Scuola, perché non bisogna rivendicare il Next Generation EU

Il presidio dei Cobas a Roma, in occasione dello sciopero della scuola del 26 marzo, presidio cui hanno aderito varie realtà associative, di settore e studentesche (tra cui anche la Rete degli Studenti medi) è stato caratterizzato nei suoi vari interventi – così come rivendicato anche dalla Rete – dall'apertura ai fondi del “Next Generation EU”. Un’apertura critica, senz’altro, un'apertura dialettica, ma pur sempre possibilista riguardo ai fondi europei. Un'apertura che comunque non può avere altro significato se non quello di un finanziamento a debito della scuola, dunque verso un peggioramento, nella prospettiva di lungo periodo, del comparto dell'istruzione nella sua interezza. Evidentemente tale fattore di rischio non è stato compreso dai Cobas, dalle studentesse e studenti presenti, che rivendicavano di essere loro la "next generation", fin dalle scritte sui cartelli che tenevano in mano. 

NEXT GENERATION EU
La misura invocata, ovvero il Next Generation EU, riguarda un piano di finanziamento pluriennale che prevede uno stanziamento di risorse, pari a 750 miliardi di euro, al quale spesso viene cambiato nome da stampa e politici, preferendo la dicitura “Recovery Fund”, la quale tuttavia si riferisce alla quota finanziaria del “dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza”. Si tratta di una mossa economica che vede gli Stati membri dell’Unione europea emettere debito comunemente. All’interno del quadro pluriennale per il periodo che va dal 2021 al 2027, “Next Generation EU” detiene la porzione più importante del finanziamento totale, attorno al 40% di 1.824,3 miliardi. Dunque, per farla breve, si tratta di un enorme finanziamento a debito, invocato dalla stessa classe politica che per almeno venticinque anni ha presentato qualsiasi tipo di politica economica a debito come il male assoluto da scongiurare a qualsiasi costo (per capirci: il 15 marzo di quest’anno il debito pubblico italiano ha sfondato quota 2.600 miliardi di euro, pari al 160% del PIL, nonostante decenni di politiche lacrime e sangue presuntamente finalizzate diminuirlo) [1].

C’è da segnalare che i fondi europei del NG EU sono vincolati dalla “condizionalità” riguardo al loro utilizzo, e non è una questione secondaria.
O si seguono determinati dettami imposti per la spesa di tali fondi, che riguardano innanzitutto gli indirizzi e le condizioni di merito dei finanziamenti, oppure il “pilota automatico” caro all’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri quando era in carica alla BCE seguirà – indisturbato – su una strada sempre più stretta e impervia. A partire dagli investimenti europei, i principi fondamentali su cui si basa l’investimento, per cui ogni paese europeo ha sviluppato un piano specifico, riguardano vari capitoli di spesa, come ad esempio “transizione verde”, le pari opportunità, la stabilità macroeconomica e la “transizione digitale”.

Specie per quel che riguarda l’istruzione, dunque, l’impegno è di 28,5 miliardi. Tuttavia viene riproposto il modello di scuola che ha fatto seguito alla legge Renzi (cosiddetta “buona scuola”). In altre parole: ogni scuola e ogni aula potrà avere un computer di ultima generazione per la didattica, tavolette grafiche, lavagne multimediali, ma niente sarà dato per la messa in sicurezza del plesso scolastico, che molto spesso è ferma agli anni del Pentapartito. Molta forma e poca sostanza, quando invece i due tratti spesso coincidono. Le politiche che accompagneranno questi investimenti a debito saranno quindi le solite, verrebbe da dire, trasversali nel segno dell’imprenditorialità, che già campeggia da anni negli obiettivi scolastici proposti a ragazze e ragazzi delle scuole secondarie di II grado. Non a caso un capitolo di spesa del piano italiano è intitolato significativamente “Dalla ricerca all’impresa”: l’idea alla base di questo processo organico del NG EU è quello di fornire un rapporto di subalternità dell’istruzione all’impresa. Perché di questo trattasi. 

RIAPERTURE FANTASCIENTIFICHE E RIAPERTURE REALI
La “questione giovanilista”, vien da sé, non può essere assunta come principio cardine per la riapertura, in funzione della scuola in presenza. Il problema è a monte, o alla radice, a seconda del paragone che al lettore piace di più. Le scuole vanno senza dubbio riaperte ma devono essere messe in sicurezza attraverso un piano vaccinale reale, centralizzato, non demandato alle responsabilità delle regioni; docenti, ATA, studentesse/studenti, devono poter essere monitorati dai presidi sanitari in ogni scuola. 

È evidente che il contagio avviene fuori dai plessi scolastici: c'è da evitare che venga portato all'interno delle aule. Per evitare questo cortocircuito serve un piano. Il piano che prevede 8 milioni settimanali di tamponi è totalmente privo di credibilità, e basta guardare quanti tamponi siano stati fatti finora, e come siano stati fatti, per rendersi conto dell'assenza di una qualsiasi base per rendere effettivo un tale provvedimento, peraltro così esteso e concentrato nel tempo. È evidente quindi che un piano non c'è.
E riaprire senza un piano significa chiudere due settimane dopo aver riaperto, reiterando un binomio apertura-chiusura ancora più nefasto sul piano psicologico per migliaia di ragazze, ragazzi, docenti. È impensabile, infine, che i soldi europei – peraltro una tantum – vadano davvero a risolvere i problemi strutturali che la scuola italiana possiede da vari decenni, a causa dei tagli apportati dai governi di centrodestra, centrosinistra e tecnici.
 

È impensabile rivendicare l'utilizzo di quei fondi per la scuola, per la loro messa in sicurezza circa l'edilizia, per la stabilizzazione dei precari (da organico di fatto a di diritto), per le assunzioni vere e massive, perché l'unico provvedimento vero in grado di soddisfare queste esigenze e di rovesciare il piano inclinato sul quale sono state decise tutte le politiche scolastiche “a perdere” degli ultimi decenni è la patrimoniale. Ricorrere ai fondi europei per tale rivendicazione costituisce nei fatti la legittimazione di un ulteriore indebitamento delle casse pubbliche a spese dei lavoratori, senza peraltro che i fondi spesi vadano minimamente nella direzione dei bisogni della scuola e della classe lavoratrice.
Anni e anni di tagli alla spesa pubblica, che hanno danneggiato soprattutto la scuola, la sanità e i trasporti, vanno colmati presentando il conto alle classi dominanti.
 

Torniamo a ripetere che solo una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco dei patrimoni, unita ad un sistema di tassazione fortemente progressivo, può restituire realmente le decine di miliardi di euro tagliati, e consentire una reale messa in sicurezza della scuola, dei suoi studenti e dei suoi lavoratori.
Solo una patrimoniale di questo tipo, cioè una patrimoniale anticapitalista, espressione di un altro governo della società e di un altro potere politico, può portare un cambio di rotta in questa società colpita dalla crisi del sistema di produzione capitalistico e da questa pandemia, uno dei suoi sintomi. Cioè a dire: paghi chi non ha mai pagato, chi si è arricchito durante la pandemia mentre centinaia di migliaia di lavoratori si sono impoveriti e hanno perso l'impiego. 

[1] https://www.repubblica.it/economia/2021/03/15/news/debito_pubblico-292301274/

 

Articolo pubblicato sul sito del Partito comunista dei lavoratori

Ma che ce stai a fa?

Il 20 marzo ricorrevano i due anni dalla morte di Tina Costa. In quell'occasione mi ero lasciato andare in un ricordo tutto personale, dopo la seconda volta che aveva accettato di intervenire alla Biblioteca Collina della Pace di Finocchio.

Stamattina, non so per quale motivo o associazione libera della mia testa, mi risuonavano le sue parole nella testa, pronunciate da lei in un momento preliminare di una riunione con Fabrizio de Sanctis (allora e attuale presidente Anpi di Roma), la sezione del VI appena nata e ovviamente Tina Costa. Non sto a dire quanto lei fosse legata al VI municipio e alle sue borgate: per lei eravamo "i compagni de Tor bella" e voleva bene a chi aveva deciso di fondare la sezione nella sua "ex ottava circoscrizione", tanto più che io e Gianmarco eravamo ancora quasi "pischelli" che da poco avevano discusso la triennale. Poco importava che io fossi di Torre Maura e Gianmarco di Borghesiana: la sezione era, momentaneamente, a Tor bella. Dunque, eravamo i compagni de Tor bella. 
 
De Sanctis, con cui ho condiviso il percorso della Fds a cavallo tra l'essere minorenne e maggiorenne, ricopriva per la prima volta quell'incarico da me considerato importantissimo, nel mio personale immaginario politico-sociale. Entro nella stanza della sede romana e c'è Fabrizio seduto ad una sedia dietro la scrivania, Tina Costa è seduta dirimpetto l'elemento d'arredo colmo di fogli a cui vicino era stato appoggiato un computer molto datato con schermo a tubo catodico.
Proprio lui inizia a parlare: "Tina, lui è Marco, il compagno che...", non fa in tempo a finire la frase e lei "Lo so, lo so chi è: è il compagno de Tor bella, della sezione dell'ex ottava che mo se chiama sesta", annuendo cercando di dissimulare quel po' di tremore che, involontariamente, produceva il suo corpo.
"Ah ecco, ti ricordi" - fa De Sanctis - "così evitiamo di ripresentarci: è un compagno, eh. Certo, mo è un po' de tempo che sta co Rizzo...", e tutto il suo viso si modella per assecondare alle pieghe delle labbra che si producono in un sorrisino sornione cercando approvazione in Tina Costa, tanto che lei, per tutta risposta, disse: "Ecco", congiungendo le mani come in una preghiera, agitandole dal petto in fuori, dal basso verso l'alto, proseguendo: "ma che ce stai a fa co Rizzo, ma dimme te!".
Un po' come scrisse Carlo Emilio Gadda nel Pasticciaccio
"Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli"
Subito dopo, neanche una manciata di secondi, arrivano altre persone e comincia quel piccolo incontro.

A cadenza regolare nella mia coscienza, a distanza di tempo, tento di rispondere a quella domanda coniugandola all'imperfetto, ogni volta che si ripresenta. Un po' come la mattina alle 8:00 con i peperoni della sera prima che si riaffacciano.

Il passato remoto di "masticare"

Lunedì 15 nella Regione Lazio tornerà la zona rossa. Scuole chiuse.

Gli incentivi per l'istruzione sono quelli destinati - e concepiti - per la digitalizzazione e per colmare il digital divde presente. Connessioni e computer, lavagne multimediali e "imprenditorialità", quando i problemi di edilizia scolastica la fanno da padrone in più della metà dei plessi. Almeno a Roma. 

Chiudono tutte le attività non produttive.

Perché, in fondo, è così: la scuola non produce reddito, non è un'azienda, è il parcheggio di persone a basso reddito. Chi può, manda i figli in posti diversi. Certo, anche loro a distanza, ma tutta un'altra storia: il futuro è già segnato.

Per la scuola, insomma, il classico passato remoto del verbo "masticare", così come ci chiedeva di coniugarlo l'amichetto stronzo delle elementari: "mi dici il passato remoto di masticare" e tu, ingenuo "masticai". Il ghigno di lui si alza pervicacemente, ti guarda bieco: "masticazzi".

Masticazzi.



Fitto c’è, Meloni esulta. Ma il paese reale langue

Una vittoria. O, almeno, per i canoni dell’esecutivo Meloni una netta vittoria. E no, non stiamo parlando della contrarietà della President...