Ma quale "premierato": «è elezione del capo». Intervista a Gaetano Azzariti (Università La Sapienza) - [Atlante Editoriale]


Meloni ha già definito il premierato come «la madre di tutte le riforme che si possono fare in Italia». Si parla da tempo di premier per indicare i presidenti del consiglio, anche se il termine è di derivazione inglese e indica una figura propria del sistema anglosassone. Professor Azzariti, a quale premierato sta puntando il governo? 

«Il nome premierato mostra già una certa incertezza e confusione che caratterizza tutto l’articolato: quando non si sa bene a quale modello specifico rifarsi, si inventa un neologismo. L’evocazione del premier è del tutto impropria. Il modello costituzionale inglese è anni luce lontano dal nostro vigente, così come distante dal disegno di legge in questione. È una evocazione molto generica e infondata. Si tratta di un sistema unico al mondo, come spesso viene detto nel dibattito politico per caratterizzare il premierato. Di tanto in tanto viene fatto riferimento ad Israele in cui, per un breve periodo, c’è stata l’elezione del Capo del Governo». Non è un riferimento attuale, mi pare… «No, è del tutto generico. Come è ben noto il sistema politico-istituzionale israeliano, per tante ragioni, è inconfrontabile con quello italiano, anche per la questione religiosa [si tratta di uno Stato confessionale]». 

Se lei dovesse definire la riforma del Governo Meloni, come la definirebbe? «Secondo i modelli classici non potrebbe essere definita né come presidenziale né come parlamentare. Se io dovessi darne una definizione più appropriata rispetto al contenuto, la definirei: modello di elezione del capo». 

Perché?

«Si punta a quello. Sto alle dichiarazioni ufficiali, non è una mia dichiarazione maliziosa. Si era partiti con l’elezione del Capo dello Stato. Poi, per le ragioni più o meno note, si è passati all’elezione del Presidente del consiglio dei ministri. In seguito sono intervenuti sia Casellati, sia esponenti del Governo, per affermare che l’unica cosa indiscutibile è l’elezione del Capo del Governo. Poi, ancora, Meloni ha dichiarato che lei non avrebbe nulla in contrario ad eleggere anche il Capo dello Stato. Quello a cui si punta è, evidentemente, l’elezione di un capo. Che sia Capo del Governo o Capo dello Stato, purché ci sia qualcuno che comandi essendo legittimato dal corpo elettorale». 

Come si è arrivati a questo sistema ‘ibrido’? 

«Questo modello è il frutto di una lunga stagione [di governi che hanno puntato] alla governabilità, che è un obiettivo legittimo delle democrazie, come ha affermato anche la Corte Costituzionale. La torsione della governabilità è l’elezione del capo e adesso siamo giunti, per così dire, al capolinea. Noto, poi, una scarsa sensibilità costituzionale, vale a dire l’idea che la Costituzione possa ridursi all’elezione del capo, di un unico soggetto al comando, per rispondere ad una domanda retoricamente esprimibile in: ‘vuoi tu scegliere il governo?’. Il diritto costituzionale dovrebbe portare all’equilibrio dei poteri, non all’accentramento di essi nelle mani di una sola figura».

Proprio sulla mancanza di contrappesi nel ddl, che idea s’è fatto? «È il vizio peggiore del disegno di legge, che va a distinguere questo modello di – insisto – elezione del capo, da altri modelli esistenti. Nelle forme di governo presidenziali democratiche (così come ci si potrebbe riferire al semi presidenzialismo) c’è il rispetto dei pesi e dei contrappesi: vige una divisione dei poteri e un legislativo autonomamente legittimato rispetto al Capo dello Stato. Il difetto maggiore di questo ddl è la norma che stabilirebbe l’elezione del Presidente del Consiglio dei ministri coinvolgendo anche entrambi i rami del Parlamento: si vorrebbe scrivere in Costituzione in cui ci sia una assoluta omogeneità tra legislativo ed esecutivo. Provo a citare un esempio: gli Stati Uniti. In quel sistema può (e non deve) verificarsi una consonanza tra Congresso e Capo dello Stato, ma può anche non esserci e quella è una valvola di sfogo fondamentale. Aggiungo che negli Usa il Congresso è autonomo».

A proposito di autonomia e di Parlamento, il Governo Meloni sta facendo discutere per l’abuso del ricorso ai decreti legge e alla decretazione d’urgenza. C’è da dire, però, che questa pratica negativa procede da circa un trentennio. Si può dire che vige già un premierato di fatto, una sorta di frutto avvelenato del berlusconismo?

«È il frutto avvelenato del lungo regresso italiano. Non è solo colpa di Berlusconi: questo atteggiamento l’hanno avuto tutti i soggetti politici che si sono avvicendati al governo, quasi naturale a tal proposito è il riferimento al Governo Renzi. Si tratta di una tendenza alla verticalizzazione che è propria della tradizione dei governi di centrodestra ma, in qualche modo, è stata anche assorbita da tutto l’assetto politico. E i nodi, alla fine, vengono al pettine, proverbialmente parlando. Siamo in una fase di lungo regresso. A questo punto, par di capire, che anche chi ha peccato in passato (mi riferisco alle forze progressiste) si sia reso conto che il rischio che si sta correndo è molto elevato: spero che questo possa indurre a riflettere non già sugli errori del passato, quanto soprattutto in virtù del futuro. Come si ricordava a proposito del decreto legge, si tratta di anni di abusi: non si è fatto nulla per frenare questa tendenza e ora il Governo Meloni compie – semplicemente – passi ulteriori rispetto ai già troppi percorsi nel passato».

In effetti negli anni il centrosinistra si è ben acclimatato alla decretazione d’urgenza. 

«Potremmo usare lo slogan dei 5 Stelle che furono, quelli di tempo fa: la decretazione d’urgenza non è né di destra, né di sinistra. Mi verrebbe da dire che anche i governi della cosiddetta Prima Repubblica ne abusarono: è un’onda che non è mai stata interrotta nonostante gli sforzi della Corte Costituzionale, nonostante gli sforzi dei Capi di Stato che hanno sollevato perplessità, nonostante gli sforzi del Parlamento (penso alla legge 400/88 che ha cercato di limitare la decretazione d’urgenza). E ora la dimensione dell’onda è allarmante».

Provando a cambiare argomento e toccando l’autonomia differenziata, il Corriere della Sera di sabato pubblica un intervista al ministro Calderoli il quale sostiene che la sua legge sia una sorta di cerniera per un paese a pezzi. Lei che ne pensa e, soprattutto, a quali conseguenze potrà portare? «Ridisegnerà lo stato sociale. La distribuzione delle funzioni relative a diritti fondamentali (scuola, sanità, lavoro etc) diventeranno di competenza regionale. Se la sanità – ad esempio – verrà gestita dalla regione, sarà ben diversa da una sanità nazionale. Si tenga presente che la sanità è già materia concorrente, sebbene venga garantito un qualche controllo da parte dello stato centrale. Se si affida tutta la materia alle regioni, è evidente che si giungerà ad una rottura dell’unità economica, politica e sociale del paese. Il lavoro lombardo sarà diverso dal lavoro calabrese. E così via per le altre ventitré competenze in oggetto».

A proposito di competenze diverse e dell’unità nazionale, le chiedo un parere sul discorso del Presidente Mattarella alla 50° edizione delle Settimane Sociali della Chiesa Cattolica in cui ha utilizzato l’espressione «analfabetismo costituzionale». Ci sono state varie reazioni, il ministro Salvini non l’ha presa benissimo, tuttavia resta l’espressione: è stata troppo forte o è caratterizzante – alla luce di quanto ci siamo detti a proposito delle modifiche Costituzionali – delle forze politiche di centrodestra al governo? «Mi verrebbe da dire che è troppo debole! Alcune reazioni che ho letto al discorso del Capo dello Stato dimostrano come questo analfabetismo costituzionale investa alcuni esponenti politici: o il discorso non si è capito, o si è frainteso, o non lo si è letto. È stato, invece, un bel discorso quello del Capo dello Stato che andava ad inserirsi sulle spalle dei classici: gli assetti costituzionali e democratici non sono l’elezione di un capo che tutto può fare ma alla distribuzione, al controllo e alla diffusione del potere. Il Capo dello Stato afferma quello che tutte le teorie democratiche e costituzionali dicono: c’è un rischio di tirannia. La tirannia della maggioranza è il rischio maggiore. Spero, anzi, che sia analfabetismo costituzionale perché se non lo fosse, sarebbe ancora più inquietante».

Tirannie, dittature della maggioranza: il ministro Salvini ha dichiarato che vige l’opposto, cioè quella delle minoranze. «Non so cosa sia esattamente la dittatura delle minoranze. So che in un assetto democratico è necessario coltivare un conflitto. Un conflitto hegeliano che opera all’interno dello stato costituzionale. La democrazia è dialettica tra maggioranza e opposizione: è l’essenza della democrazia. Non c’è democrazia se non c’è conflitto tra maggioranza e opposizione. Dopodiché capisco che possono esistere dei poteri di veto di minoranze, ma questo è tutto un altro piano del discorso. Normalmente, i poteri di veto (negativi) possono essere determinati da quelli che tradizionalmente si chiamerebbero poteri forti: una regione che impone l’autonomia differenziata (sebbene non si siano ancora definiti i livelli essenziali delle prestazioni), potrebbe essere un caso di condizionamento. Se pensiamo a tutte le vicende legate al cosiddetto lobbysmo è certamente un fattore preoccupante, ma col rapporto minoranza/maggioranza non ha nulla a che fare. Ripeto: in democrazia c’è un problema di contenimento della maggioranza per evitare la classica dittatura della maggioranza e il rispetto del pluralismo politico».

La paura delle formiche

Foto di Prabir Kashyap su Unsplash

Da giorni sta facendo discutere quanto affermato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla 50° edizione delle Settimane sociale dei cattolici tenutasi nella città di Trieste. È bastato poco, per la verità, perché i sostenitori del presidenzialismo si scaldassero: Matteo Salvini - in forte crisi nel partito - ha, di nuovo, fatto tremare l'alleanza di centrodestra per cercare di recuperare un po' di consenso interno ed esterno. È servita, come al solito, qualche voce meno leghista e più genericamente popolare (in senso di categoria politica, beninteso) di Forza Italia per cucire la proverbiale toppa provocata dal buco leghista. Quei toni utilizzati dal segretario leghista a proposito di «dittatura delle minoranze» hanno fatto arricciare il naso a molti, costretti a prendere parola anche quando non avrebbero voluto, con tutta evienza: la destra al governo deve mantenersi sul politicamente corretto. Poi la Lega ha smentito, ma il fatt(accio) ormai era già accaduto. Non staremo qui a ripetere le dichiarazioni di Mattarella, di Salvini, di Meloni o di Tajani perché di articoli del genere ne è pieno internet e ne sono stati colmi, fino a non poterne quasi più, anche i quotidiani.

Ci interessa, in questa sede, riportare solo una delle tante interviste di commento alla vicenda che radio, tv e quotidiani hanno pubblicato: quella rilasciata da Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia-Berlusconi Presidente, ai microfoni di Lanfranco Palazzolo, giornalista di Radio Radicale andata in onda il 4 luglio [2024].

Gasparri, avendo Palazzolo chiestogli un parere sull’espressione pronunciata a Cortina da Matteo Salvini, ribadisce il suo pensiero stando nel tracciato della politica parlamentare e della questione legata al presidenzialismo per tutta la durata della breve intervista, riprendendo una proposta di Tatarella riguardo lo «statuto delle minoranze», per quel che riguarda l’ordinamento delle due Camere.

Poi, dichiara: «Guardi, [rivolgendosi al giornalista] io un caso di dittatura della minoranza glielo devo segnalare, così concludiamo la riflessione: il più grave caso della dittatura della minoranza è quello che fa sì che Spalletti rimanga alla guida della Nazionale di calcio. Non lo vuole nessuno: è presuntuoso, ci spiega tutto con quel tono di saccenza … Ecco, quello è un caso di dittatura della minoranza. La maggioranza degli italiani non lo vuole: Spalletti, vattene. Eppure, vede: [noi maggioranza] risultiamo sconfitti».

Pacioso e soddisfatto dell’incongruente paragone, Gasparri sorride mentre Palazzolo si avvicina nuovamente il microfono: «Gliela posso dire una cosa? È comunque meglio la dittatura delle minoranze della dittatura del proletariato».

Gasparri, ovviamente, gongola. Va raccontando da un trentennio dei milioni di morti del comunismo, che ogni lustro aumentano di centinaia di migliaia di unità, senza porre la minima distinzione tra chi è stato comunista fino alla fine dei suoi giorni ma venne ucciso dallo stalinismo. «Certo – annuisce sorridendo – io sono contro tutte le dittature e anche quella de Spalletti… nun se ne po’ più».

Quanto ancora fa paura l’espressione dittatura del proletariato? Fa una paura da matti. I sostenitori del neoliberismo, dunque i rappresentanti di organizzazioni politiche afferenti ai campi popolare e liberale, hanno una paura irrazionale che il loro potere piccolo e la loro esistenza possa essere messa in discussione di nuovo, che parlano sempre come se il pericolo della rivoluzione bolscevica sia dietro l’angolo. Quando è chiaro che non è e non sarà così. Perlomeno non avverrà a breve termine. Entrambi gli attori prima citati, Gasparri e Palazzolo, hanno gli uni timore di non contare più nulla, qualora un giorno i lavoratori decidessero di mettersi in testa di farla finita davvero con lo stato di cose presenti, di essere vessati da tasse, di avere sempre meno possibilità di curarsi, di essere sfruttati ai limiti della schiavitù (la vicenda di Satnam Singh è stato un campanello d’allarme che è durato quel tanto che è bastato a far destare qualche anima bella dal proprio torpore politico-ideologico). Gli altri hanno, invece, il timore che, qualora la dittatura del proletariato giunga davvero, si dovrà dare spazio a chi la pensa differentemente anche sui media più ostili, tanto giungerà lontano l’eco dell’evento prima evocato.

Eppure gli epigoni di Karl Marx e Friederich Engels, così come della tradizione del comunismo leninista (e declinazioni conseguenti), non se la passano troppo bene, quantomeno in Italia, tanto sono divisi da essere giunti alla totale irrilevanza politica e sociale. Così talmente atomizzati da essere paradossalmente - al contrario - testardi nel continuare a perpetuare un lavoro politico di sensibilizzazione e di propaganda (per chi ancora è attivo) ma anche ingenui nel seguitare a riproporsi attraverso uno schema che – a ben vedere – ultimamente non ha portato a successi. Come operosissime formiche, sebbene un po’ schiave della routine.

Nonostante questo dato oggettivo, nonostante i comunisti in Italia non formino classe dirigente da almeno un ventennio, l’incubo peggiore per costoro è e rimarrà sempre la «dittatura del proletariato» per chi ha il potere e lo gestisce con protervia, cattiveria, odio sociale, razziale, di classe.

Che poi l’espressione significa, attraverso l’utilizzo di un linguaggio provocatorio («dittatura») di uno dei due autori in particolare (Marx) e di un’opera pubblicata a metà ‘800, quando il mondo sembrava sull’orlo della rivoluzione, che debbano essere gli sfruttati a decidere e non gli sfruttatori.

E questo fa ancora tantissima paura ai Gasparri e ai Palazzolo.

Da non credere.


Un pomeriggio con Angelo Nazio, partigiano di Torre Maura, classe 1925

Il 30 novembre [2023] il gruppo culturale Terrazzi Letterari di Torre Maura ha incontrato il partigiano Angelo Nazio. La volontà del gruppo dei terrazzari era quella di incontrare di persona Angelo Nazio e consegnargli, per mano di Pierina Nuvoli, animatrice del collettivo, una medaglia realizzata appositamente per quell’occasione in cui c’era scritto: ad Angelo Nazio – Eroe della Resistenza – Torre Maura. L’incontro è stato un profluvio di ricordi e rievocazioni ma anche una chiacchierata sulla Torre Maura che fu, sulla Guerra di Liberazione dal nazifascismo, sulla dittatura e sulla vita che quotidianamente veniva vissuta all’ombra di un governo autoritario, antidemocratico, repressivo. Fascista. Angelo Nazio, classe 1925, ha 99 anni e, nonostante l’età, ha parlato e rievocato tutto come se fosse successo un minuto prima del nostro arrivo in casa sua. Ci abbiamo messo un po’ per riannodare i fili di due ore e trentacinque minuti di registrazione del pomeriggio trascorso insieme, ma finalmente abbiamo pubblicato e reso noto a chi vorrà leggere quanto detto quel giorno.

Grazie ad Angelo Nazio.

Parlare, pensare, agire. «Matteotti è stato ucciso dai suoi compagni», questo ci avevano detto a scuola. Ricordo che rimasi molto basito da questa affermazione. Ma non è che potessimo parlare, anzi…

C’è chi si confidava con amici e poi lo stesso che si era confidato veniva carcerato. Era il 1942. Orazio Scuderi [confinante con la nostra casa a Via delle Rondini] costruì un recinto per un federale di zona [di Torre Maura]: Merlandi. Scuderi aveva sette figli e io sono andato a scuola con una delle sue figlie, Graziella, poi morta di tubercolosi. Scuderi ricevette un acconto da Merlandi ma il Federale, anziché pagarlo, nicchiava e rimandava il saldo finale. Una sera, mentre Scuderi usciva dal negozio della Sora Checchina, mia madre la quale aveva una rivendita di vini e oli, si imbatte con Merlandi e gli riferisce che aveva da pagare vari conti che aveva in sospeso (all’epoca c’era il vizio di segnare le cose dai fornai, dai lattai e via dicendo) pregandolo di saldare i conti che avevano in sospeso. Merlandi lo scansa e lo tratta da ubriacone: si alzarono i toni, le parole si fecero grosse e poi tornarono a casa. La mattina dopo successe che due carabinieri si presentarono a casa di Scuderi e lo portarono via a Regina Coeli: s’era fatto sei mesi. L’accusa che gli veniva rivolta era d’aver accusato Benito Mussolini in persona. Evidentemente non era così. Capirai era n capoccione, quello. [riferito al Federale - intervento di Marisa Nazio Fabriani, sorella di Angelo Nazio] Uno dei fratelli di Scuderi era una guardia e raccolsero testimonianze sul fatto, le chiesero anche a mia madre indagando se si fossero alzati i toni a tal punto da parlare male del Re e di Mussolini: mia madre disse di no andando perfino al processo a testimoniare. Ma comunque Orazio Scuderi s’è fatto sei mesi da innocente a Regina Coeli. Ecco, oggi si può parlare. Allora non si poteva.

«Fettuccine e polli». Uno neanche se lo immagina il pericolo che abbiamo corso e le cose che facevamo, col senno di poi. Io e Camillo Del Lungo (classe ‘23, abitava a via degli storni) camminavamo verso Centocelle [1]: eravamo all’altezza di San Felice da Cantalice (che ancora non era stata costruita, se non ricordo male). Il giorno dopo sarebbero scaduti i termini da rispettare per rispondere alla chiamata alle armi. Se non ci si presentava, si diventava renitente alla leva e le pene potevano variare: se ti andava bene, ma è un eufemismo, ti caricavano su un treno per farti andare a lavorare in Germania; se ti andava male ti fucilavano. Chiesi a Camillo: «Tu che farai domani, ti presenterai?», lui mi rispose che si sarebbe presentato. La mattina prestissimo presi il trenino verso Fiuggi [2] e me ne andai. Il trenino, che poi lo conosciamo tutti come Laziali-Grotte Celoni o Laziali-Pantano, ‘na volta arrivava a Fiuggi e faceva delle fermate intermedie, sebbene non a tutte le corse. Me ne volli andare a Capranica Prenestina [3] da mio zio che faceva il procaccia (portava la posta da Palestrina a Capranica) con cui mi sarei dovuto incontrare a Palestrina: persi la coincidenza e me la dovetti fare a piedi. Sono arrivato alla piazza del paese che sembravo un mugnaio, tanto ero impolverato.

Da mangiare, però, non c’era: deperii molto, tanto che mi venne la febbre e tornai a casa a Torre Maura. Vedendomi così, i miei si preoccuparono a tal punto da chiamare il dottore Anagni, che allora esercitava a Torrenova. Lui, laconicamente, disse: «Servono solo fettuccine e polli».

A proposito di Camillo: addirittura, ma ve la riferisco così come m’è arrivata [questa notizia], diventò anche repubblichino prima di passare ad essere dissidente e partigiano. Per un periodo, però, mi distaccai da queste vicende, non perché non mi interessasse, ma perché volevo concludere gli studi e volevo fortemente riuscire a diplomarmi

[Intervento di Pierina Nuvoli] Il padre, Carlo Del Lungo era militare ma, sebbene lo fosse, aveva costruito un rifugio sotterraneo e molti a Torre Maura vissero lì per un periodo.

[Riprende a parlare Angelo Nazio] Ma anche a Capranica Prenestina la situazione fu simile: due militari, ad esempio, furono giustiziati. Guer(r)ino Sbardella fu fucilato a Forte Bravetta, un altro Angelo Martella finì alle Fosse Ardeatine.

Azionista a Centocelle. Dopo essermi rimesso, iniziai a prendere contatto con il Partito d’Azione nell’ottava zona partigiana. Era una zona piuttosto estesa che andava da Tor Pignattara fino alla Borgata Finocchio, praticamente. Era il 1943-1944: avevo 18 anni, nonostante avessi comunque già iniziato l’attività a 17 anni. Distribuivo il giornale Giustizia e Libertà, principalmente, così come d’altra stampa, volantini. Era un giornale stupendo: ti apriva gli occhi con quello che veniva riportato. Beninteso: Giustizia e Libertà constava di uno, massimo due fogli, non era come i giornali di oggi. Mi attraevano e mi appassionavano tantissimo gli articoli di Lussu.

Un giorno, però, presero il responsabile del gruppo di Centocelle, lo chiamavamo Primo: eravamo molto preoccupati sul futuro del gruppo, se fosse stato opportuno o meno continuare a riunire il gruppo di azionisti. Spesso si effettuava un lavoro politico senza conoscere gli altri componenti del gruppo: se avessimo fatto una riunione pubblica, per assurdo, in mezzo alla strada, non ci saremmo neanche riconosciuti. Una decina di giorni dopo, però, Primo, lo videro passeggiare a Piazza dei Mirti. Fummo presi da sgomento: «Ha parlato», pensavamo. La situazione era ancor peggiore di quando l’ebbero arrestato.

La delazione era un’incognita, un imprevisto che coglieva tutti di sorpresa e che spaventava moltissimo. Chi faceva la spia a volte si vendeva per cinquemila lire. Per l’epoca era una somma cospicua, senza dubbio: ma mettevano a repentaglio la vita di tanti per un proprio immediato tornaconto personale.

A tal proposito vale la pena ricordare un dato: tra i gruppi che pagarono maggiormente in termini di vite umane, ci fu il Partito d’Azione, anche in rapporto ai numeri dell’organizzazione. Anche il Partito comunista italiano venne falcidiato, ma soprattutto a Centocelle il Partito d’Azione fu l’organizzazione che venne maggiormente colpita e che pagò il tributo maggiore. E non sto utilizzando il termine vittime per identificare, ad esempio, anche chi venne sbattuto in galera, ma solo considerando i morti.

Non potevamo stare con le mani in mano: io e altri, essendo stati raggiunti dalla voce della probabile delazione, aderimmo ai Gap (Gruppi d’azione patriottica) del Partito comunista italiano, più rigidi nelle regole. Se la memoria non m’inganna: fu il febbraio del 1944. Rimasi con i Gap fino alla Liberazione di Roma.

Ribadisco: col senno di poi uno non si capacita di quel che ha fatto. Il punto è che tante cose, tante azioni le abbiamo fatte – benché pericolosissime – perché ci si sentiva davvero di farle. Nessuno mi ha mai obbligato a farlo, eppure l’ho fatto. Ed è stato possibile perché mio padre ha dato aiuto e supporto alle azioni.

I mitra sotto al letto. Mio padre rischiò la vita con e come noi e lo ha fatto perché sentiva il peso di vent’anni di dittatura fascista. Quando vennero i tedeschi a casa nostra, quindi durante l’occupazione, lui ebbe davvero un colpo di genio.

Io avevo nascosto dei mitra sotto al materasso: la mia stanza era a piano terra e quando dei soldati tedeschi chiesero (non cortesemente, diciamo, con il piglio nazista delle truppe occupanti) la mia stanza, mio padre subito iniziò a dire che non si poteva perché io stavo studiando alacremente per il diploma e non era proprio il caso. Mi sarei diplomato solo nel 1945. E poi non abbiamo letti disponibili per voi, gli aveva detto mio padre. Loro, ovviamente, cercarono di imporsi verbalmente con le cattive, ma se quelli entravano nella mia stanza e disgraziatamente controllavano sotto al letto, mettevano al muro tutti quanti. Luigi [il fratello] se la sarebbe vista bruttissima: era in fasce ma avrebbero ucciso anche lui.

Alcuni nostri vicini (si chiamavano Luppini) avevano un bel casale, un bell’edificio, che oggi sarebbe la casa rossa a fine di Via delle rondini: i Luppini presero la via del settentrione e andarono via da Torre Maura, ma mio padre aveva un amico (Antonio) il quale aveva le chiavi del loro stabile. Mio padre prese tempo coi tedeschi e si recò dal suo amico, senza stare troppo a spiegare (c’erano pur sempre dei fucili sotto al mio materasso!), chiedendo la chiave dei Luppini. Tornati i tedeschi, ottenute le chiavi da parte di Antonio, l’ufficiale nazista rimase meravigliato, ed era tutto un profluvio di «Ja Ja!»: il posto gli piaceva, sicuramente era più agevole di una sola stanza, la mia, pur al piano terra. Si trattava di uno stabile che aveva cinque-sei stanze ma non c’erano materassi e c’era bisogno di paglia: gliele rimediò mio padre, purché stessero lontani dalla mia stanza-polveriera!

Facevamo sul serio A Via delle rondini (il mese non lo ricordo) fui avvicinato da un ragazzo più grande di me, di cognome faceva Tafuro, ma non ricordo bene. Allora ero ancora nel Partito d’azione: mi avvicinò e mi disse che voleva prendere parte al Pd’az anche lui. Io trasecolai: chi gli aveva detto che stavo facendo attività clandestina? Il Partito d’azione, almeno per quel che ho vissuto io, non era così rigido come i Gap e, spesso, qualche informazione usciva dalle maglie dell’organizzazione. Gli risposi affermativamente, anche se non conoscevo le sue intenzioni, dandogli appuntamento di lì a due giorni: sarebbero venuti dei compagni da Centocelle a confezionare delle armi nella stalla dove i miei avevano una cavalla. Si presentò puntuale ma, una volta viste le armi, si spaventò a tal punto che scappò via e non lo vidi mai più. Chissà che si era messo in testa, urlò: «Ma siete matti?!». I giorni successivi eravamo in allerta: se avesse parlato, addio gruppo rivoluzionario. Non parlò mai: si doveva essere spaventato a tal punto da rimanere sempre in silenzio.

«La Russa? Un criminale». Come si fa a definire una banda musicale l’SS Polizeiregiment Bozen? Come si fa ad avere questo coraggio nel dire una cosa simile di un reggimento che sfilava armato per le vie di Roma? Il riferimento è, ovviamente, all’attacco partigiano dei Gap a Via Rasella. È pure, però, stupido chi ce crede a quello che ha detto.

Odio la guerra. Molti pensavano – e pensano tutt’ora – che uno ha intrapreso la scelta della Resistenza (dunque della lotta armata di Liberazione) perché gli piaceva fare la guerra, perché gli piacevano le armi. Io la guerra la odio. Non ho mai amato le armi e ho educato i miei figli a una cultura antimilitarista tanto che sono stati obiettori di coscienza al momento della leva obbligatorio. Il più piccolo, Massimiliano, che è sacerdote e missionario, ha svolto il suo periodo di obiezione di coscienza con l’esperienza creata da Don Luigi di Liegro.

Loro hanno succhiato il latte della famiglia: a casa non sono mai entrate armi. Pino, che ora è giornalista anche con la Rai, quando andò in Siberia mi riportò un coltello di pregevole fattura. Era davvero un bell’oggetto. Lo vidi una volta sola: mia moglie Rosy (Rosina) e Pino lo fecero sparire perché a casa non dovevano esserci armi.

Aneddoto familiare a parte, io davvero non avevo simpatia per le armi e per la guerra. L’ho fatto perché sentivo di doverlo fare, perché sentivo che non c’era alternativa, perché chi paga sono sempre i popoli: prima eravamo noi, ora sono quello palestinese e quello israeliano, quello ucraino e quello russo.

«Li abbiamo lasciati andare» La mattina della Liberazione di Roma (era prestissimo) io e altri tre percorrevamo a piedi la Via Casilina: all’incrocio tra Via di Torre Spaccata e Via di Tor Tre Teste abbiamo notato i primi carri armati e blindati degli Alleati. Un graduato tedesco, visti i mezzi nemici, rimase intrappolato: voleva, probabilmente, andare a raggiungere una consolare che non fosse la Casilina (magari la Tiburtina) per cercare di scappare. Partirono dei colpi dalla torretta dei blindati americani per cercare di colpirlo. Noi quattro, vedendo il fatto, abbiamo visto l’ufficiale tedesco che cercava di scappare: l’abbiamo rincorso e consegnato agli Alleati. Dovevamo raggiungere il comando a Via delle robinie ma non volevamo percorrere la Casilina, preferendo tagliare per Tor Tre Teste. Notammo quattro soldati tedeschi, appiedati, che stavano in ritirata. Eravamo pari di numero ma loro stavano battendo in ritirata: potevamo consegnare anche loro ma non l’abbiamo fatto. Tutti noi eravamo d’accordo su un fatto: non erano loro i responsabili, non la truppa (sebbene quella nazista realizzò delle nefandezze con una tale cattiveria e irrispettosità che tutti conosciamo). Li abbiamo salvati, anche se loro non l’avrebbero mai fatto. Anni dopo raccontai l’episodio a mio figlio: sussultò in un moto di riprovazione.

Grazie ad Angelo Nazio. Grazie ai ‘ribelli’ di allora.

NOTE:

[1] Il libro Torre Maura di Laura Dondolini e Pierina Nuvoli riporta la medesima testimonianza in cui Angelo Nazio riferisce di essersi lasciato con Camillo a Torre Maura e non a Centocelle. La sostanza del discorso, al di là dell’ubicazione geografica nella periferia romana, rimane immutata.

[2] «Torre Maura era raggiungibile, oltre che con il carretto o a piedi, percorrendo la Via Casilina, anche con il Tram. La linea ferroviaria Roma-Alatri-Fiuggi-Frosinone, il cui progetto fu presentato nel 1907 dall’ingegner Antonio Clementi, che operava per conto di una società belga presente in Italia, prevedeva una linea a scartamento ridotto. La concessione venne data alla Società per le ferrovie vicinali (SFV) […] Il 28 aprile 1927 venne inaugurata la diramazione urbana Centocelle-Piazza dei Mirti».

Dondolini Laura; Nuvoli Pierina; Torre Maura, p.34, CivilMente edizioni, 2015, Roma.

[3] La famiglia di Nazio era originaria di Capranica Prenestina, come hanno scritto Laura Dondolini e Pierina Nuvoli nel loro prezioso volume Torre Maura, riportando le interviste svolte sul campo frutto di anni di ricerca. Marisa Nazio Fabriani «La mia famiglia è originaria di Capranica Prenestina. Abitavamo a Centocelle, dove mio padre lavorava in una grande fattoria di proprietà di Falchetti. Aveva gli orti e seminava tanto grano. Un anno ne ha dato ‘all’ammasso’ ben 60 quintali. […] Avevamo 25 vacche ma a Torre Maura ne abbiamo portate solo 4 o 5». Dondolini Laura; Nuvoli Pierina; Torre Maura, p.42, CivilMente edizioni, 2015, Roma.














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