mercoledì 21 aprile 2021

L'Ardita e la Super Lega

Qualche anno fa sono andato a Lisbona. Davanti la Torre di Belém ho pensato che sarebbe stato bellissimo srotolare la sciarpa giallonera dell'Ardita e mandare la foto agli altri con cui stavamo portando avanti quel progetto, pur consapevoli che gli eventi lo stavano conducendo ad una fine che nessuno avrebbe voluto. O, almeno, nei cuori di chi animava la squadra, in campo e fuori, nessuno avrebbe voluto veder chiudere quell'esperienza. Eppure è quel che è successo. Analizzarne le cause, le motivazioni, le concause per cui questo è avvenuto non è il caso di farle ritornare a galla. So solo che un giorno, davvero, come si canta negli stadi mi innamorai di lei, dell'Ardita, del Nicolino Usai, di quel campo di Pietralata, della Terza Categoria, degli "assistenti di parte" al posto dei guardalinee, rammaricandomi di non averla conosciuta prima quando si chiamava Ardita San Paolo. Quando disputava le proprie partite su di un campo di terra battuta. 

Le vicende della Super Lega (https://sostienepiccinelli.blogspot.com/2021/04/la-super-lega-e-la-morte-del-calcio.html) mi hanno riportato alla mente di quando, per un momento, sia a Roma che in Italia il movimento del cosiddetto calcio popolare stava non solo gettando le basi per costruire qualcosa di alternativo ma lo stava davvero praticando, riuscendoci. Impensabile, mi dicevo. Eppure stava succedendo. Gli anni sono passati troppo rapidamente e al movimento in rapida anabasi successe, con altrettanta repentinità, di accartocciarsi su se stesso. Catabasi profonda. Certo, esistono ancora delle realtà ma purtroppo devono far fronte ad un mondo - calcistico e sociale - ancor più spietato di sei o sette anni fa. Sostenere chi ancora ci riesce è un dovere morale, civile, politico, sociale. Penso alla Borgata Gordiani, che dopo il bruttissimo episodio di violenza nel parco, ha aperto il megafono per far parlare il quartiere esprimendo la solidarietà della comunità che rappresenta; penso all'Atletico San Lorenzo, che ha da poco compiuto 10 anni e che possa compierne altri 10.
Penso a loro e mi convinco che niente è perduto finché c'è chi si batte per un presente, un avvenire e un poi diverso dall'ora che - evidentemente - fa un po' schifo. 

Foto di una Ardita-Real Torres (vinta 2-1 con rosicata della seconda, per la cronaca) realizzata dal grande © Roberto Proietto e utilizzata per un servizio fotografico pubblicato sul
«Nuovo Corriere Laziale».

Sei anni fa, davanti la torre di Belém.

Foto di una Ardita-Real Torres (vinta 2-1 con rosicata della seconda, per la cronaca) realizzata dal grande © Roberto Proietto e utilizzata per un servizio fotografico pubblicato sul «Nuovo Corriere Laziale».   

 

Per puro amarcord, pubblico anche un post che avevo conservato da qualche parte e che non avevo ancora mai pubblicato: credo ne valga la pena. (Luglio 2015)

Cronaca sghemba di un tizio alle prime armi con la cronaca sportiva.
 Ma il titolo potrebbe anche essere: “di proposte umorali, errori, paesaggi pre-urbanizzati”, la scoperta dell’Usai di Pietralata.

«E perché non Casal Barriera — Spes Montesacro?», tolgo gli occhi dal computer come se avessi trovato un tesoro inestimabile sullo schermo e dovessi raccontarlo immediatamente al mio vicino di scrivania, altrimenti chiamato caporedattore.

«Scontro salvezza! Perché no?!». E’ mattina, una piovosa e fredda mattinata di un venerdì dei primi di febbraio, ho accordato una delle tre partite che sono andato a vedere nel fine settimana di metà del mese: campionato Juniores d’élite del Lazio, girone A del 2014/2015, anno primo della collaborazione con il ‘Nuovo Corriere Laziale’.
Con la scusa che devo andare a vedere delle partite di diversi campionati giovanili regionali, imparo l’ubicazione dei campi in cui le più disparate società sportive del quadrante sud est romano disputano le loro gare; le società sportive i cui nomi sono noti solo agli addetti ai lavori, così come la caratterizzazione grammaticale dell’articolo determinativo femminile o maschile nella descrizione della stessa. In sei mesi di collaborazione ho vagato tra Tor Tre Teste e Tor Bella Monaca, passando per Prenestino, Pietralata, San Basilio e affini. 

Quello di Pietralata, più degli altri, me lo ricordo perché il campo è completamente di terra e avvallamenti, dico ‘e avvallamenti’ perché parte integrante del campo stesso: ci sono andato a vedere una delle mie prime partite dei campionati provinciali, dei giovanissimi provinciali. In quel giorno si fronteggiavano Sporting Roma e Borgo don Bosco, l’arbitro era una ragazza della sezione di Tivoli con dei lunghissimi capelli ricci.
La partita, non molto prodiga di emozioni, era finita zero a zero con un episodio molto caratteristico: il centravanti dello Sporting Roma si era fatto vedere più volte nella tre quarti avversaria, aveva tirato un numero imprecisato di volte e la palla era sempre uscita fuori, compiendo ogni volta lo stesso percorso, all’ennesimo tiro finito fuori il guardalinee — un compagno di squadra del centravanti sopracitato — getta rabbiosamente a terra la bandierina lasciandosi andare nell’eloquente commento “e vabbè, ma dai, ma pure io ce riuscivo a segnà stavolta!!”.
Molto meno diplomatica, come al solito, si è dimostrata la sezione parentale degli astanti sulle tribune di pietra del campo: un urlo belluino parte verso il campo, con tanto di mano tesa posta a fianco della congiuntura destra delle due labbra “AO GUARDA CHE SI NUN SEGNI NUN TE FACCIO MAGNAAA!”. 

Riprendendo il filo del discorso, sabato 14 vado a vedere Casal Barriera — Spes Montesacro: la partita, sulla carta, doveva essere una facile vittoria per la squadra casalinga contro l’ultima in classifica, staccata di sei punti. Lo stadio, anch’esso nella zona del tiburtino come quello prima scritto, si trovava dalle parti di Via dei Durantini, o meglio, al vicolo di casale rocchi. Non essendo molto pratico della zona, ed essendo fiducioso che un supporto tecnologico fosse più o meno valido all’opera umana, decido di controllare l’ubicazione del ‘Nicolino Usai’ con l’opzione delle ‘indicazioni stradali’ di google maps e già sorgono le prime complicazioni: in redazione mi ero appuntato Via di Casale Rocchi e mi ritrovo catapultato su Vicolo di Casale Rocchi sulla mappa virtuale. Il lettore romano di quelle parti, leggendo questa mia ignoranza riguardo la via in questione, sorriderà mentre quello che abita in tutt’altra zona si porrà lo stesso problema di chi, come me, si era messo alla ricerca dell’’Usai’: a Roma, specialmente nelle borgate sviluppatesi sulle statali che terminano in -ina, la differenza tra Via e Vicolo non è una questione della pur famosa lana caprina, bensì un problema dirimente che l’autista deve essere in grado di porsi.
Anche perché, ad esempio, chi è che non si è scontrato tra Via e Vicolo di Porta Furba, cercando di capire come vi si entrasse (!) da Via di Porta Furba? In ogni caso, decido di andare lo stesso a Via di Casale Rocchi e, per fortuna, le indicazioni stradali poste dalla società sportiva all’inizio della via mi guidano. Imbocco Vicolo del Casale Rocchi e mi si para davanti un paesaggio pasoliniano, di quelli descritti in ‘Ragazzi di Vita’: la strada è piccola, stretta, piena di buche sopra di un asfalto che avrà visto molte più disgrazie consumarsi che amori nascere; a sinistra ci sono due cancellate coperte su cui c’è scritto a vernice parcheggio privato — non sostare; a destra una palazzina che, con tutta probabilità, sarà stata costruita quando l’erba spadroneggiava sul cemento e l’asfalto era solo quello della strada che ti portava a Roma, non al centro, d’altra parte nel quadrante est si dice ancora vado a Roma; al di sotto della palazzina, poi, c’era una carrozzeria che ora è abbandonata.
Un cartello dell’Atac indica una fermata di una linea proprio di fronte alla palazzina post-bellica e alla ‘carrozzeria’, ai piedi del cartello giallo c’è uno di quei bidoni di latta che, nell’immaginario dei film oltreoceano, vengono usati come camino per l’accensione di un fuoco da abitanti di quartieri poco raccomandabili di gigantesche metropoli.
La strada prosegue e l’indicazione per il ‘Nicolino Usai’ è a destra ma, cammina cammina, non vedo campi, e sì che normalmente non è difficile perdersi campi da gioco o stadi: di lì a qualche metro incontro un signore anziano che, dall’aspetto, avrà avuto una settantina d’anni, e io, confortato dalla presenza di una persona nel bel mezzo di una zona a me sconosciuta, abbasso il rapidissimo finestrino del lato passeggero della rampante Y su cui viaggio da un po’.
«Scusi, per il campo di calcio…sempre dritto?», «Un chilometrë, e ddavandë».
Dall’accento, dalla frugalità con cui il concetto veniva espresso e dall’estrema sinteticità quasi ermetica, ho dedotto che quell’anziano signore avrà avuto origini marsicane.
‘Confortato’ dalle indicazioni del signore, proseguo sulla stradina che, continuando ad essere a doppio senso, si annodava in curve a destra e a sinistra, si lasciava alle spalle il caos della periferia e dei clacsons che suonano ad ogni scatto di semaforo e, finalmente, portava al campo. Arrivato lì mi risuonano in testa le parole che pronunciava Nanni Moretti in ‘Caro Diario’ riguardo la morte di Pasolini, mentre si passava fra le mani delle copie di giornali che riportavano la notizia.
La stradina tortuosa finiva, sostanzialmente, col campo dell’Aces Casal Barriera: parcheggio la macchina in uno sterrato alle pendici di una sorta di incavatura che copriva il sole, non che ce ne fosse molto dal momento che si era in febbraio e che la partita si disputava nel pomeriggio. Quando mi sono presentato alla redazione del ‘Corriere’ non ero abituato né al dibattito calcistico né alla cronaca sportiva, sebbene mi interessassi di nicchismo e anche di quello nell’ambito calcistico, andando a sviscerare e cercare di porre l’attenzione su quei campionati che agli dei più sono talmente inutili che non sono degni neanche di uno sguardo, come quello delle Isole FarØer o, meglio ancora, in Groenlandia (a tutti coloro i quali stanno aggrottando le ciglia e avvicinandosi allo schermo a seguito della lettura dell’ultima nazione citata: sì, in Groenlandia si gioca anche a calcio).

Certo è che col passare dei mesi, magari ancora pochi, ho fatto sì che l’andare a vedere gare di squadre meno blasonate, magari già in lotta per la salvezza nel girone di ritorno, fosse una costante determinante per il lavoro che andavo facendo. Così come il principio dell’allontanamento dalle categorie giovanili per quelle puramente dilettantistiche dall’Eccellenza in giù, con un particolare interesse per Prima, Seconda, Terza Categoria e alle nuove forme di organizzazione di società sportive, come l’azionariato popolare et similia. Insomma, quella partita il Casal Barriera la perse 3 a 0: scontro fra cenerentole, praticamente, in cui la Spes Montesacro, giallonera come l’Asd Ardita, aveva mostrato un carattere e un gioco fino a quel momento sopito, verrebbe da dire.

In un contesto quasi surreale, in cui i rumori dei clacsons, delle sirene di polizia e ambulanze neanche erano percepiti, il timido sole veniva coperto da un costone di una collina alle pendici della quale l’Usai sembrava fosse stato scavato. Poi, il ritorno: riprendere la stradina, quella del signore marsicano di cui sopra, è stato decisamente più facile. Tornare ad accettare il fatto che non ci fosse più l’eco di chi stava sugli spalti ma la rabbia e lo stridio delle gomme sull’asfalto, un po’ meno.

La Super Lega e la morte del calcio

Iniziamo con un’ovvietà, un’equazione, se è consentito. Calcio moderno è capitale. Non che prima di ora, negli scorsi decenni, non vi tendesse: lo abbiamo già scritto, d’altra parte. Tuttavia la nuova notizia, al momento già vecchia per il repentino naufragio, della Super Lega (o Super League) può essere assunta a paradigma di somiglianza. La nuova lega internazionale riservata a chi se lo può permettere, a chi ha i soldi per poterlo fare, imprime ancora di più l’acceleratore su una trasformazione globale del sistema calcistico internazionale. Roboanti, sebbene cave, le parole della dirigenza della Federazione internazionale: «le società organizzatrici la Super Lega si chiamano automaticamente fuori dal sistema FIFA». Addirittura Mario Draghi ha rilasciato una dichiarazione a riguardo: «Il governo segue con attenzione il dibattito intorno al progetto della Superlega calcio e sostiene con determinazione le posizioni delle autorità calcistiche italiane ed europee per preservare le competizioni nazionali, i valori meritocratici e la funzione sociale dello sport». Quali siano i valori meritocratici dietro a speculazioni finanziarie o a bilanci perennemente in perdita delle squadre italiane, non ci è dato saperlo. Per fortuna ci è rimasta l’ironia. È interessante, semmai, vedere qual è stata la reazione del capitalismo occidentale di fronte ad un’operazione evidentemente transnazionale e che coinvolge alcuni tra i più grandi club calcistici, alcuni con consistenti gruppi finanziari alle spalle. Tanto per fare un esempio e per chiarire il peso specifico della questione: la società Venezia FC, recentemente ceduta dallo statunitense Joe Tacopina, è stata rilevata dal connazionale Duncan Niederauer, già pezzo grosso della finanza della Grande Mela (presidente e amministratore delegato della borsa di New York), componente del G100, già nel board di Goldman Sachs.
E stiamo parlando di una realtà di media classifica di Serie B.

La nuova Super Lega riguarderà solo pochi grandi club, in buona misura, tra quelli europei che ottengono soldi dalle competizioni per poterli reinvestire e far sì che possano disputare nuovamente quegli stessi tornei internazionali. I club locali devono accontentarsi delle briciole e, qualora dovessero balzare agli onori delle cronache per prestazioni sopra le righe o posizionamenti al di là delle proprie capacità, i loro migliori giocatori verrebbero inevitabilmente acquistati da altre squadre.

Un ciclo senza fine, un serpente che si morde la coda rigenerandosi: le grandi squadre vincono le competizioni, prendono soldi, acquistano nomi blasonati pagandoli una fortuna, tornano a vincere quei tornei nazionali, si proiettano verso una dimensione quasi eterea della loro popolarità e via dicendo. Tutto, chiaramente, al netto dei debiti che producono le società anno dopo anno. Il calcio italiano, poi, quello “che conta”, è preda di continue speculazioni edilizie e finanziarie in cui sembra avvilupparsi ogni giorno di più, senza realmente uscirne. Ogni presidente che si avvicenda sullo scranno più alto di una società calcistica, indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza, ritiene opportuno investire all’interno del brand della squadra, rilanciandone l’immagine e per farlo – come prima cosa – deve iniziare a sondare il terreno per la costruzione del nuovo stadio. Progetti i quali, nella stragrande maggioranza delle ipotesi, o rappresentano interessi che travalicano il mondo del calcio, oppure sono estremamente connessi alla persona rappresentante la società sportiva in quel preciso momento.
I cambiamenti sportivi sono pochi, stanti così le cose, l’immutabilità è servita: l’inanità è quel che resta dell’estrema finanziarizzazione del calcio. Semmai dovessero verificarsi cambiamenti, impiegherebbero più di qualche decennio. O comunque non sarebbero in meglio, quanto piuttosto in peggio. La vicenda dell’organizzazione qatarina del mondiale lo rappresenta pienamente.

La Super Lega fa cadere ogni maschera all’impalcatura che regge il sistema calcistico transnazionale. Il sistema UEFA pretendeva di essere “giusto” e corretto nei confronti di tutti, quando sappiamo bene che non è così, anche alla luce di quanto detto sopra. Nessuno parte alla pari e lo squilibrio è servito. Intendiamoci: il calcio è anche questo, vedere le squadre meno blasonate gareggiare contro i grandi nomi e – magari – vincere. Non staremo qui a citare degli episodi, tuttavia basti pensare alla vittoria della Coppa delle Coppe dell’FC Magdeburgo nel 1974 (Germania est, in cui il calcio era dilettantistico per legge) sulle squadre europee occidentali, tra cui il Milan di Giovanni Trapattoni, sconfitto in finale. La mossa che si vuole tentare, ad ogni modo, è quella di estromettere ogni altra società che non possa permettersi la nuova SL. Da una parte il paradiso, dall’altra un colpo di fucile nell’orecchio. Non basta chiudere gli occhi per tre volte: il divario si acuirà sempre di più.

Il sistema della Super Lega non solo è stato messo in piedi da squadre-aziende proiettate ai risultati di borsa anziché a quelli sul campo, ma la struttura posta in essere è semplicemente realizzata per fare ancora più soldi. D’altra parte, marxisticamente parlando, la concentrazione di monopoli è una tendenza naturale del capitalismo (e che i liberal d’accatto fanno finta di criticare per dare una parvenza di dignità alle loro tesi).

E IL DILETTANTISMO?
Le squadre e i campionati dilettantistici, in Italia, rimarranno tali. O meglio, si continuerà a far finta che, ad esempio, la Serie D si stia sempre più professionalizzando, a cui vi partecipano squadre realizzate appositamente per vincere e il cui sistema di superamento della categoria non consente un reale passaggio organico dallo status di “dilettante” a “professionista”. Un esempio recente è quello dello Sporting Bellinzago. È più facile ricercare e ritrovare, all’interno dei “vasi comunicanti” fra Serie C e quarta serie, casi di fallimenti, malversazioni, rinascite dopo crisi e acquisizioni di titoli ad hoc, come avvenuto per le defunte società denominate “Lupa” (dalla Lupa Castelli Romani alla Lupa Roma, passando per la “Lupa Racing”, ibrido pontino-castellano di una società di eccellenza che rileva il titolo a seguito del fallimento della prima squadra nominata afferente ai canidi-lupini).

LA LEZIONE DEL CALCIO POPOLARE IN ITALIA
Per qualche anno in Italia si è assistito al fiorire del calcio popolare, tanto nelle piccole quanto nelle grandi realtà urbane. Parliamo di strutture alternative rispetto alla gestione aziendale delle società, dunque di “azionariato popolare” in cui i tifosi sono anche sostenitori e soggetti attivi nella partecipazione della vita di quella squadra. Trattasi di impostazioni, al momento, per natura stessa dilettantistica e non professionista o semi-pro. Tuttavia, i costi per far fronte a dei campionati federali (Figc) rappresentano un muro (spesso invalicabile) per le realtà che tentano di imbarcarsi nella Terza, Seconda e Prima Categoria. A Roma – per quel che riguarda il calcio a 11 maschile - resistono l’Atletico San Lorenzo, che ha dato poco festeggiato i 10 anni di età e la Borgata Gordiani. Terminate, purtroppo, le esperienze di Ardita (ex Ardita San Paolo) e Spartak Lidense (Ostia-Centro Giano). In Italia resistono esempi concreti di “altro” calcio come il Centro Storico Lebowski (Toscana), Polisportiva Gagarin (Abruzzo), Ideale Bari (Puglia), La Resistente (Liguria), Brutium Cosenza (Calabria) e altre realtà per cui ci scusiamo fin da ora di non aver citato. Tutte al di sotto dei campionati di Eccellenza ma opportunamente raccontate dal sito “sportpeople.net” che segue da vicino ogni sviluppo nelle curve, dalle curve e dello sport popolare. Per il calcio femminile, sebbene realtà di calcio a 5 solamente capitolina, qui ci limitiamo a citare l’esperienza della CCCP1987 in serie C. Non foss’altro per evidenti affinità onomastiche.

IL CALCIO È – SEMPRE – QUESTIONE DI CLASSE
Pur tuttavia, sono molte le realtà che hanno chiuso i battenti negli anni: in molte città si è assistito alla nascita e alla morte di ASD di calcio popolare. Una volta tentata la strada, i costi iniziavano ad essere esorbitanti, la partecipazione calava, la questione dei campi e dell’affitto degli stessi pesava sul magro bilancio di una società realmente dilettantistica militante in Seconda o Terza Categoria.

Rimane valida l’esperienza di ogni realtà che ha provato – e in alcuni casi sta riuscendo – a vivere all’interno del sistema federale per testimoniare l’esistenza di un altro calcio, fondato su partecipazione, inclusività, antifascismo e antirazzismo, nonostante qualsiasi difficoltà. Di fronte alla recrudescenza e al tentativo sempre più evidente di poche società iperquotate di far valere la loro posizione finanziaria di fronte al movimento calcistico di tutto il mondo, c’è da incoraggiare la ripartenza e rinascita di ogni società che deciderà di andare in totale controtendenza, per il bene delle loro comunità di appartenenza e in nome di uno sport del tutto diverso. E se oggi la Super Lega sembra essersi sgretolata al primo assalto, prepariamoci, perché non sarà l’ultimo...
 
Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori: https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6953

martedì 6 aprile 2021

Per la periferia solo pacchi e like. «Scavicchi, ma non apra!»

Qualche giorno fa, precisamente il primo aprile, mentre i maggiori quotidiani d'informazione nazionale e territoriale investivano il proprio tempo in spassosissimi post acchiappa-like riguardo notizie finte (per poi classificarle come "pesce d'aprile"), insieme ad altri due compagni della redazione della «Rinascita delle Torri» ci siamo dati da fare e abbiamo spremuto le meningi per la scrittura collettiva di un articolo. Vero, ovviamente, che scaturiva da un fatto reale e tragico. Non che sia, di per sé, una notizia: l'intellettuale collettivo è parte integrante del lavoro di redazione. Tuttavia in questa fase ancora più delicata per le città in genere e per la periferia di Roma in particolare, abbiamo ritenuto opportuno far passare un giorno dall'episodio degli spari a via dell'archeologia e riflettere a mente fredda.
L'articolo si può rileggere integralmente qui: https://www.larinascitadelletorri.it/2021/04/01/gli-spari-sopra/.

Tra le altre cose che sostenevamo, criticamente, oltre all'inanità delle amministrazioni capitoline e municipali, c'era la pratica dei pacchi alimentari, ormai donati da chicchessìa, da qualsivoglia associazione sia essa culturale o organizzazione di volontariato, nei confronti di chi è stato messo a dura prova dalla fase che stiamo vivendo.

La fenomenologia del pacco, non già come lemma inteso per indicare partenopeicamente la zona del basso ventre maschile, rappresenta uno dei mali dell'attivismo politico-sociale del nostro tempo e delle zone colme di disagio come quella in cui vive chi scrive su questo blog. Sicuramente qualcuno che leggerà queste righe, quelle tre persone rimaste, storcerà la bocca e dirà "ma a questo non sta bene neanche che si faccia solidarietà coi pacchi dando da mangiare a chi non ce l'ha?".
Il punto, come al solito, non è quello: sono felicissimo se la "macchina della solidarietà", come si dice con un espressione cara alla pubblicistica, si metta in funzione.

Tuttavia, c'è un altro lato da analizzare. 

«Molte associazioni, realtà culturali, politiche e associative territoriali, così come a cascata quelle rappresentate al consiglio municipale e in Assemblea capitolina, preferiscono vedere il bello nei quartieri dove di positivo c’è davvero poco, cercare la pepita d’oro in un fiume colmo di fango, il raro quadrifoglio in un mare di zizzania. Questo ragionamento circa la “bellezza” dei luoghi di frontiera può durare un anno, tempo di una fascinazione giovanil-adolescenziale, non costituire il portato di una politica della periferia. Per anni, specialmente nell’ultimo decennio, la politica che non assume più neanche mezza responsabilità, ha demandato un lavoro sociale e culturale a chi cerca “il bello” a Torre Maura, Tor bella monaca, Torre Angela, Borghesiana e via dicendo. Ma niente è bello quando lo Stato langue e, se esiste – come esiste realmente – una massiccia presenza di criminalità organizzata nel territorio e le sue ramificazioni locali tentano di costruire uno stato nello stato, come più volte asserito negli anni dalla stampa antimafia che si occupava del tema. Il “welfare criminale” che, in un certo qual modo,  tenta di sostituire quello degli enti locali. Quante risorse pubbliche e opportunità di riscatto sociale non arrivano più da anni in periferia? Un altro lato del prisma da illuminare. Si fa presto a dire “ordine pubblico”. Come non vedere che là dove ci sono stati tagli allo stato sociale e conseguente assenza delle istituzioni pubbliche, “soggetti altri” si intrufolano e occupano spazi e funzioni necessarie? Questo è il dato da centrare, da mettere a fuoco.
Arrivano anche da quei settori associativi di pulcritudine periferica, e che precedentemente citavamo, proposte circa “il lavoro” e “i finanziamenti”. Ma anche gli orologi rotti, almeno due volte al giorno, segnano l’ora esatta».

 Anche perché a seguito di ogni fatto di violenza in periferia: 

«Ricomincia il "circo equestre" dei commenti dei mass media, i quali sprecano parole e slogan triti e ritriti sulla periferia Romana, sulla sua intrinseca violenza. Ma che, in fondo, non sanno neanche arrivarci al Grande raccordo anulare e uscire alla 17 o alla 18. Anche in questo caso, la stampa, anziché capire, giudica e colpisce con sentenze e luoghi comuni per convincere l’opinione pubblica che il destino della periferia è già segnato. E per questa ragione, alla fine, la Roma oltre il GRA non merita nulla; se non compassione, una lacrimuccia accompagnata da una sordida carezza. E pacchi alimentari. Quelli non devono mai mancare: producono “mi piace”, visualizzazioni e glorificano le anime belle della politica romana e locale. Non si dice che la questione è a monte: che non c’è più lavoro, che in pochi si sono presi tutto e molti non hanno più nulla».

E allora perché scrivere questo post? Semplicemente per ribadire questo fatto, dopo che il presidente dell'associazione 21 Luglio, insieme ad altre realtà etnografiche-antropologiche e legate all'Università di Roma "tor Vergata", ha rivendicato il fatto che la realtà dell'ex Fienile (un tempo libero spazio sociale) abbia iniziato a distribuire pacchi di generi alimentari.
Perché alla periferia i pacchi non devono mai mancare.

Per carità nessuno dica che in questa pandemia pochissimi ricchi si sono arricchiti ancor di più e i proletari (*) si sono ancor di più impoveriti dopo aver, in ordine sparso, perso il lavoro, entrati nel gorgo della cassa integrazione e via dicendo.
Per carità nessuno lo dica, "signora mia".


(*) Chi vive del proprio lavoro è un proletario. Punto.