Un blog in cui scrivo tutto quello che mi occupa e mi pre-occupa. Ma anche di molto (troppo) altro.
Opportunismo, ovvietà, inconsistenza. Va in scena il film già visto del campo di centro democratico
È stato l'inverno.
Entro in una tra quelle che saranno le "mie classi" fino al termine delle lezioni. Inizio a parlare di storia in un quarto superiore: manco a dirlo, sono già indietro con la programmazione.
Docente assente per un mese e mezzo, arriva una supplente che sta lì 10 giorni contati, fa in tempo a svolgere quattro ore, poi arrivo io. Parlo un po’ della guerra dei trent’anni e della crudeltà sottesa a quest’evento bellico, del fatto che una guerra di religione sia rapidamente sfociata in un conflitto legato a tutto il continente europeo e che «arriva a coinvolgere la Russia».
Una studentessa, ragionando ad alta voce, dice: «Che poi, prof, la Russia non vince mai, come nelle due guerre mondiali». Io rimango basito, il fervore mi attraversa tutte le vene del corpo e balla coi globuli rossi che corrono veloci dalla punta del mellino fino al dito indice che “brandisco” manco fosse Durlindana. Rimango impassibile nonostante il terremoto di scala Richter che sta avvenendo nel mio corpo: «In che senso, cara?»
«Nel senso - prof - cioè almeno da quello che ci hanno detto alle medie, la Russia riesce sempre a vincere grazie all’inverno. Cioè: in Russia fa freddo e a un certo punto le truppe si ritirano perché non sopportano le temperature rigide».
Avvampo e alzo la voce brandendo Durlindana (il dito indice) sempre più in alto. «Nient’affatto: nella Seconda guerra mondiale la Russia ha stravinto contro i nazisti; la popolazione ha resistito eroicamente all’assedio nazista di Leningrado; li ha messo in fuga a Stalingrado: i tedeschi non hanno vinto più manco mezza battaglia ritirandosi sempre e, una volta tornati, a Berlino hanno fatto combattere le milizie cittadine tra gli ultimi uomini rimasti in città (coscritti) e i ragazzini di dieci anni ma alla fine l’esercito sovietico ha issato la bandiera rossa sul Reichstag!».
«E l’inverno non c’entra davvero, prof?»
«Ma certo, ci sarà pure la variabile del freddo ma il dato incontrovertibile è che nel 1941 i nazisti invadono la Russia sovietica e si macchiano di violenze indicibili contro la popolazione perché sono slavi e gli “ariani” li considerano inferiori. I russi vogliono far vedere loro che sono i nazisti ad essere inferiori: soprattutto militarmente».
«E nella prima allora? Lì hanno perso i russi, o no?», continua, non vuole credere che tutto quello che le è stato insegnato sia una sonora minchiata. «Nella prima i russi si sono ritirati perché la guerra era insensata: si moriva al fronte per lo Zar mentre l’esercito, la gente, voleva la rivoluzione, il socialismo: voleva andare contro chi li stava mandando a morire di fame o a causa delle pallottole tedesche/austriache. E poi nel 1917 si sono ritirati perché - ad un certo punto - non è più esistito neanche più lo Zar: c’è stata la Rivoluzione, quella con la R maiuscola». Forse alzo un po’ troppo la voce, forse mi sono lasciato prendere, anche perché eravamo partiti dalla guerra dei trent’anni. Però la classe è ammutolita, come se avessi detto loro che a breve il palazzo dove eravamo anche noi sarebbe crollato in un attimo.
Due ragazzi annuiscono in silenzio, uno fa all’altro: «E così, allora, me spiego pure perché c’era Berlino divisa», e l’altro: «È proprio n’altra storia, almeno ho capito qualcosa».
Considerazioni (poche e immediate) a margine.
Non sarà affatto facile scalfire il muro di cinta della narrazione anti-storica costruita ad hoc nel corso di questi anni. I ragazzi non hanno una visione d’insieme ma tanti piccoli pareri di svariati docenti che arrivano e poi sono costretti ad andarsene da quella stessa scuola in cui sono stati per poco tempo. Un condominio di dodici piani che si regge su una “incrollabile” struttura di stuzzicadenti. Prima o poi tutto crollerà: quando quel giorno arriverà, il botto si sentirà molto lontano. Tuttavia, la questione è seria: per mesi i ragazzi non hanno docenti, le classi restano scoperte a lungo, la programmazione ne risente pesantemente. Ognuno di loro vorrebbe arrivare a capire come si è arrivati al punto in cui siamo oggi, dopo le guerre mondiali, studiando il Novecento: quello che è stato raccontato loro fa abbastanza ridere. Forse lo sanno, è per questo che, appena smetti di parlare della guerra dei trent’anni e ti infervori, loro stanno zitti e ti guardano. Perché forse non avevano mai sentito parlare di tutto questo prima di quel momento in cui tu, brandendo il dito/Durlindana, hai parlato, in preda a vampe bolsceviche.
La nuova umanità verrà, ne sono certo. Anche se la sensazione è quella del suo allontanamento dall'orizzonte, ogni giorno sempre di più.
Mastodonticamente kitsch
Si faceva chiamare Eric Carr ed è stato il batterista dei Kiss nel momento di prima crisi e successiva trasformazione del gruppo-azienda statunitense.
Alla fine degli anni ’70 il quartetto mascherato era abbagliato dalle luci del successo e i loro brani stavano via via assumendo una vena pop sempre più marcata: lo spettro della canzone “usa-e-getta” era ormai ben presente in tutti i loro dischi. Quel periodo venne rappresentato magistralmente da “I was made for lovin’ you”: canzone tutt’ora molto famosa che non rappresentava niente dello spirito di “Hotter than hell”, tanto per citare uno de dischi più rappresentativi della prima fase del “bacio”.
Gli anni ’80 premevano, i Kiss erano in difficoltà, droga e alcool iniziano ad essere sempre più presenti nella vita del quartetto: Ace Frehley è costantemente ubriaco prima di ogni concerto e in svariate occasioni ufficiali; Peter Criss viene sostituito da un altro batterista (Anton Fig) per la registrazione di Dynasty (1979) a causa del suo continuo abuso di droghe.
La salvezza del gruppo americano verrà da lontano: si chiama Paul Charles Caravello, figlio di italiani emigrati negli USA. Assumerà il nome di Eric Carr per suonare coi Kiss e andrà a sostituire il batterista, e co-fondatore della band, Peter Criss.
I Kiss sono ancora truccati e lui non ha deciso quale animale o personaggio fantastico interpretare. Ci pensa su qualche tempo: sceglie quello della volpe, anche se lo terrà pochissimo in volto. Nel giro di due anni il gruppo decide di fare a meno del cerone e di rivelarsi al pubblico con le proprie facce optando per la moda del momento, inseguendo le sonorità glam.
Prima di farlo, Carr ha tempo di registrare due album col trucco da volpe: “Music from: The elder” e “Creatures of the night”. Dopo sarà la volta del disco dal sobrio (gulp!) nome “Lick it up!”.
Né “The elder”, né “Creatures of the night” riescono però a risollevare i Kiss e a tirarli fuori dal baratro in cui s’erano cacciati: la fama, l’abuso di droghe e alcool li aveva resi porosi al successo istantaneo. “Le insegne luminose / attirano gli allocchi”, avrebbe cantato in Italia qualche anno più tardi l’attuale eremita di Cerreto Alpi. E sì che “The elder”, se ascoltato decontestualizzato dalla storia del gruppo, rappresenta tutt’ora una piccola gemma: un gruppo che sta ritrovando l’identità perduta e si inventa una colonna sonora di un film che manco esiste. Roba da visionari.
Il glam impazza, l’hair metal anche, così come il thrash. Il pubblico dei Kiss diminuisce sempre di più. Tiene una grande, ma non vasta, schiera di fedelissimi che continuerà a seguirli in ogni occasione.
I tempi di “Alive” sono lontanissimi.
Eric Carr, però, è deciso a dimostrare quel che vale e ce la metta tutta. Durante i concerti la sua presenza è sempre più predominante nonostante sia minuto dietro ad un “drumkit” immenso: doppia cassa (a volte tripla!), dagli 8 ai 12 tom, set di piatti che sovrasta la montagna di tamburi e, al di sopra di tutto questo, delle placche simil-batteria elettrica che fungevano da riproduzione di suoni tipo synth.
Mastodonticamente kitsch.
Eric Carr è organico in tutti i dischi del gruppo fino al 1991 quando viene a mancare a causa di un brutto male. L’ultima canzone che suonerà coi Kiss sarà “God gave rock’n roll to you II” (sul cui testo è meglio sorvolare) e l’ultimo tour che intraprenderà sarà quello terminato nel 1990 a seguito della pubblicazione di “Hot in the shade” noto al grande pubblico più per la copertina che per le canzoni in esso contenute: la Sfinge con gli occhiali da sole. Anche in questo caso, per me è impossibile trattenermi, da bravo nicchista: “Hot in the shade” contiene alcune tra le canzoni più belle della storia del gruppo “Hide your heart” e “Forever”. Certo, arrivano gli anni ’90 e i Kiss iniziano ad abbandonare le zeppe e il trucco da donna, si vestono con le magliettine giro-ombelico dell’Everlast e con le sneakers; i giubottini di piume (ora cari ai Måneskin) vengono sostituiti da quelli di pelle; la matita sotto agli occhi è un ricordo lontano, così come lo smalto nero sulle unghie; le Gibson rimangono ma sono molto più sobrie rispetto alle Washburn anni ’80 piene di brillantini e glitter dei vari concerti di promozione di “Animalize”.
Ma Eric Carr batteva tutti anche in quest’ambito e ha sempre suonato, fino all’ultima esibizione, con gli occhiali da sole tondi. Sobrietà al potere.
«Non ho nient’altro da dire su questa faccenda».
Sweet home Pacinotti
Adesso ci credete?
Si tratta di una colossale immissione di denaro a debito, ulteriore indebitamento che pagheranno sempre i soliti, sempre le classi popolari, sempre chi i soldi non ce li ha e che dal PNRR non avrà nulla da guadagnarci.
Si tratta di un’operazione di “maquillage” del capitalismo: faccio vedere che mi impegno in qualcosa, faccio finta di spostare dei soldi impegnandomi nella ripresa post-pandemia anche se la sostanza è una e incontrovertibile. I soldi arriveranno ai soliti noti e chi già annaspa continuerà a dover cercare un tubo più lungo per l’aria e poter respirare da sott’acqua quando la marea si alzerà.
Per la scuola, poi, è tutto molto ridicolo. Gli stabili cadono a pezzi, nella maggior parte dei plessi della periferia romana gli interventi di manutenzione, ristrutturazione o messa in sicurezza mancano più di trent’anni. Certo: ci sono lavagne multimediali e computer in ogni aula, ci sono server a volte super potenti. Però poi crollano i cornicioni e i soffitti. Bell’affare, eh? Ma questa è la meravigliosa opera di “maquillage” di cui si parlava sopra: investire una quantità spropositata di denaro per la “digitalizzazione della scuola” quando poi le cattedre rimangono vacanti, ai ragazzi mancano sempre docenti ad inizio anno, i concorsi abilitanti si annunciano, vengono banditi, poi però succede sempre qualcosa per cui non vengono mai portati a termine.
Un moderno «si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità».
Solo che l’ultimo fattore, la dignità, è venuta a mancare da un pezzo.
Tempo fa ne avevo parlato qui (https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6931), criticando lo sciopero dei Cobas della scuola in cui si sosteneva che il Pnrr fosse un’opportunità per l’istruzione, ma ovviamente non me s’è filato nessuno perché “ommioddioilpartitocomunistadeilavoratori”, “maaaadò ancora cor comunismo! Sveeeja, creeesci: er novecento è finito-oh”, “a me n me ne frega n cazzo, annamo a pijà r gelato”.
Cassandra Style. Ma Cassandra va politicamente e ideologicamente rivalutata: «tifiamo Cassandra» come programma politico, parafrasando Lindo Ferretti.
Il punto è che, come al solito, battute a parte, noi tutti pensiamo che sia meglio una bugia detta bene (ma proprio benissimo) di una verità sbattuta a brutto muso davanti ai nostri occhi, cioè: tra poco, nell’immediato futuro, il Piano nazionale di ripresa e resilienza ci presenterà il conto e staremo molto ma molto peggio di prima.
C’è da fare, ovviamente, una piccola precisazione. Così come l’UE ha creato consenso attorno a sé finanziando “progetti europei”, “scambi internazionali”, “progetti di recupero urbano” o altre cose, anche il PNRR avrà questo scopo. Ci saranno, d’ora in avanti, associazioni, comitati, realtà locali che diranno di aver continuato la propria iniziativa proprio grazie ai fondi messi in atto da questo piano per la ripresa, magari affermando anche cose come “la buona politica, a volte, esiste”. Ecco, questa non è buona politica, è atomizzazione della società civile in funzione di una logica estremamente personalista ammantata di localismo, che ora va tanto di moda. Ma di questo ne parleremo in un’altra occasione.
Sporting Aniene - Borgata Gordiani: torce, fotostòrte, bottiglie che cadono
Siamo pur sempre nel III/IV secolo dopo Cristo: gli imperatori vantavano discendenza ed erano espressione dalla classe senatoriale. Che degli appartenenti alla borgata si riuniscano per giocare a calcio sotto il nome degli imperatori Gordiani forse avrebbe fatto storcere il naso anche agli altri reggenti colpiti dalla damnatio memoriae. Cioè quegli imperatori che, secondo l'opinione pubblica di allora, erano stati così deprecabili che non valeva la pena neanche che si ricordassero in futuro.
Ecco, la Borgata Gordiani, ovviamente, con gli imperatori non c'entra nulla. Mentre stavo sui gradoni del campo del Tor Sapienza mi interrogavo sul nome e sull'ironia - a posteriori, tutta persa nelle circonvoluzioni cerebrali di "storico" - nel vedere un imperatore, discendente da una famiglia di rango senatoriale chiedere lumi sulla squadra che porta il suo nome e che diavolo ci facesse quel termine lì, borgata, sulla maglia di tutti.
Dall'ultima partita al Nicolino Usai a seguire l'Ardita è passato fin troppo tempo: mentre i colori gialloneri venivano ammainati dalla nave che tornava sconfitta in porto, ecco che veniva issato il granata da una piccola imbarcazione che voleva prendere il largo nel dilettantismo romano e laziale. A distanza di anni la Borgata Gordiani esiste, vive e proprio oggi ha inaugurato la nuova sede.
Sporting Aniene-Borgata Gordiani
La partita si mette subito male per i granata: il vantaggio è dei gialloblu dello Sporting Aniene. Il risultato rimarrà immutato fino alla fine del primo tempo. A volte il tutto si decide in una manciata di secondi, come spesso accade nelle categorie basse del dilettantismo romano. Oppure in quei momenti di alfa e omega di una partita: nei primi minuti o nelle battute finali di primo tempo o ripresa. È quello che è successo: nella ripresa la Borgata scende con spirito diverso e combattivo: il pareggio è servito in un battito di ciglia dopo il fischio dell'arbitro. Neanche il tempo di rendersene conto e il punteggio, prima inclinato a favore della squadra di casa, ora è di nuovo su un punto di equilibro. Tutto da rifare, per entrambi. Solo che in quel momento chi ha "il pallino del gioco", ma soprattutto del morale, è la Borgata Gordiani. In fondo basta poco: lo Sporting sembra aver «perso il veleno», come dice il mister locale ai suoi: «abbiamo perso il veleno?!». Qualcosa dev'essersi rotto: il centrocampo è il termometro della partita: i locali non fanno sconti e tentano di non far passare i granata oltre la linea di metà campo. Poche occasioni da entrambe le parti ma poi, a seguito di un episodio da parte dell'attacco ospite, lo Sporting rimane in 10 causa doppia ammonizione del numero 8. Il secondo gol arriva allo scadere della partita e i gradoni, su cui si erano posizionati i sostenitori della squadra ospite, sono travolti anch'essi dall'entusiasmo per la partita ripresa per i capelli, per la vittoria conquistata metro dopo metro. Perché non c'è solo la Serie A, non c'è solo la Champions: c'è un mondo di "palla lunga e pedalare", un dedalo di partecipazione e sudore dentro e fuori il campo che è ben lontano dalle partite in streaming o dai biglietti che costano cifre spropositate. In seconda categoria il biglietto non si paga, ma lo spettacolo è assicurato.
«Dovemo pensà che tutte le squadre so più forti de noi, no che manco arrivamo al campo e dimo: "vabbè ma tanto semo mejo noi", non va così», i gialloblu sconfitti hanno qualcosa da recriminarsi nell'atteggiamento. Percorrendo il viale che separa il cancello d'uscita dagli spogliatoi, si sentono queste ed altre affermazioni. C'è, tuttavia, da dire che entrambe le squadre hanno giocato alla pari e fronteggiandosi in modo gagliardo. Serpeggiava rassegnazione a Via degli alberini, in casa gialloblu, di fronte all'Aniene che scorre lento e placido.
E a fine partita: tutti a beve!
Foto gentilmente offerte dalla ©FotoStorteProduction
Sgarbi in VI Municipio?
L’eterno ex Vittorio Sgarbi nel suo video (che non pubblicheremo in questa sede ma facilmente reperibile presso la sua pagina Facebook), oltre alla volontà di rendere «gaia» la «bella monaca» e «angelica» la torre che dà il nome al quartiere, altrimenti nota per fatti poco edificanti, afferma quanto segue: «Non c’è niente di più fertile della povertà: un ricco può perdere tutto, un povero non può perdere niente. Quindi la cosa che può toccare un povero è di trovare qualcosa in più di quel che ha, il ricco ha sempre qualcosa di meno». L’elemosina che il ricco Sgarbi fa alla povera periferia, di cui essa dovrebbe anche ringraziare il Solenne Sindaco di Sutri, rappresenta la solita solfa della più schifosa destra reazionaria di cui Egli ne è rappresentante e primo agente.
Ancora una volta l’atteggiamento nei confronti della periferia, proposto e perpetuato tanto dalle giunte di centrodestra quanto quelle di centrosinistra, rappresenta la visione zoologica del povero che va aiutato, dell’abitante di periferia che, in via d’estinzione, aspetta il ricco Mecenate per essere salvato e per far sì che lui, ricco capitolino, gli spieghi come vivere. Perché evidentemente fino ad ora lo zotico periferico non ci è riuscito. Strano a dirsi come spesso le questioni siano davvero unilaterali: in questo davvero non esiste confine tra Michetti, Gualtieri, Raggi, Franco, Sgarbi. Tutti concepiscono la periferia come spazio da BioParco: “i periferici da cortile”.
Nella fase storica in cui, più di ogni altro momento, i ricchi (per continuare ad utilizzare la terminologia di Sgarbi) hanno visto aumentare ancora di più i loro profitti, è giusto che rendano più sopportabile la vita dei poveri perché loro, in fondo, non hanno niente da perdere. Il ricco sì, lui solamente, si mettere in gioco e rischia addirittura di perdere tutto il suo prestigio, il suo onore (costellato di debiti). Questa narrazione è figlia anche di pratiche egoiche e circostanziali condotte da associazioni e comitati di zona che non ritengono doveroso un impegno generale ma si limitano a far funzionare l’ordinario meno-peggio-di-come-va-di-solito. In altre parole: di rivendicazioni associazionistiche locali che postulano la pratica politica dando assegni in bianco a partiti trasformatisi negli anni in comitati elettorali permanenti del candidato (più o meno) forte di zona. A proposito di informazione e di povertà.
I detentori dell’informazione che conta, quella dei numeri grossi, della carta stampata e non, spalmano addosso alla periferia da anni anatemi e sentenze: non menzionano i dati delle richieste accolte per aiuto e sostegno a chi perdeva in lavoro in questo periodo di emergenza sanitaria. Nel nostro territorio su 80mila persone in età lavorativa, 30mila hanno visto accolte domande di aiuto, di cui 10mila domande approvate per la cassa integrazione, 7mila per il reddito di cittadinanza, 6mila per reddito di emergenza e 9mila domande di aiuto per l’affitto. Su questo dramma sociale la stampa è silente e muta. Su Sgarbi la canizza è servita. Il crollo di lavoro e reddito ha avuto eco nei mass media? No.
E, anzi, rincariamo la dose, questa non è povertà: è miseria. La miseria di chi da anni subisce vessazioni da parte dei ricchi che tagliano presidi ospedalieri e alle linee autobus; regalano pezzi interi di agro romano ai loro amici (altri ricchi) palazzinari per edificare case in cui i poveri pagheranno (se va loro molto bene) 40 anni di mutuo in un’abitazione ubicata a 30 chilometri dalla città e senza un servizio pubblico nei dintorni. La condizione è miserevole proprio perché i ricchi hanno vessato e umiliato una parte di città facendola vivere senza dignità.
Ci mancava solo la protervia spocchiosa del ricco Sgarbi…
«Arrivato Marco!!!»
Non è facile esporre quello che sta succedendo emotivamente - dentro le mie viscere - in questi giorni. Qualche giorno fa ho accettato una cattedra fino a dicembre in una scuola vicino lo stadio Olimpico, ma era come se mi sentissi un estraneo in casa. La prima settimana è trascorsa a fatica, troppa fatica. Avrebbe dovuto essere semplice e invece ogni giorno era un ostacolo, una montagna da scalare.
Le ore non passavano mai.
Una sera, a casa, mentre stampavo delle cose di cui avevo bisogno per la lezione del giorno dopo, ho pensato dentro di me: «quanto vorrei tornare al Pacinotti...». Provvidenza o sorte hanno fatto in modo che l'indomani mattina mi arrivasse una convocazione proprio dal Pacinotti.
Diciotto ore, italiano e storia, due classi dello scorso anno le avrei riprese: ho accettato subito, sebbene qualora l'Usr dovesse nominare l'avente diritto, io debba sloggiare. Pare, però, sulla mia classe di concorso non venga nominato più nessuno, pare che io rimanga, pare per un bel po' di giorni.
Pare.
Succeda quel che succeda, sia quel che sia, sono qui e ho ritrovato due classi. Come un insegnante vero, di quelli che rimangono anche dopo le vacanze estive, di quelli con cui i ragazzi si prendono la libertà di dirti "prof quasi quasi c'è mancato". In senso ironico, ovviamente.
E poi: oggi, la collaboratrice del piano mi prende da parte e mi fa: "prof, venga qua, guardi che le faccio vedere" e mi mostra il foglio che sta qui sotto. Non più ore di buco al posto di italiano e storia, qualcuno dalle segreterie aveva scritto "ARRIVATO MARCO!!" a caratteri cubitali.
E poi: il foglio firme in sala prof era quello dello scorso anno e c'era anche il mio nome e quello delle colleghe e dei colleghi con cui ho condiviso molto. C'erano e ci sono tutti. Come gli insegnanti veri.
Navighiamo a vista, tornando a casa. (Namaziano, ora pro nobis. Namaziano c'entra sempre).
P.s. Sì, effettivamente sono uno che si emoziona con molto poco con tratti di evidente ipersensibilità.
Vita e morte in un condominio di tre piani
Una capatina in Euzkadi
A Bilbao è facile e meraviglioso perdersi tra le vie del Casco Viejo. Tutto appare diverso rispetto all'ordinarietà della periferia romana: abituato alle costruzioni irregolari, a vie che finiscono con cancellate o che seguono il corso di un muricciolo basso costruito prima della gettata d'asfalto, anche la periferia bilbaina sembra logica e razionale. Palazzi alti, appartamenti generalmente più piccoli dei nostri e dai soffitti piuttosto bassi, riempiono i quartieri alla fine della città, come quelli di Abusu, La Peña e Olatxu Auzoa.
Inaspettatezze
Non credo che il termine esista, in caso sarà un neologismo. Il secondo giorno di permanenza a Bilbao decido di andare a scattare qualche foto per il Casco Viejo. Pioviccica, o almeno, agli occhi di un romano sembra che stia pioviccicando, ma la finestra su Zamakola Kalea (Calle Zamakola, Via Zamakola) sembra voler comunicare tutt'altro clima. «Attento al txirimiri: Bilbao è famosa per la pioggia fina e incessante che ti entra in tutte le parti del corpo e oltrepassa i vestiti. Finisci per non accorgertene e sei bagnato fin dentro alle mutande». Ci penso su: anche a Roma è così: la pioggerella che fa finta di bagnare, arriva e sporca tutto quel che può. Pensiero colpevole di ingenuità plurima.
Rendersi conto che tra la pioggerella di Roma e lo txirimiri c'è un abisso, è stata la prima scoperta e conseguente consapevolezza della mia permanenza in Euzkadi. Prendo la macchina fotografica dal nastro di tessuto che dovrebbe essere posto attorno al collo: lo giro due volte attorno al polso ed esco imbacuccato con un k-way del Decathlon. Seguendo un corso di fotografia a Roma, l'insegnante ci ha detto che uscire a fare foto sotto la pioggia si può e si deve fare, tuttavia deve essere protetto l'apparecchio. Quindi, nell'ordine: prendere un sacchetto da alimenti di quelli che vanno nel congelatore, un elastico, tagliarne l'estremità sigillata per far sì che possa uscirci l'obiettivo; ripetere l'operazione per il corpo della macchina.
Non ho fatto niente di tutto questo perché: massì, ma tanto poi smetterà di piovere. È piovuto 24 ore su 24 con pochi attimi d'interruzione e sporadica comparsa di un timidissimo sole. La macchina ha continuato a scattare imperterrita: nonostante l'età sembrava voler dimostrare di farcela benissimo, al pari di tutte quelle moderne mirrorless compatte da strapazzo. Il punto non è la macchina fotografica, quanto più il soggetto che la impugna avvezzo a foto storte, non centrate, fuori fuoco. La specialità di chi scrive: 800 scatti, 4 buoni. C'est la vie.
¿Eres periodista?
Mentre mi perdevo per le vie del centro storico della città, fotografando serrande di locali con vistose ikurriñas disegnate su di esse, o con falci e martelli o ancora con simboli propri dei centri sociali, si affaccia una signora anziana da un balcone. La via è abbastanza stretta: sembra una delle calli di Venezia, una di quelle non proprio minuscole. Piove, al solito: txirimiri incessante, il mio cappuccio del k-way non è nient'altro che un riparo garibaldino dalle infinite gocce che stanno finendomi anche sotto le unghie dei piedi. Gli occhiali sono costantemente pieni di gocce e di condensa del mio respiro: una visione da aerosol ambulante. In strada, ovviamente, non c'è nessuno, ma di questo parlerò più avanti. Si affaccia dal balcone, dicevo, una signora sulla settantina rivolgendomi qualcosa in euskera e additandomi con l'indice della mano destra, muovendolo avanti e indietro: ce l'ha con me. Provo ad arrabattarmi con quel poco di spagnolo che ho appreso leggendo i comunicati delle organizzazioni comuniste latinoamericane e iberiche: «Yo no hablo euskera: solamente castellano». La signora chiude gli occhi e annuisce, contemporaneamente indietreggia e ripropone la mano verso di me ma, stavolta, aperta, come a dire: si okay, aspetta che mi devo sintonizzare sullo spagnolo. Parla di nuovo: «¿Eres periodista?», sei giornalista? Che diavolo ne sa questa tizia che in teoria sarei giornalista? È una frazione di secondo, penso: "Ora le dovrò raccontare tutto? Perché in teoria lo sono ma che non lo sono davvero? Che devo dirle?", il turbinio di pensieri si interrompe quando rifletto che la cosa migliore da fare è assecondare la tipa: «Si, soy periodista pero soy italiano, no español ni frances». «Aah, venga vale: es que todos aquí conocemos a los periodistas y no eres de los que viene solitamente». Controllo del territorio: non sei uno di quelli che viene abitualmente, "chi sei? che vuoi da noi?". Una sorveglianza così capillare del controllo cittadino l'ho riscontrata solo nei piccoli centri della Sardegna. È stato come sentirsi a Sant'Antonio di Santadi dopo la manifestada a Capo Frasca (2013, ma sembra davvero passato un secolo).
Ongi etorri errefutxiatoak
"Benvenuti rifugiati". Si tratta della versione in lingua basca del motto "Refugees Welcome" che anni addietro fece irruzione nell'opinione pubblica riguardo la popolazione siriana, in fuga dal Vicino Oriente per arrivare in Europa. Le bandiere gialle, insieme a quelle che chiedevano l'amnistia per i prigionieri politici della stagione dell'ETA e del terrorismo, campeggiano sulla maggior parte dei balconi bilbaini e delle ringhiere antistanti le finestre dei palazzi. Inutile dire che a queste due bandiere viene sempre accostata l'ikurriña. La coscienza civile e antifascista di Bilbao sembra essere viva e consapevole: non che non esistano le destre, ma qui l'egemonia culturale, nonché la fusione tra il socialismo-comunismo e l'indipendentismo, sembra avere ancora una certa rilevanza. Certo, al governo c'è il PNV, ma il sottobosco culturale della sinistra indipendentista e comunista è più che presente. Ancora un riferimento de coro viene senza neanche volerlo troppo ad a Manca pro s'Indipendentzia, il partito comunista e indipendentista sardo, che poi ha lasciato spazio all'esperienza del Fronte indipendentista unidu e ad altre organizzazioni.
A proposito di bandiere, una volta arrivati a Bilbao: di fronte la Catedràl, cioè San Mamés, lo stadio dell'Athletic Club, campeggiava un caseggiato piuttosto imponente di almeno sette piani; all'ultimo di essi ho notato una bandiera spagnola repubblicana. Non quella attuale monarchica, dunque, ma quella gialla, rossa e viola. Mi giro verso Angel: «Guarda! Una bandiera repubblicana!», lui, scherzosamente, risponde: «Si vede che vuole mostrare il fatto di essere fieramente anti-basco». Inizialmente non capisco, poi si spiega meglio: «Qui le persone sono per l'indipendenza nazionale del Pais Vasco: quindi o mostrano l'ikurriña o niente. Se tu vuoi mostrare la bandiera spagnola significa che sei uno spagnolista, uno che all'indipendenza non è che ci bada troppo. Anzi. In questo caso il tipo sta affermando il suo essere spagnolista e repubblicano... nel Pais Vasco: un'affermazione audace!».
L'Athletic
«Que Atletico?! No es Atletico, es a-t-h-l-e-t-i-c-c-l-ù-b: es inglès, no castellano!», Ramon, il fratello di Angel, è socio da quasi trent'anni. L'Athletic è un'istituzione: «Es como tu piel, no se explicar bien ma es solamente nuestro, l'Athletic, y ninguna ciudad del mundo tiene un club así». Ogni volta che entro in casa di Ramon mi accoglie indossando una maglietta diversa dell'Athletic: immutati colori, cambiano gli sponsor o l'anno di appartenenza della camiseta. Oltre ad essere un'istituzione, l'Athletic vive e sopravvive grazie all'azionariato popolare: l'iscrizione al campionato è assicurata grazie ai soci che ogni anno versano la quota di iscrizione alla società e sono proprietari della squadra in base a quanto hanno versato.
I racconti di Ramon sono nitidi, le immagini di attaccamento alla maglia estremamente vivide, le parole - anche se in castellano - estremamente chiare anche alle mie orecchie. Ogni singola sillaba mi riporta al recente passato di Roma e della scena di calcio popolare: una meteora terminata troppo presto. L'Ardita, la Spartak Lidense, l'Atletico San Lorenzo: di queste tre rimane in vita solo l'ultima a cui - con pieno spargimento di cuore, come scriveva Pietro Giordani a Giacomo Leopardi - è bene augurare ogni bene e ogni successo. Così come, allo stesso modo, è bene ricordare la Borgata Gordiani, nata nell'ultimo lustro e che, territorialmente, è ormai diventata cardine irrinunciabile per il gruppo di sostenitori (e non) di Villa Gordiani. Terza, seconda, prima categoria o Promozione: spesso queste squadre calcano campi di terra o sabbione (specie in provincia), a Bilbao è tutta un'altra storia. L'Athletic disputa la serie A e la Cattedrale, lo stadio, nuovo di zecca, in pieno centro città, sta lì a dimostrare che non serve avere in squadra Messi o Cristiano Ronaldo: «somos el mejor equipo del paìs y representamos la mejor ciudad del mundo!». La moglie di Ramon abbassa lo sguardo sorridendo: «I bilbaini sono molto modesti, come hai visto!».
Quarantacinque mila soci e più. La base sociale dell'Athletic consta di una popolazione grande quasi quanto il quartiere in cui abito: ogni dieci persone c'è un socio compromisario, ovvero delegato, che partecipa alle assemblee ed elegge il presidente, discute del bilancio e via dicendo. Una sorta di Parlamento interno targato Athletic Club. Il video qui sotto non lo sottotitolo perché è effettivamente molto comprensibile.
Ovviamente, il club che fa giocare nella propria squadra solo giocatori di nazionalità basca, deve necessariamente avere un supporto molto ben radicato nella città. È il caso delle decine e decine di squadre affiliate all'Athletic sparse per Bilbao: Danok Bat, Santutxu FC, Otxar Koaga sono solo alcuni nomi di società giovanili e dilettantistiche che fungono da cantera dell'Athletic. Il figlio di Ramon, Gorka (nome più che basco!), per qualche anno era componente effettivo della prima squadra dell'Otxar Koaga: il campo è nelle immediate vicinanze del loro caseggiato popolare. Sì: a Bilbao esiste l'edilizia popolare ed è il contrario di come ce la immaginiamo. «Quando verrai a Bilbao - mi ha detto un giorno Angel - ti accorgerai che la periferia non è come qui: a Roma sembra essere stata creata con cattiveria, perché tu possa sentirti escluso da ogni cosa e lontano dal centro città. A Bilbao i palazzi popolari, las viviendas municipales, spesso non li distingui dagli altri».
Txurdinaga è un quartiere popolare limitrofo a Santutxu: «immagina Tor Bella Monaca ma con servizi, metro, sedi di partito, federazioni calcistiche locali, associazioni, insomma: pieno di vita e non di criminalità. Bueno: c'è anche qui, ma mai come a Tor Bella o Torre Angela o Torre Maura!».
Il campo dell'Otxar Koaga a Txurdinaga |
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Uno dei due campi del Danok Bat |
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