È il 1985 [o forse no].

La foto è dell'ex collega
Silvio Galeano fonte: Facebook

È il 1985. 20 dicembre. Democrazia Proletaria ha sette deputati eletti ma neanche nel giro di dieci anni perderà pezzi: da una parte nasceranno i "Verdi Arcobaleno", dall'altra il movimento per la Rifondazione Comunista.
Se avessi votato, avrei dato il voto a Dp, senza neanche pensarci troppo. La  Democrazia cristiana perde pezzi ma è ancora al primo posto dei partiti più votati; Enrico Berlinguer porta il Pci nell'alveo del teorizzato eurocomunismo. Che poi non è altro che una mano di tinta socialdemocratica. Ma tant'è. Gli anni '90 sono ancora distanti dalla periferia romana, c'è ancora gente che ascolta cazoni orrende come disse Max Collini in Palazzo Masdoni: "le mode in periferia arrivano dopo".
 
Vado a scuola a Centocelle, che già sembra il centro dell'universo, è da poco uscito Amore Tossico ma non ha ancora il successo che avrà poi anni dopo. Ma io questo non posso saperlo. So solo che alla fermata "Balzani" sono saliti due bucatini sul trenino che mi lascia a via dei colombi. Hanno l'affanno per la corsa che hanno dovuto compiere: uno ha il doppio taglio, dietro rasato e sopra i capelli pieni di gel raccolti in una piccola cipolla. O forse nun se lavano, come ha mormorato una tizia seduta in un posto quasi di fronte al palo per reggersi che sto occupando con la mia schiena. Ai miei piedi ho un Invicta ultimo grido, una delle poche cose che mi fa essere all'estremo passo coi tempi. A scuola, addirittura, c'è chi si porta il lettore di cassette: sai che figata potersi sentire i Kiss o i Metallica in quella specie di mangianastri portatile? C'è gente che ci mette dentro i Pet shop boys o i Modern Talking. A me sanguinano le orecchie solo a sentirli nominare. Da un annetto circola voce che c'è un gruppo di mezzi compagni che ha formato un gruppo musicale: non è che si capisca bene cosa vogliano e al contempo cosa desiderino trasmettere ma il nome tanto mi basta: pare si chiamino "CCCP - Fedeli alla linea", sarebbe fico poter sentire qualcosa, anche se non vado d'accordo col punk.
I due bucatini discutono ad alta voce - come se non ci fosse nessuno in quel piccolo vagone - su quello che devono fare dopo e su chi devono incontrare. Evidentemente stanno chiamando in causa il pusher della roba: lo chiamano D'Artagnan, forse perché necessitano anche delle "spade", cioè le siringhe.
Il riferimento non è tanto letterario quanto utilitaristico.
Continuano ad ansimare, a un certo punto uno alza la voce in direzione di chi si è fermato e ha abbassato il giornale per poterli guardare, fissandoli nei loro movimenti: «Ao, ma nun l'avete mai visti du tossici che stanno a corto co 'r meta? Fateve 'n po' li cazzi vostra». E tutti tornano a fare quello che facevano prima. Una signora sbuffa e fa sbattere la lingua sul palato, emettendo quel suono che viene interpretato, dalla Groenlandia al Lesotho, come contrarietà a qualcosa che sta avvenendo.

Oggi però non vado a casa: da qualche tempo a questa parte mi vedo con una tipa (lei sì, decisamente punk) che abita da poco a Tor bella monaca, da circa due anni. Spesso ci appoggiamo di fronte al finestra della sua stanza e fumiamo di nascosto le Camel blu della nonna che non dovrebbe fumare, dunque le nasconde sotto ad un vaso rovesciato che ha in casa. La fortuna è che non si ricorda mai quante sigarette ha fumato nei giorni precedenti e così nessuno sospetta mai di noi. Appoggiamo i gomiti sull'infisso rosso incastrato nel cemento e guardiamo l'orizzonte ascoltando un po' di musica, parliamo di un sacco di cose anche se spesso ce ne stiamo in silenzio a fissare il panorama e i palazzoni.
Ci cattura l'attenzione e lo sguardo monitorare tutte le luci che si accendono una dopo l'altra man mano che la luce del giorno se ne va, poi il cielo diventa rosso e infine tutto buio e allora i rettangoli delle finestre dei palazzoni nuovi grigio-cemento si accendono una dopo l'altra.
Verso le 5 del pomeriggio sembra già fossero le 10 di sera e, in quella fase, ci fumiamo un'altra sigaretta. Mentre fumiamo la seconda sigaretta si gira verso di me e mi fa, con il gomito destro appoggiato sul bordo dell'infisso incassato nel cemento e quello sinistro appoggiato sul fianco mentre lascia cadere la mano verso la gamba: «Oh, senti qua: mi hanno passato questa cassetta di un gruppo russo. Non capisco un'acca di quello che dicono, ma senti che roba». Inserisce la cassetta nel lettore, parte una batteria artificiale, una di quelle drum machine e poi chitarra e basso super effettati. Mentre la canzone inizia, lei inizia a muoversi istintivamente al ritmo della batteria: ogni colpo di rullante è un movimento delle spalle, ora verso destra, ora verso snistra, mentre col corpo asseconda il fluire del tronco superiore. Si mette addirittura il cappuccio della felpa degli Iron Maiden e comincia a dirmi di ballare con lei.
Ma io non so ballare...

Я не умею танцевать
Я не умею танцевать
Я не умею танцевать

Mi limito a imitarla. La canzone finisce in pochi minuti, niente a che vedere coi Metallica o coi Maiden, mi fa: «Pare si chiami "post punk" 'sta roba, che te ne pare?», io resto basito: «Sembra una di quelle canzoni da paninaro!», dico sorridendo. Lei coglie il riferimento e sorride: «Ma no, è un genere che scimmiottaquello dei paninari ma non ha niente a che vedere con quello, non hai sentito la chitarra e il basso che vibrazioni che avevano?».
È l'unica cosa che mi aveva colpito: quella chitarra così piena d'effetti e dal suono tremolante mi stava facendo pensare ai nostri pomeriggi impiegati a guardare l'imbrunire su Tor Bella Monaca e a fumare le Camel di sua nonna. I palazzi della Minsk popolare e della Bielorussia (solo dopo scoprii che il gruppo era bielorusso) non erano poi così distanti. L'Istituto autonomo case popolari sembrava aver edificato un quartiere fra la Bielorussia socialista e la Tor Bella Monaca appena nata di una Roma in disordinata, confusa e sempre più diseguale espansione.

Due giorni dopo ci siamo rivisti e abbiamo ascoltato la cassetta dei Molchat Doma per tutto il pomeriggio: Na dne era la prima canzone della cassetta. Ci piaceva così tanto che solo qualche giorno più tardi saremmo andati da un compagno della sezione del Pci di Torre Angela che aveva seguito un piccolo corso di lettura e traduzione di base dal russo. Ci aveva tradotto il ritornello, se così si poteva chiamare:

I binari del tram fanno rumore
Rimane in fondo alla mia bottiglia
Finisco tutto e vengo da te

Ci aveva detto che non era proprio questa la traduzione esatta ma, arrangiata, maccheronica, era pressapoco quella che ci aveva detto.
Le nostre frequentazioni si erano fatte sempre più intense: ascoltavamo sempre più musica e parlavamo molto di più delle prime volte in cui una mattina tornando da scuola mi aveva detto: «Perché non vieni da me? Ti va di fumare insieme?», roba che non sapevo neanche come si accendesse una sigaretta.
Iniziavamo ad aspettarci fuori da scuola per tornare insieme a casa sua. Mentre salivamo sul trenino non esistevano tossici o altro, c'erano solo le canzoni dei Molchat Doma nelle nostre teste. Ci buttavamo con la schiena sulle porte del vagone e provavamo a canticchiarle a bassa voce:

iaiumieiutansevàt
iaiumieiutansevàt


Poi arrivavamo a casa e mettevamo subito la cassetta nel mangianastri del padre.

Ma io non so ballare. Eppure ballavo lo stesso.


Ma questa storia non esiste: il gruppo si chiama Molchat Doma e con il 1985 non c'entra niente. Tancevat è del 2018 ed è inserita nell'album chiamato Etazhi. Una scoperta folgorante.

E, davvero, io non so ballare.
Я не умею танцевать.


Granulosità

Ci sono parole che assomigliano tanto a dei fiumi carsici. Vengono sotterrate dalla nostra memoria e riemergono tutto ad un tratto, senza che noi ce ne possiamo accorgere.
Quando le ascolti per la prima volta le nostre orecchie fanno addirittura fatica ad abituarcisi, come se stessero ascoltando una lingua diversa. 

Ed è paradossale: strana o inusuale, aulica o bassa, si sta pur sempre parlando di una parola della tua lingua madre. A me è capitato con la parola granulo, o meglio, al plurale i granuli.
La ascoltavo sempre quando mia madre mi portava dalla pediatra e mi somministrava alcuni rimedi omeopatici: «Di questa gliene faccia prendere quattro granuli, di quest'altra otto granuli, di questa tutto il tubetto che è composto da granuli piccolissimi: vanno sciolti tutti sotto la lingua senza masticarli». La tentazione di masticare i minuscoli granuli di Oscillococcinum come fossero caramelle, tuttavia, era irrefrenabile.
E anche adesso, c'è da dire, non resisto e devo per forza masticarne qualcuno e sentire lo scricchiolìo sotto i denti di quei microscopici confettini tondi.
La prima cosa che chiesi a mia madre era che cosa fossero i granuli. Non mi ricordo la risposta, ma ricordo di averglielo chiesto. 

Andai a seppellire la parola granulo/i nel Campo Santo delle parole inusuali: l'immensa distesa verde della nostra mente che è piena di addetti che scavano tombe ai lemmi che decidiamo di non utilizzare più, per vari e disparati motivi, tra cui l'evidente impoverimento del nostro linguaggio a causa dell'ipertecnologicità che ha assorbito le nostre vite, l'infinita varietà della nostra lingua e ha fagocitato il tempo per la lettura sostituendolo con comici, funamboli, saltimbanchi o figure non meglio identificate che blaterano davanti a una telecamera che chiamiamo youtuber.
I becchini delle parole inusuali, o che scegliamo arbitrariamente esse siano tali (e questi tizi stanno nel cervello di ognuno di noi) hanno compiuto un lavoro sopraffino con granulo/i. Non ebbi più un contatto con quella parola fino alle medie, quando la professoressa di arte e tecnica ci chiese un giorno di portare un blocco di fogli a grana grossa. Ma non era la stessa cosa. Non c'era quel diminutivo così inusuale.  E in effetti, anche a seguito di quella circostanza, la parola risultò morta e sepolta nel giro di 24 ore.
Il contatto successivo ce l'ho avuto svariato tempo dopo, durante un corso di formazione presso una cooperativa di archivisti e bibliotecari con cui ho lavorato per qualche mese. La docente stava parlando di riorganizzazione sistematica di un archivio che presentava elevata granularità, per indicare una frammentazione, una disomogeneità e una disorganizzazione nell'archivio in oggetto talmente elevata da far sembrare il tutto come i minuscoli granuli dell'Oscillococcinum. O meglio, io ho pensato a quello, le altre persone lì presenti avranno certamente pensato ad altro.

Il verbo granulare, inteso in quel contesto, è stato utilizzato molte volte in quel corso di formazione e, dunque, ho finito per associare il termine granulosità ad una sorta di estrema balcanizzazione di un determinato contesto, sia esso lavorativo, psicologico, pratico, morale e via dicendo.
Ho riascoltato il termine granulosità questa sera, 4 novembre 2020, mentre usciva dalla bocca del Presidente del Consiglio dei Ministri, nell'ambito della conferenza stampa d'illustrazione del nuovo Dpcm che imponeva la didattica a distanza nelle scuole secondarie di secondo grado. Alla domanda del giornalista di RaiNews, il quale chiedeva se fosse previsto uno scenario in cui all'interno di una zona "gialla" potesse esserci una provincia "rossa", nell'ambito del contagio da Covid-19, Conte ha risposto come stessero valutando anche questa possibilità dato che, in effetti, il Dpcm lo prevede ma è «chiaro che più si scende dal punto di vista della granulosità, più bisogna stare attenti». Cioè a dire: più si particolarizza la questione di regione in regione, più si determinano i casi andando a discernerne ogni aspetto collegato territorialmente e localmente, aumenterebbe, potenzialmente, la granulosità della dispersione del lavoro, delle norme, della casistica. 

È strano come certi termini o certi verbi stiano lì sepolti e poi tornino a galla nel momento più inaspettato come quello che stiamo vivendo ininterrottamente da quasi un anno.
È strano come agisce la nostra mente, quando ho sentito Conte parlare di granulosità, ho pensato prima alla professoressa Guercio e subito dopo alla domanda posta a mia madre all'uscita dalla pediatra. 

I granuli non vanno masticati: vanno sciolti sotto la lingua.

Fitto c’è, Meloni esulta. Ma il paese reale langue

Una vittoria. O, almeno, per i canoni dell’esecutivo Meloni una netta vittoria. E no, non stiamo parlando della contrarietà della President...