giovedì 30 maggio 2019

Riflessioni post elettorali a voce alta [ho voglia di litigare con qualcuno]

L'immagine-testuale a corredo del post non è stata scelta a caso. Forse quello che ho scritto provocherà ire da parti di tante e tanti. Pazienza. L'intento non è quello di far adirare nessuno, piuttosto di ragionare insieme. E se, poniamo il caso, qualcuno a seguito di queste "riflessioni a voce alta" mi vorrà dire "non sono d'accordo con quanto hai scritto, ma vorrei che ne parlassimo insieme", sarà per me motivo di felicità estrema. Detto questo, cominciamo. 

Non vorrei accodarmi a quella fin troppo vasta schiera di persone che hanno analizzato con fin troppa sommarietà e supponenza i dati elettorali che le elezioni di domenica hanno consegnato al Paese.
Vorrei riflettere a voce alta con chi vorrà, quei quattro lettori soliti e non manzoniani, riguardo quello che è successo domenica. Perché una cosa va detta: nessuno ha ben compreso la portata del voto europeo del 26 maggio, men che meno io che sto ragionando a riguardo, fornendo un personale punto di vista ad una riflessione collettiva abusata di errori e dibattiti attorno a luoghi comuni.

Chi vota?

La questione del chi viene prima del che, tanto in questa quanto per quel che riguarda altre consultazioni elettorali: è andato a votare il 56,1% degli aventi diritto, dato in calo rispetto al 58,7% del 2014. Si avvicina sempre di più la soglia della metà che va a votare e l'altra metà che resta a guardare. Nessuna forza politica pare porsi questo problema che è principale. Valutare le europee di maggio, così come quelle del 2014, sulla base delle percentuali e non di voti effettivi equivale a giocare una partita di calcetto in cui una squadra gioca con 5 componenti e l'altra con 2 persone: la vittoria è certa, la sostanza del gioco assente. Se si dovesse ragionare sulla base dei voti, ogni percentuale avrebbe un consistente ribasso e solo pochissime forze politiche hanno prodotto analisi in tal senso. 

Di batoste, incrementi e opinioni

La sinistra è certamente la lista che più di tutte ha subìto il colpo elettorale: un affondo dato prima di tutto ai dirigenti delle formazioni politiche che hanno composto il cartello in oggetto, sempre pronti a sommare le proprie forze, nonostante esse siano in forse, e il triste gioco di parole è decisamente voluto. Un dato che colpisce indirettamente anche me, benché non sia un attivista delle organizzazioni che ha dato vita alla lista, che ho vissuto la parte discendente della parentesi della sinistra comunista italiana da militante del Pdci: dal 26 maggio le "dirigenze" della sinistra non esistono più. Qualora ci siano e dovessero presentarsi, provocherebbero danni incalcolabili: citofonare Rifondazione, Diliberto, Pdci/Pci, Sinistra italiana, Vendola e chi più ne ha più ne metta. Così come per la lista Europa Verde: la mediaticità dei temi ambientali mai come adesso è stata così alta, eppure gli ambientalisti italiani hanno dato la prova di rappresentare il movimento più residuale e settario del continente. Ma questa è un'altra storia. 
Tornando a La sinistra, la percezione nei confronti dell'elettore medio (non io dato che non li ho votati: coming out) è stata quella di un'organizzazione davvero posticcia e che non dovesse andare oltre il proverbiale periodo che intercorre fra la notte di Natale e Santo Stefano. Pare, a tal proposito, che si sia convocata un'assemblea a riguardo e immagino già come finirà. 

Partito comunista. Qui la questione è più complicata. Voglio bene ai miei ex compagni, che recentemente hanno anche aperto una sezione a San Lorenzo, ma il discorso che fanno, secondo me, non sta in piedi. Certo, ammettono, c'è stato un incremento consistente del partito che è passato dallo 0,3% delle elezioni politiche allo 0,88% delle europee. Nessuno mette in dubbio un aumento di oltre centomila voti, tuttavia alle politiche la lista comunista non era presente in svariate regioni e, semmai si dovesse considerare quello avvenuto come un incremento, personalmente opterei per un discorso inverso analizzando le europee come "primo (vero) test a livello nazionale di presenza elettorale del partito". Il che ridimensionerebbe la questione.

A questo si aggiunga che le elezioni scorse hanno consegnato un dato che La sinistra, né il Pc, né tantomeno dalle parti di Pap (non presente sulla scheda elettorale) hanno avuto il coraggio di analizzare: il voto a sinistra è diventato un semplice voto d'opinione: l'elettorato zoccolo-duro del passato non esiste più. Sarebbe interessante che da tutte e tre le parti in causa si ragionasse su questo, magari producendo delle analisi a riguardo. 

Che fare?

Fontamara e Vladimir Ilic, pregate per noi. Battute a parte. La situazione è decisamente tragica, benché c'è chi si ostini a trovare venature di «ottimismo della volontà». Parlando qua e là con qualche attivista e compagno sparso tra le varie organizzazioni della sinistra, sono rimasto decisamente basito riguardo la decisione di alcuni: "Non è rimasto più niente - dicono - tanto vale entrare all'interno del Pd costituendo una corrente organizzata". Non solo si tratterebbe di una sconfitta storica e l'abbandono della posizione che faticosamente si è mantenuto nel corso degli anni, ma di una sconfitta ideologica di proporzioni bibliche. Abiurare al proprio credo politico per abbracciarne un altro di colore e segno decisamente opposto e ostile solamente perché, non c'è più null'altro di meglio, si traduce nell'anti-azione politica necessaria in questa fase. E ci (pluralis maiestatis) fa capire che non solo la mancanza di alternativa prodotta in questi anni (alternativa reale, beninteso, non gli arcobaleni e le rivoluzioni civili) ha prodotto sfaceli politici, ma ne ha generati anche di psicologici a partire da l'altro ieri. Si arriverà ad una polarizzazione de facto che il bipolarismo aveva solo sognato e che ora si sta concretizzando senza che si sia mosso un dito: un duopolio "destre"-Pd perché "non c'è di meglio". Ma c'è anche un altro punto da toccare. Il vero che fare: la prassi. Si deve arrivare ad una consapevolezza nuova, tra i poveri resti dell'extraparlamentarismo a sinistra, di modo che solo costruendo un cambiamento a partire da noi stessi, ritrovando le motivazioni che ci hanno spinto tempo fa alla militanza e all'azione, di fronte all'inanità generale, si riesca a generare una coscienza rinnovata. Una consapevolezza che ritrovi l'azione a partire dalla fontanella del quartiere e che arrivi a dare una prospettiva di lungo periodo: non sto parlando di grandi cose o discorsi astrusi, ma piuttosto di un necessario radicamento territoriale che deve avere la precedenza su qualsiasi altra azione. 
Credo, ma è una mia opinione da quattro soldi, che solo così potremmo davvero uscirne. 
Semmai ci riusciremo.

P.s. (almeno una gioia: l'immagine sottostante parla da sé: ciao +Europa, non ci mancherai)

lunedì 20 maggio 2019

Torre Maura spara. Ma non è una canzone dei Calibro35

sovietbuildings.tumblr.com
A Torre Maura si spara ancora, di nuovo in pieno giorno. Famiglia italianissima, non come quegli "sporchi" 60 rom che volevano "rubare" a prescindere: oltre a svaligiare casa avrebbero sicuramente anche sottratto quel poco di lavoro che c'è. E che, beninteso, a Torre Maura non è che ci sia mai stato. È un quartiere 'di passaggio' così come lo è stato sulla tratta che andava a Laziali, lo è ora sulla ben poco funzionale ed efficiente linea C della metropolitana di Roma.
Io e la mia ragazza eravamo tornati giusto da poco a casa quando avevamo deciso di andare a fare la spesa: camminiamo, chiacchieriamo, mettiamo a posto la macchina e mentre saliamo su casa vediamo un trambusto a fine della via. "Vado a dare un'occhiata", le dico e subito dopo incrocio il vicino di casa: "Se so sparati", mi dice laconicamente.
Il morto, fortunatamente, non c'è scappato, come spesso accade quando ci sono le armi da fuoco di mezzo.
Una notizia, questa qui, che nonostante sia avvenuta nel quartiere sulla bocca di tutto il mondo per più di una settimana, non troverà alcuna eco o una minima mediaticità. Questo perché il fatto non ha notiziabilità, per usare un termine tanto caro ai giornalisti d'accatto quanto da me realmente disprezzato. Si cerca lo scontro e la miccia scatenante della guerra fra  poveri, conflitto che viene vinto dai ricchi per forza di cose. Una notizia che mette in luce la pericolosità di chi vuole iniziare ad armare residenti e cittadini perché se mi entra un ladro in casa devo poter difendermi, nonché sparare, secondo la logica del Ministro dell'Interno e, non da ultimo, un fatto che rileva quanto precaria sia l'educazione di chi, perdendo la testa contro i propri genitori (a 22 anni) non esiti ad imbracciare un fucile per una questione di soldi e a sparare contro la macchina del padre.
C'è molto in ballo, a partire da questa notizia: i quartieri periferici diventano, ogni giorno di più, terra di nessuno, con buona pace di Lucia Annunziata che pensa come Torre Maura, nonostante sia un quartiere isolato e con l'unica pecca di avere le grate di fronte alle finestre, sia un quartiere pulito, con grandi strade, senza immondizia sparsa per i viali o degrado. Un giudizio davvero schematico per essere formulato da una Direttrice di una testata nazionale come Huffington Post.
Quando qualcuno si accorgerà del danno che ha commesso ad allontanarsi dalle periferie, come ha ribadito il partigiano Aldo Tortorella dal palco del 25 aprile a Porta San Paolo, si renderà conto che non avrà più tempo per rimediare alla situazione.

A tal proposito mi torna in mente il referendum del 2016, quello sulla Costituzione. Durante lo spoglio, in uno dei vari seggi di Via Belon c'era anche il consigliere Compagnone (Pd). Atterrito e basito dai risultati che lo davano in netta minoranza rispetto al 'no' (lui sosteneva il 'sì' come il suo partito) disse sconfortato, un po' sottovoce, ad un suo amico che era con lui: "eh, ma qua dovemo fa qualcosa pe le periferie" mentre il presidente di seggio ammonticchiava le schede barrate con i "no" a fianco a quelle (pochissime) dei "sì".
Questo è stato l'atteggiamento verso le periferie del cosiddetto centrosinistra nel corso degli anni: creare un esercito di riserva in cui si possono smuovere voti allo schiocco di dita di questo o quell'altro candidato di uno o l'altro partito; ridurre le poche strutture sociali e aggregative a comitati elettorali permanenti.
Chi semina vento, raccoglie tempesta, dice il proverbio. O, in questo caso, chi semina divisione e odio, raccoglie la guerra fra poveri. In questo caso, il raccolto non è incline ad ossequiare la semina, né a farsi troppi scrupoli. E far capire ai propri simili, vicini di casa, fratelli, che la guerra fra poveri la vincono i ricchi diventa ogni giorno più difficile. 

mercoledì 15 maggio 2019

Cambiamento climatico, Mastrojeni: «necessaria la mobilitazione di tutti» - Rinnovabili.it

Parla Grammenos Mastrojeni diplomatico e Coordinatore per l’Ambiente della Cooperazione allo sviluppo: ha scritto “Effetto serra: effetto guerra” per Chiarelettere (2017) dimostrando come cambiamento climatico e conflitti siano intimamamente connessi.


«Bene le prese di posizione dei governi sul cambiamento climatico ma serve mobilitazione collettiva: la natura non reagisce ai “pezzi di carta”» (Rinnovabili.it) - 15/05/2019 

Il Pentagono, quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ha recentemente stabilito come il cambiamento climatico acceleri situazioni di instabilità portando ad estreme conseguenze (conflitti) situazioni difficili e già provate da crisi interne o indebolimenti. La connessione fra il cambiamento climatico e lo scoppio delle guerre è anche il tema del libro di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini pubblicato da Chiarelettere: “Effetto serra: effetto guerra”. Di questa connessione tra clima e guerra ne abbiamo parlato con Mastrojeni, diplomatico e Coordinatore per l’Ambiente della Cooperazione allo sviluppo. 

Cambiamento climatico e scoppio di conflitti sembrano due tematiche apparentemente distanti ma leggendo “Effetto serra: effetto guerra” si scopre che è l’esatto contrario.
«Da sempre c’è un legame fra stato dell’ambiente e stabilità delle società: si è manifestato anche in tempi lontani (tra l’anno 400 d.c. e l’anno 1000) con delle fluttuazioni spontanee, ad esempio legato ad un periodo di raffreddamento in Asia centrale, connesso ad un aumento del 200% dei conflitti. Le stesse ‘invasioni barbariche’, così come siamo soliti chiamarle, che hanno portato al crollo dell’Impero Romano d’Occidente, sono state sospinte all’origine da alcune fluttuazioni climatiche. La questione è che con l’influsso umano la scala cambia: sia in termini temporali (le fluttuazioni diventano più rapide ed improvvise), sia in termini volumetrici del cambiamento, dunque l’effetto viene esacerbato. Attualmente, secondo ricerche condotte dal G7 (dunque non da ‘circoli ambientalisti’) tramite alcuni think-tank, risultano in corso 79 conflitti che hanno il cambiamento climatico tra le concause. Come avviene tutto ciò è abbastanza ovvio: non è tanto il fatto che con il cambiamento climatico arrivino dei fenomeni estremi, non è neanche il fatto che vi sia più penuria di risorse, ma è dato dal fatto che il comportamento della natura diventa imprevedibile e, di conseguenza, nell’imprevedibilità non si può organizzare né la produzione agricola, né la convivenza civile, perché entrambe le cose sono fondate sui ritmi della natura».

Il fattore dell’imprevedibilità, dunque aggrava notevolmente un quadro già destabilizzatosi?
«Certo, destabilizza le società, soprattutto quelle più fragili: quando queste si ‘disorganizzano’ il conflitto aumenta di probabilità».

Tutto quello che ha detto ci riporta all’attualità e al continente europeo: può essere considerata come ‘globale’ la partecipazione militare dei paesi della Nato (dunque anche dell’Ue) a dei conflitti spesso causati anche dal cambiamento climatico fuori dai confini occidentali?
«La caratterizzazione del conflitto, in realtà, è data dalla situazione di fatto. Di globale dobbiamo temere una tendenza alla saldatura delle differenti zone di destabilizzazione. Fino ad ora il Pentagono ha definito il cambiamento climatico come un acceleratore di conflitti, dunque non una causa, ed è vero: laddove è presente una società fragile, se “ci si mette” anche il mutamento del clima, la situazione contribuisce a creare un conflitto. Per ora queste fasce di fragilità sono relativamente isolate le une dalle altre. L’esacerbarsi dei cambiamenti climatici e il fatto che l’instabilità che nasce in zone povere si trasmette a catena nelle zone circostanti (e anche più lontane) fa sì che la situazione diventi ingovernabile. Pensiamo ad un conflitto che ha tra le cause dello scoppio anche quella climatica, ovvero la guerra in Siria: ha portato a una catena di conseguenze a partire dalle migrazioni, che a loro volta, hanno avviato un principio di destabilizzazione – fra virgolette – in Europa. Da quel momento si è iniziato a voler ritrattare Schengen e si è cominciato un dibattito sulle responsabilità delle migrazioni fra Stati. Tali irradiazioni, così facendo, inizieranno ad intrecciarsi e si andrebbe verso uno scenario di destabilizzazione sistemica collocato non troppo in là nel tempo: il turning point è al 2030».

Se, per caso, dovesse verificarsi un evento naturale imprevedibile, come diceva prima, il turning point scenderebbe ulteriormente?
«C’è un esempio che ho citato anche nel libro: se si dovesse verificare lo scioglimento del ghiacciaio dell’Himalaya si andrebbe incontro ad una situazione che metterebbe in movimento più di un miliardo di persone, l’evento avrebbe un carattere decisamente globale».

Le migrazioni connesse alla guerra in Siria, che prima ha citato, e quelle scaturitesi all’indomani della guerra in Libia, possono essere chiamate ‘migrazioni economiche’ o, secondo lei, ‘migrazioni climatiche’?
«Innanzitutto c’è bisogno di serietà su questo argomento: non c’è un’unica causa scatenante e sono molteplici, dunque è tutto ‘multifattoriale’ ma i cambiamenti climatici hanno – certamente – impatti su vari territori. Un anno molto interessante, in tal senso, è stato il 2011: in Australia ad esempio è stato caratterizzato da fortissimi inondazioni alternate ad una fortissima siccità. L’Australia, che ha uno Stato forte, è riuscita a contenerne gli effetti entro una dinamica ordinata. Nello stesso anno ci sono stati dei paesi che non sono stati colpiti direttamente dai cambiamenti climatici (parlo di quelli della sponda sud del Mediterraneo) ma ne hanno subito gli effetti indiretti perché questi hanno fatto aumentare i prezzi dei prodotti agricoli (quei paesi ne importano molti) e si è venuta a creare molta povertà. Questa situazione è stata all’origine delle ‘primavere arabe’. L’Italia, che è il paese più esposto, non mi sembra si stia curando troppo di questo tema. Al momento è difficile andare ad identificare una sola motivazione: la causa unica di migrazione relativa al cambiamento climatico per ora si verifica in sparute situazioni».

Ad esempio quali?
«I primi rifugiati climatici ufficiali vengono dagli Stati Uniti: a causa della fusione del permafrost in Alaska, che destabilizza le fondamenta fisiche delle comunità, si sono dovute muovere delle persone. Oltre che dall’Artico, iniziano anche a venire dalle isole».

È notizia di questi giorni, a tal proposito, la denuncia degli abitanti delle Isole dello Stretto di Torres che hanno denunciato il governo australiano. Anche questo potrebbe rientrare in possibili situazioni che genererebbero ‘rifugiati climatici’?
«Questi sono i primi ‘movimenti climatici’. Se andiamo nelle cose che ci riguardano più da vicino, che sono più consistenti e dove l’impatto del clima è intessuto con altre forme di instabilità, è molto difficile dare un’etichetta all’uno o all’altro. Quello su cui si deve fare chiarezza è che non esiste affatto il ‘migrante climatico’».

Perché?
«Perché ‘migrante’ è qualcuno che ha un minimo di scelta libera nella decisione di muoversi e non è vero che quanto più si è poveri tanto più si è propensi a muoversi. Al di sotto di una certa fascia di reddito si rimane intrappolati in quella che viene definita la ‘trappola della povertà’: hai, cioè, un reddito talmente basso che ti è impossibile partire e la migrazione non rientra fra le tue prospettive; la tua unica urgenza è dettata dalla necessità di reperire un pasto per la giornata e ti è impossibile perfino pianificare di andare al villaggio più vicino. Quando si verifica un evento ambientale che può destabilizzare una situazione già precaria, se colpisce coloro che già si trovano nella fascia di quelli che contemplano una migrazione generalmente può essere assorbito da essi: posseggono, cioè, risorse a sufficienza da sopperire ad un mancato raccolto. Se sono sufficientemente ricchi da contemplare una migrazione volontaria, sono anche sufficientemente ricchi per assorbire delle fluttuazioni del clima. In realtà colpisce, generalmente, quelli che si trovano nella ‘trappola della povertà’, dunque non crea migrazioni ma movimenti forzati ed è una cosa completamente diversa».

Cioè?
«I movimenti forzati si distinguono dalle migrazioni perché le prime, se ben gestite, possono essere utili per la zona di provenienza, per chi parte e per la zona di arrivo. D’altra parte, invece, se si mette in movimento qualcuno che non ha alcuna ‘difesa’ costoro si tramutano in combustibile per movimenti fanatici, per il traffico illecito, per la criminalità: sono situazioni destabilizzanti e nocive per tutti. L’insegnamento di Madre Terra è che bisogna occuparsi primariamente dei più poveri altrimenti ‘pagano’ tutti».

Che giudizio dà a proposito delle due mozioni sull’emergenza climatica in Regno Unito e in Irlanda? Auspica che altri Parlamenti facciano altrettanto?
«Per me il valore maggiore di questi atti non è la cogenza ma la presa di coscienza e spiego il perché: nel 301 d.c. l’imperatore Diocleziano si trovò di fronte ad un’inflazione incontrollata e gli venne in mente di istituire ciò che oggi chiameremmo ‘il calmiere’ [l’ Edictum de pretiis n.d.r.]. Ufficialmente i prezzi non salirono più ma il vero risultato che ottenne è che il mercato si spostò su quello nero. Quello che voglio dire è che il cambiamento climatico non si risolve per decreto legge ma con la mobilitazione dell’intera società. Tra l’altro è una mobilitazione che paradossalmente non avviene massivamente: qualsiasi atto di sostenibilità porta sia più benessere che più ricchezza. Una mobilitazione collettiva significherebbe disinnescare il cataclisma pagando il prezzo di stare meglio».

Dagli strati più poveri al benessere di tutti, insomma.
«Ma non solo occupandosi, direttamente e unicamente, di strati svantaggiati: lo si fa anche occupandosi di se stessi. Se pensi alla tua vita vita quotidiana e decidessi di nutrirti, lavarti e muoverti in maniera più salutare, lo fai per te stesso: stai creando sostenibilità nella misura in cui rispetti la tua vera natura, tutto ciò che è salutare è anche sostenibile. Salutare, ovviamente, va inteso a 360 gradi: se scegli di muoverti in maniera sostenibile generalmente spendi di meno e non solo hai più salute ma hai anche spazi di socializzazione migliore. Questo discorso che vale per ogni individuo vale anche per l’impresa».

In che modo?
«Le imprese si stanno accorgendo che hanno tutto da guadagnare ad essere sostenibili, tant’è che i più cattivi dei cattivi dell’economia, cioè la finanza, hanno spostato gli impieghi di investimento sulle cosiddette attività sostenibili (tecnicamente si chiamano ESG) dallo 0,2% al 24% in 10 anni: un progresso enorme. Parallelamente stanno puntando ad avere il 60% dei loro portafogli su attività sostenibili entro breve: non sto parlando di Banca Etica ma di Blackrock! Quello che noi dobbiamo innescare lo dobbiamo fare certamente anche con l’apporto e l’appoggio istituzionale, legislativo e fiscale ma quello da solo, se non è recepito e compreso dalla società, diventa una distorsione».

Come si fa a fare in modo che venga percepito da tutti?
«Bisogna far toccare con mano la questione viva. Le imprese hanno un vantaggio su tutti, dunque lo hanno compreso e si stanno muovendo rapidamente in tal senso. Dobbiamo sovvertire la narrativa tradizionale, paradossalmente, che vede l’economia cattiva verso un pubblico buono, per dirla in maniera molto semplice: non è questione di essere buoni o cattivi ma il consumatore ancora non ha interiorizzato i benefici della sostenibilità dal punto di vista delle proprie scelte consapevoli. Esco per un attimo dai binari dell’argomento principale ma completo quanto sto dicendo: abbiamo pochissimo tempo per rimediare, al massimo dieci anni. Purtroppo non possiamo contare su una totale presa di consapevolezza collettiva che porti a delle scelte di cambiamento volontario e coerente. L’essere umano difficilmente reagisce all’interesse collettivo ma a quello individuale: si sa che soltanto il 2% dei consumatori (e questo è un dato transculturale) incorporano la loro domanda di consumo sostenibile e tipicamente costoro sono i clienti del commercio equo e solidale. Botteghe importanti ma anche simboliche: rappresentano una fascia minuscola del mercato. Questo non vuol dire che si tratta di una battaglia persa perché sta succedendo qualcosa: oggi la sostenibilità non si compra perché ‘salva il Mondo’ ma perché il prodotto è migliore. Nel settore del turismo la questione è evidente: dieci anni fa l’attività più ricercata era il ‘Resort all inclusive’, altamente insostenibile, dove il grande lusso la faceva da padrone; oggi l’attività più ricercata è quella che ti porta in condizioni di scomodità, in un nugolo di zanzare, a vivere da vicino la natura incontaminata. Tornando al cibo: non possono permetterselo tutti, ma moltissimi consumatori, se potessero, si orienterebbero verso il biologico e il non-industriale. Qui la tempistica ci pone un problema di scala, nel senso che la volontà ci sarebbe ma per ora sono mercati per fasce ricche e bisogna incoraggiarle – paradossalmente – perché facendo in modo che essi comprino creano quell’economia di scala che poi consente di allargare l’accessibilità anche alle fasce più povere e lo si è visto in Germania in cui il biologico era appannaggio dei più ricchi ed ora è accessibile di tutti».

Orientarsi più su questo, dunque, che non sugli atti politici?
«Certamente ma non dico che non servono, anzi: segnalano l’unitarietà della società e la consapevolezza in tal senso che è l’unico fattore che può cambiare le cose per tempo. Allo stesso modo un trattato, una legge, un provvedimento fiscale è carta. E la natura non reagisce ai pezzi di carta».

martedì 14 maggio 2019

"Facebookizzazione" del dibattito politico. Le 'big brother' c'est moi

La mia home page di Facebook stamattina mi ha proposto questo nuovo progetto made in Zuckerberg: Facebook Politics. Ovvero: «una guida per usare Facebook al fine di interagire con gli elettori e creare la tua community on line».  La cosa è sufficientemente inquietante, dal mio personalissimo punto di vista. È in atto la massiccia facebookizzazione della politica, molto più di quella avvenuta nell'ultimo decennio:  una multinazionale, che certamente evade tutto quel che è possibile evadere in termini di tassazione dato che ha la sede a Dublino (bellissima l'Irlanda, ma è un paradiso fiscale), impone parametri per organizzazioni politiche e per "la trasparenza delle elezioni".

Ovviamente questo si intreccia a doppio filo con la questione delle notizie finte, le "fake news", cosiddette, che hanno più volte fatto notizia nel dibattito politico-culturale italiano, anche recentemente. Il controllo delle notizie da parte di Facebook è preoccupante, parlare di fake news significa poter dire di avere modo (di essere in grado) di distinguere quelle notizie fake (finte) da altre non fake. Di conseguenza essendo a conoscenza chi dice la verità e chi non la dice, anche se questo genera un risvolto che si potrebbe ben immaginare: chiunque dica di conoscere la verità su di un fatto, in realtà, lo dice a scopo politico, la verità oggettiva, nella nostra società così pervasa da informazione, stimoli e consumi, praticamente non esiste. Soprattutto se a parlare di fake news sono Facebook o i grandi gruppi editoriali che si fondono l'un l'altro per galleggiare nel mercato editoriale e affermare, sostanzialmente, le stesse cose. 
Gli uni (Facebook e le multinazionali ad essa affini) affermano la propria contrarietà attorno al tema per generare profitto e ergersi a paladini dell'informazione, creando da un lato dissenso e dall'altra consenso, giustificando le proprie scelte con ogni mezzo a disposizione.
Gli altri (grande distribuzione editoriale) perché spesso sono essi stessi contenitori di notizie non confermate e fornite perché si ha la necessità bisogno di tappare quel dato buco nella data pagina, oppure creando un caso mediatico (anch'esso dai risvolti tutti politici) perché il taglio che si è dato alla tale notizia andrebbe conto a questa o quell'altra forza politica sulla cresta dell'onda. 

Avere modo di riconoscere le notizie fake e le non-fake, è un compito arduo e chi si spende in tal senso sta sicuramente adoperandosi per un impegno molto nobile, il problema è che non si dovrebbe lasciare mani libera agli uni e agli altri sopra citati, anche se già glielo si è permesso da molto tempo.
Se gente normale, diciamo meglio: "l'elettore medio", ritiene che andare su "ilfattoquotidaino" equivalga al "fattoquotidiano" perché il logo è più o meno simile, il problema si pone esattamente per chi condivide link del Giomale anziché quelli del Giornale, magari cliccando anche sui banner che affermano di far perdere peso in venti giorni con limone e curcuma.

Come dire: è uno sporco affare che sta (facendo finta) di combattere chi ha generato tale affare. La metafora del capitalismo: ti vende un problema ma poi ti vende anche la soluzione. 

Non solo: ma chi ha generato tale affare possiede anche le mani libere per decidere chi è fake e chi non lo è, così com'è successo per il Venezuela. Non appena l'autoproclamato presidente Juan Guaidò è stato riconosciuto dagli Usa, ogni social network gli ha apposto a fianco al nome la "nuvoletta" azzurra che indica che si sta trattando di un profilo verificato e che diffonde informazioni di interesse nazionale, sottraendola a quello del legittimo Presidente Nicolas Maduro.
Non curandosi (o, al contrario, facendolo deliberatamente) del fatto che dal profilo di Juan Guaidò venivano veicolate immagini, foto, video che producevano fake news sul Venezuela.

mercoledì 8 maggio 2019

Mozambico, la situazione dopo i cicloni Kenneth e Idai - Rinnovabili.it

Nei primissimi giorni del mese di maggio, il Mozambico è stato interessato da fenomeni metereologici piuttosto consistenti: stiamo parlando dei cicloni Kenneth e Idai, una combinazione micidiale che ha portato vittime, distruzione e inondazioni. Le zone più colpite sono quelle della città di Beira e la provincia di Cabo Delgado, a nord del Paese e, stando ai numeri di Medici senza frontiere, gli sfollati sono ad oggi oltre 72.790. E il ‘post disastro’ non è certo più facile. All’inizio di maggio le autorità sanitarie hanno registrato lo scoppio di un’epidemia di colera: il governo ha avviato rapidamente una campagna di vaccini nella zona di Cabo Delgado e la situazione pare sia sotto controllo. Per fare il punto sulla situazione abbiamo contattato Andrea Atzori, di Cuamm-Medici con l’Africa: «Si sono verificati degli episodi di colera, sia a Beira che a Cabo Delgado: la risposta mozambicana è stata abbastanza efficiente e c’è stato un discreto controllo del tutto. Nelle zone alluvionate, in parte, l’acqua si sta ritirando e stiamo riprendendo con alcuni servizi e la zona che richiede maggiore intervento è quella di Cabo Delgado».

La situazione appare ancora molto complicata anche alla luce delle previsioni fornite dall’Instituto Nacional de Meteorologia del Paese il quale ha previsto piogge ingenti per tutta la settimana nella zona di Cabo Delgado. «Il vero danno – ha proseguito Atzori – è che una buona parte della popolazione viveva di agricoltura di sussistenza: non aveva beni, averi o risparmi e il ciclone è andato a distruggere le uniche due certezze di questi nuclei familiari, ovvero campi ed abitazioni. Probabilmente avremo una parte della popolazione che dovrà essere assistita almeno per 6-12 mesi: avendo perso l’unico sostentamento è richiesta un’assistenza immediata e diretta». Nei giorni a ridosso dell’emergenza, Andrea Atzori ha spiegato che Cuamm-Medici con l’Africa ha agito in modo tempestivo su due emergenze contigue nelle località prima citate: «Avevamo già personale e progetti avviati in loco dunque siamo intervenuti con azioni riguardanti l’approvvigionamento per persone che erano rimaste senza casa, rintracciamento di persone disperse e ricongiungimento familiare e una fornitura di servizi sanitari d’emergenza immediati. 
Una volta analizzati i danni alle strutture sanitarie della città, abbiamo riavviato i servizi di base e, oltre a questo, creare attività di outreach dei sistemi sanitari nei confronti delle comunità colpite le quali, in parte, erano ancora nelle loro aree, in parte sono state alloggiate in campi [provvisori] organizzati dalla protezione civile mozambicana. Per mettere in atto questa strategia abbiamo diviso il nostro intervento in due filoni: il primo riguardante i servizi sanitari nei centri, di concerto con le autorità mozambicane, il secondo concernente la formazione e l’invio di circa 300 attivisti nelle località colpite che sarebbero andati famiglia per famiglia, tenda per tenda per capire quali fossero le esigenze sanitarie specifiche di ognuno, fornire loro cibo e il kit per l’acqua pulita». 

In Mozambico, fino a qualche anno fa, operava anche la Caritas Italiana con progetti nelle carceri, a sostegno di comunità periferiche della città con lavori di istruzione e sostegno scolastico, nell’assistenza – con l’aiuto delle suore scalabriniane – dei rifugiati provenienti da Sudafrica e eSwatini. Un sostegno che fosse a lungo termine e che gettasse le basi per la formazione di operatori locali che fossero in grado di continuare coi percorsi avviati. Abbiamo chiesto ad Oliviero Bettinelli, responsabile dell’Area Pace e Mondialità della Caritas di Roma, il suo parere riguardo la situazione attuale «Come Caritas – ha affermato Bettinelli – facciamo parte di una “rete” che comprende tutte le Caritas nazionali che, durante le grandi emergenze, si coordinano con Caritas Internationalis e intervengono. Nell’intervenire abbiamo un primo step che è quello di un monitoraggio di situazioni di emergenza, tenendo conto del fatto che di qualsiasi emergenza si tratti, il primo aiuto immediato lo si ha dai locali stessi. Nel mentre che dall’Italia ci organizziamo e arriviamo in loco, trascorrono quei giorni che sono fondamentali per salvare vite umane». Anche secondo Oliviero Bettinelli, il rischio di colera c’è ed è consistente: «il rischio è effettivo, stando ai dati su cui ci basiamo: la maggior parte delle persone sono decedute per esondazione dei fiumi, non tanto a causa del ciclone o del vento: è un problema reale che nasce dove la fragilità strutturale di alcuni territori rendono sempre più possibili queste conseguenze, a latere di un’esondazione». Per Bettinelli, tuttavia, il problema del territorio mozambicano, presenta una serie di problematiche non indifferenti anche legati «alla fauna locale»: «i coccodrilli, ad esempio, hanno creato una serie di questioni non trascurabili». Ma oltre al problema della fauna ce n’è uno più amministrativo: «C’è anche una problematicità legata alla mancata registrazione – e controllo – degli archivi delle nascite e di chi risiede nelle aree rurali: di fatto, un numero preciso di morti le autorità mozambicane non ce lo avranno con estrema certezza» Il fattore più negativo, secondo Oliviero Bettinelli, sta nel fatto che il progetto, una volta avviato e formato il personale locale, fatica a continuare il suo percorso una volta lasciato il paese: «Questo, purtroppo lo abbiamo toccato con mano in molte situazioni e anche in Mozambico, in cui operavamo dal 1999, è stato così». «Certo è – ha concluso Bettinelli – che bisogna aiutare ascoltando i bisogni delle comunità locali: se si arriva dall’Italia, o comunque dal ‘nord del mondo’ con l’intento di dire “costruiamo case, portiamo trattori” e altri beni materiali che in seguito le comunità non sanno gestire, né ricostruire, né far funzionare una volta che il progetto finisce, significa rimanere dentro una logica tutta occidentale del concetto di aiuto. Un supporto che è limitato a quello che io ritengo sia un aiuto: ecco perché non bisognerebbe avere prospettive di breve termine ma sempre di lunga durata».

Articolo pubblicato su Rinnovabili.it il 7 maggio 2019 http://www.rinnovabili.it/ambiente/mozambico-cicloni-kenneth-idai/