.
Quello che io dico a ProgReS,
quando mi chiamano per una consulenza amichevole più che
tecnico-scientifica, passami il termine, è che loro devono riuscire a
germinare quello che già si è messo nel terreno: “se riuscite, non
pretendendo, ovviamente, di ottenere tutto subito, potreste ottenere un
buon risultato. Io ti dico che, secondo me, la coalizione Sardegna
Possibile, con a capo Michela Murgia, è molto probabile che superi il
5%.
Non è così improbabile che si possa avvicinare, e non dico
altro, al 10%. Mi sbaglierò… Ma questo è il panorama che penso di poter
illustrare.
[1] Salvatore “Doddore” Meloni leader della formazione indipendentista Meris ed autoproclamatosi presidente della Repubrica di Malu Entu. L’isoletta in questione è quella di Mal di Ventre, prospiciente la costa della penisola del Sinis ed è situata, per grandi linee, a largo del Mar di Sardegna, tra Cabras e Cuglieri e, dunque, nell’Oristanese. Recentemente Doddore Meloni, dal caratteristico baffo bianco pre repubblicano, ha fatto il giro delle prime pagine dei quotidiani sardi per la notizia del suo sequestro e indagato, successivamente, per simulazione dello stesso (cfr. La Nuova Sardegna del 28/8/2013).
Politiche europee bipartisan. Intervista a Domenico Moro.
L'agosto, per l'esecutivo delle larghe intese capitanato da Enrico Letta, è stato più caldo delle già roventi temperature estive.
Il governo ha rischiato di frantumarsi in più di qualche occasione e il pretesto è stato quasi sempre fornito dalla data del 9 settembre,
giorno in cui la giunta per le elezioni in Senato dovrà pronunciarsi
circa l'attuazione della legge Severino sull'incandidabilità (approvata
sia da Pd che da Pdl).
Che il Pd sia diviso in merito non v'è alcun dubbio, tant'è che la stessa Rosy Bindi,
nel pieno del polverone alzatosi in casa democratica, aveva affermato
che se ci fosse stato qualcuno che non avrebbe votato per il sì alla
decadenza del Cavaliere, avrebbe senza dubbio fatto continuare a vivere
l'esecutivo ma non il Partito.
In un clima come questo, il governo sospende l'Imu e istituisce, a partire dal 2014, la Tassa sui Servizi (alias Service Tax).
La seconda, quindi, andrà a sostituire la prima per la quale il partito di Silvio Berlusconi sta già gridando alla vittoria: la promessa elettorale è stata mantenuta.
Poco
importa che se invece di Imu si chiami Service Tax, e che avrà un
impatto uguale se non maggiore della precedente Imposta municipale
unica.
Ciò che importa al Popolo della Libertà, ora, è ricominciare la campagna elettorale: si deve essere pronti a tutto.
E allora, via ai manifesti col bisimbolismo Pdl-Fi
che inneggiano alla vittori sull'Imu e alla promessa mantenuta; via
alla martellante pubblicità Berlusconiana che è arrivata anche su
Youtube, con migliaia di annunci in calce al video che l'utente inizierà
a caricare per poter vedere sul proprio pc.
Anche le correnti zoofilo-ornitologiche dei falchi e delle colombe del Pdl sembrano calmarsi ma, forse, solo momentaneamente.
A tutto questo prova a dare una spiegazione, a tracciare una linea, Domenico Moro, giornalista e autore del volume “Club Bilderberg”.
L'agosto, per il governo Letta, è stato molto caldo e irrequieto: minacce di crisi e tensioni arrivavano dal Pdl. Ora che il nodo-Berlusconi arriva al pettine tra pochi giorni, il Governo tecnico potrebbe diventare "Governo balneare", segnare la fine delle larghe intese e il trionfo del berlusconismo o l'esatto contrario?
Innanzitutto, bisogna evidenziare come, nel momento in cui c'è stata
un'avvisaglia di crisi di governo, dopo la condanna di Berlusconi, si è
registrato un crollo della borsa e le azioni Mediaset sono crollate del
6,2%.
Berlusconi, in poche ore, ha perso circa 150 milioni.
Subito dopo, egli è diventato un po' più ragionevole e ha smorzato le
polemiche che i cosiddetti falchi del Pdl avevano portato avanti.
Il
punto è che i mercati finanziari non vogliono che Letta cada, o meglio
preferiscono che, in questa fase, ci sia un governo delle larghe intese
che dia una certa stabilità.
E' vero che, comunque, questo governo è
molto fragile e non adeguato a proseguire col programma che i mercati
finanziari e l'Europa intendono portare avanti.
Il problema principale, però, è che non è stata ancora riformata la legge elettorale:
per cui se si dovesse andare a nuove elezioni, si rischierebbe di
riprodurre una situazione di parità - o comunque di difficoltà - nel
governare in modo univoco e questo non fa piacere né ai mercati
finanziari, né al capitale europeo che, entrambi, vogliono un governo
forte, in base al principio della governabilità.
Quello che bisogna
risolvere, quindi, è essenzialmente il problema della legge elettorale
che rimane un nodo molto difficile, per le difficoltà che ci sono
all'interno del governo.
Del resto, lo stesso Berlusconi vede che i sondaggi non sono così
favorevoli e non è così disponibile ad andare alle elezioni in tempi
brevissimi.
Inoltre, ha ancora Forza Italia da ricostruire: ci vuole
tempo per trasformare il Pdl in una nuova Forza Italia; lo stesso Pdl,
poi, vive una spaccatura, più o meno ampia a seconda dei momenti, tra i
cosiddetti falchi e le cosiddette colombe.
In pratica: la caduta del governo non è così probabile a breve.
Lo stesso Berlusconi comincia a ritenere valida l'ipotesi di chiedere la grazia a Giorgio Napolitano
e, lo stesso Presidente della Repubblica potrebbe trovare qualche
formula che permetta a Berlusconi di continuare a ricoprire il suo ruolo
politico senza mettere in difficoltà il Pd che, ovviamente, si
troverebbe in grave imbarazzo a votare contro l'autorizzazione a
procedere nei confronti di Berlusconi.
Il pallino, quindi, di tutta
la faccenda è nelle mani di Napolitano che è il “dominus” - come lo è
sempre stato - della politica italiana e il vero garante delle politiche
europee.
Se il governo dovesse cadere, ci possono essere due soluzioni, oltre a quella di andare direttamente al voto: una
è quella di un governo Pd con l'appoggio di alcuni transfughi del
Movimento cinque stelle e del Pdl, e dei senatori a vita; la seconda è,
addirittura, quella di un governo tecnico.
In questi due casi si potrebbe pensare alla risoluzione, eventuale, del problema della legge elettorale.
Le faccio due domande su quello che ha appena detto. La prima è in merito alle “correnti” dei cosiddetti falchi e colombe del Pdl: si può dire che, in questo momento, le due fazioni si sono rasserenate (come Berlusconi dopo il calo della Borsa), oppure sono, semplicemente, in tregua e pronte a rifar sentire la propria voce all'interno del partito, qualora ci fossero delle situazioni che lo dovessero richiedere?
Io credo che ci sia una parte del Pdl che vuole tenere ancora in
piedi questo governo e un'altra che, invece, vuole farlo cadere: questo è
abbastanza evidente.
Probabilmente si tratta di due frazioni che
fanno riferimento ad interessi diversi: la parte che vuole sostenere il
governo Letta è più attenta agli interessi del capitale finanziario, a
quelli dell'Europa e a quelli di politiche di carattere bipartisan che,
comunque, il Pdl porta avanti assieme al Pd.
Il punto di fondo è che
Berlusconi si trova in una situazione complicata non solo per via delle
sue aziende, ma anche perché molto difficilmente, stante la legge
elettorale in vigore, potrebbe ottenere quella maggioranza che gli
consenta di governare e fare come vuole: anche lui è condizionato da una
situazione che mette in difficoltà l'intero sistema politico.
Quindi,
non si tratta solo degli interessi economici suoi, che pure esistono,
ma anche di un contesto politico di cui deve tener conto; oltre al fatto
che il Fiscal compact europeo, comunque, impone determinati vincoli ai
quali sia Pd che Pdl hanno aderito. E a cui anche Berlusconi è
allineato.
La seconda domanda è in merito all' “imbarazzo del Pd di votare contro l'autorizzazione a procedere nei confronti di Berlusconi”, è possibile che Luciano Violante sia l'anima del partito mandato in avanscoperta?
Violante ha sempre portato avanti posizioni concilianti nei confronti
della destra, basti ricordare le sue posizioni sulla Resistenza di
qualche anno fa: è l'anima del Pd, forse, più spinta verso il
bipolarismo e interessata, in qualche modo, a conservare l'avversario
Berlusconi/Pdl.
Proprio perché, tutto sommato, al Pd ha fatto comodo Forza Italia prima e il Pdl dopo:
concentrare tutte le sue polemiche su Berlusconi in modo tale da
portare avanti una politica regressiva sul piano economico-sociale.
E'
altresì evidente che il Partito Democratico non può assumere posizioni
troppo morbide nei confronti di Berlusconi, proprio perché entrerebbe in
contraddizione con la sua polemica ventennale con il leader del Pdl.
Da
una parte, quindi, ci sono tendenze e tensioni a conservare questo
governo e a permettere a Berlusconi di mantenere la sua agibilità
politica; d'altra parte è molto difficile, però, scoprirsi e
compromettersi apertamente per fare questo.
Questa situazione, quindi, si riflette anche sull'azione di governo a livello di politica interna e su tutte le derubricazioni di ipotesi di riforme del governo Letta-Alfano: la situazione in cui versa l'esecutivo è in una fase di stallo?
La situazione è in stallo perché, in realtà, il governo non sta
facendo moltissimo, anche dal punto di vista delle politiche europee che
tuttavia sono sempre in continuità, con un orientamento, con una linea
guida che è quella già evidenziata dai governi precedenti, soprattutto
dal governo Monti.
Anche perché, non ci si deve dimenticare che
Enrico Letta, come Monti, è stato membro della Trilaterale e invitato
alla riunione del Club Bilderberg dell'anno scorso quando Mario Monti
era primo ministro: Letta, dunque, è uno dei politici italiani che più
garantisce il grande capitale transnazionale.
E' chiaro che la
situazione che abbiamo descritto prima, di governo delle larghe intese
con una forte presenza del Pdl, rende più difficile l'azione di Letta.
In
realtà, però, i vincoli del Fiscal Compact e dell'introduzione del
pareggio di bilancio in Costituzione continuano a pesare sull'azione di
governo, determinandone le scelte: su questo né il Pd, né il Pdl fanno
alcunché di contrario.
Prendiamo, per esempio, la questione della
presunta abolizione dell'Imu. Dico “presunta” perché in realtà l'Imu è
stata sospesa per quest'anno - sostituita da altre fonti di entrate tra
le quali l’aumento delle accise che pesa in proporzione più sui poveri
che sui ricchi – e soprattutto il prossimo anno verrà ristabilita sotto
altre forme, cioè nella forma della cosiddetta Service Tax che, di
fatto, sarà una super-tassa che rischia di far impallidire l'Imu, sotto
il profilo della pressione fiscale.
Tra l'altro, una cosa che non si sa, è che la Service Tax non peserà soltanto – e questo è gravissimo -, sui proprietari delle case, ma anche sugli affittuari.
Inoltre,
i comuni sono autorizzati ad aumentare le aliquote della componente sui
servizi indivisibili (la cosiddetta Tasi) in misura massima tale da
determinare un gettito che è pari al maggior gettito che deriverebbe
dall'applicazione dell'aliquota massima Imu per l'abitazione principale,
ovvero il 6x1000.
Nella migliore delle ipotesi, quindi, ci
ritroveremo con una tassa della stessa entità dell'Imu, nel caso
peggiore con una tassa ancor più pesante.
Quello che è ancora più preoccupante, e su questo ancora meno si sente discutere in Italia, è che dal
2014 entrerà in vigore quella norma del Fiscal Compact che prevede la
riduzione del debito pubblico italiano della metà: da circa il 130% al
60%.
L'Italia, in vent'anni, dovrà tagliare qualcosa come
oltre mille miliardi, e ciò vuol dire che ogni anno dobbiamo eliminare
56-57 miliardi di debito, con un avanzo primario (senza spesa per
interessi sul debito) che dovrebbe arrivare addirittura a 146,6
miliardi, ovvero il 9% del Pil.
Si tratta di un onere insostenibile che assorbirebbe circa il 60% delle imposte dirette.
È
evidente che questa norma del Fiscal Compact peserà sull'azione di
qualunque governo, e potrà essere portata avanti solo con tagli
draconiani nei confronti delle voci più importanti della spesa pubblica:
la sanità, soprattutto.
Ma si interverrà, probabilmente, anche sull'assistenza in generale, sui servizi pubblici in generale e sulle pensioni.
È
stato anticipato da diverse fonti governative che la controriforma
Fornero, molto probabilmente, sarà bissata da ulteriori controriforme
che peggioreranno la situazione pensionistica.
Il tutto, poi, farà
peggiorare le condizioni dell'occupazione e dei lavoratori: è chiaro che
se si sposta in avanti l'età pensionabile, si rende più difficile il
ricambio tra chi va in pensione e chi vorrebbe entrare nel mondo del
lavoro.
Prima lei ha fatto riferimento alle politiche europee. Cosa è cambiato, in quell'ambito, dal governo Berlusconi al governo Letta, passando per i tredici mesi di Monti?
In realtà è cambiato poco.
Già lo stesso Berlusconi, nell'ultima
parte del suo governo, aveva accettato le linee guida dell'Europa. La
disoccupazione aveva cominciato, infatti, ad impennarsi già durante il
suo governo giungendo a livelli molto alti a seguito di politiche
economiche recessive contrarie alle politiche che si devono operare in
stato di crisi, quando, appunto, bisognerebbe portare avanti delle
politiche espansive e non politiche di riduzione draconiana del debito e
del deficit pubblico.
Quindi, sostanzialmente, nessuna differenza ma, anzi, una continuazione...
Una continuazione, certo.
Bisogna dire, però, che il governo Monti è stato più deciso nel portare avanti le politiche europee del governo Berlusconi.
Non
a caso, il governo Berlusconi all'epoca, era parecchio criticato dal
capitale finanziario europeo e dagli organi di stampa che ne sono
espressione (come il 'Financial Times' e 'The Economist').
Monti
e Letta, quindi, sono una garanzia maggiore per questo settore del
capitale (il grande capitale europeo, finanziario e transnazionale), di
quanto non sia lo stesso Berlusconi.
Ciò non vuol dire che Berlusconi
porti avanti, ovviamente, politiche popolari; significa, semplicemente,
che ci sono politici che sono più spregiudicati nel portare avanti le
politiche di austerità e altri che sono un po' meno conseguenti.
Lo stesso 'The Economist' scriveva nell’ultimo numero di giugno: «L’Italia
rappresenta una anomalia in Europa. È il Pd di centro-sinistra il più
ansioso di applicare l’austerità fiscale imposta dalla Commissione
Europea e dalla Germania,mentre il Pdl di centro destra è felice di
ignorare il tetto al deficit…»
Berlusconi, per conservare un certo consenso popolare, anche a
fronte delle sue vicende giudiziarie, cerca di apparire come una forza
frenante rispetto a determinate misure. Infatti, rispetto all'Imu, Berlusconi ha, dal punto di vista della propaganda, segnato un punto a suo favore.
Come
abbiamo visto non si tratta, però, di abolizione dell'Imu: nel 2013
verrà sostituita da aumenti nelle accuse e da tagli alle politiche
sociali e nel 2014 questa tassa verrà reintrodotta sotto altre forme.
Il
punto politico è che, però, il Pd non perde occasione per presentarsi
come “partito del rigore”. A seguito della presunta abolizione dell'Imu,
il viceministro all’economia del Pd, Stefano Fassina,
ha subito affermato che bisognava aumentare l'Iva dal 21 al 22%, come
del resto era stato preventivato dal governo Monti. A quel punto, però, Renato Brunetta
del Pdl gli aveva subito risposto che, al contrario, non poteva essere
così. Diciamo, quindi, che si tratta di una situazione in cui il Pd
appare più allineato sulle posizioni europee, ma ciò non vuol dire che
anche il Pdl non si trovi su quelle determinate politiche.
In
generale, i due principali partiti e i due schieramenti di centrodestra
e centrosinistra, portano avanti una politica di carattere bipartisan,
senza grandi differenze per quello che è l'impatto di
determinate politiche pubbliche sulle condizioni di vita della
stragrande maggioranza della popolazione italiana e dei lavoratori.
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