Il diritto all'autodeterminazione dei popoli, gli stati liberali, l'URSS

Due anni fa, anche se sembra passato decisamente più tempo, scrivevo un articolo per Sinistraineuropa.it, sito che assieme ad un gruppo di compagni ho contribuito a fondare a ridosso delle elezioni europee del 2014. La questione dell'autodeterminazione dei popoli è sempre stata una mia fissa, così come quella catalana. Questione che, stanti gli ultimi fatti di cronaca, sta esplodendo, letteralmente e neanche troppo metaforicamente. Ripropongo, interamente, dunque, l'articolo che scrissi tempo fa, ancora attuale mai come oggi. 

Il 30 novembre scorso (2015) il quotidiano spagnolo ‘El Pais’ ha tenuto un dibattito tra i candidati alla Presidenza del Governo spagnolo, presenti, nell’estratto presente qui sotto, il candidato del PP, di Podemos e del Psoe. Nella clip sottostante, dunque, è presente un estratto molto breve in cui il candidato Pedro Sanchez (Psoe) attacca Pablo Iglesias (Podemos) riguardo il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, non inserito in nessuna Costituzione liberale post-bellica ma solo in quella dell’Unione Sovietica. «Il tuo modello», ha affermato Sanchez nel dibattito, volendo chiaramente sminuire ed irridere quella che fu la realtà europea (e mondiale) che riconobbe il libero diritto all’autodeterminazione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche che andavano a comporre l’Unione (delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) tacciando di comunismo il leader di Podemos, come se fosse una colpa grave tale da macchiare indelebilmente il candidato presidente o una malattia venerea. «Sai in che Paese era previsto il diritto all’autodeterminazione? L’Unione Sovietica!», dice quasi sconcertato il socialista Sanchez, a cui gli risponde un ironico Iglesias «Uuuuh que miedo!», che paura!


Le questioni che emergono dal video possono essere molteplici ma quella che salta subito agli occhi è la demonizzazione dello Stato che ha composto quello che nel novecento era chiamato il campo socialista, contrapponendolo all’occidente capitalista. Le forze politiche moderate, che hanno attraversato il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, negli ultimi venticinque anni, hanno potuto accentuare il loro carattere fortemente a favore dell’economia di mercato facendosi beffe di qualsiasi sistema alternativo che, per la verità, nel Mondo non ha mai cessato di essere presente (si pensi a Cuba, al percorso bolivariano dell’America Latina) stringendo il cappio attorno a qualsiasi dibattito riguardo il superamento del capitalismo.

Si soprassiede, in quest’occasione, riguardo le ambiguità di Podemos sul riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, dal momento che la forza politica capitanata da Pablo Iglesias non ha sempre visto di buon occhio quelle manifestazioni popolari che portavano con sé istanze di separazione dallo Stato Spagnolo.

Basti ricordare, a tal proposito, che nelle ultime elezioni per la Generalitat de Catalunya (il Parlamento Catalano) la coalizione chiamata Catalunya sì que es pot (che riuniva due formazioni di sinistra, i Verdi e Podemos) non ha sortito gli effetti sperati e si è attestata attorno al’8,5% dei voti, pur superando il Partito Popolare e pur restando – tuttavia – delle forti resistenze all’autodeterminazione in genere all’interno di Podemos.

È utile menzionare, a tal proposito, che l’unica organizzazione spagnola che pone la questione dell’autodeterminazione come una tra le principali e caratterizzanti l’attività del partito, è il PCPE (Partito Comunista dei Popoli di Spagna). Il PCPE, infatti, riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli e si struttura tramite l’affiliazione ai partiti comunisti “etnoregionalisti” delle Nazioni-senza-Stato della Spagna; fanno parte del PCPE, dunque: il Partido Comunista del Pueblo Canario, il Partit Comunista del Poble de Catalunya, il PCPE La Rioja, l’organizzazione Euskal Komunistak (Comunisti Baschi) e così in Andalusia e in Galizia.

L'autodeterminazione nell'URSS

Vale la pena ricordare, infatti, che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche fu l’unico stato che sancì – fin dalla Rivoluzione d’Ottobre – il diritto all’autodeterminazione dei popoli: «Il II Congresso dei Soviet, nell’ottobre di quest’anno, ha confermato questo diritto imprescrittibile dei popoli della Russia, in maniera più risoluta e precisa. Nell’esecuzione della volontà di questi Soviet, il Consiglio dei commissari del popolo ha deciso di porre a base della propria attività, nella questione delle nazionalità della Russia, i seguenti principi: 1) Uguaglianza e sovranità dei popoli della Russia. 2) Diritto dei popoli della Russia alla libera autodeterminazione, fino alla separazione e alla costituzione di uno Stato indipendente. 3) Soppressione di tutti i privilegi e di tutte le limitazioni nazionali e nazional-religiose. 4) Libero sviluppo delle minoranze nazionali e dei gruppi etnici abitanti sul territorio della Russia. I decreti (dekret) specifici derivanti dal presente Atto saranno elaborati non appena costituita la commissione per le questioni delle nazionalità» (“Dichiarazione dei Popoli della Russia“).


L’elemento centrale dell’autodeterminazione è sancito – e più volte riaffermato – in tutte le modifiche costituzionali dell’Unione Sovietica: nella prima parte della Legge Fondamentale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (1924) si legge «La volontà dei popoli delle repubbliche sovietiche, che si sono radunati di recente nei congressi dei loro Soviet, e che hanno unanimemente preso la decisione di formare l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, serve come sicura garanzia del fatto che questa Unione è un’unione volontaria di popoli aventi uguali diritti, che ad ogni repubblica è assicurato il diritto di libera secessione dall’Unione, che l’ammissione all’Unione è aperta a tutte le repubbliche sovietiche socialiste, così quelle esistenti come quelle che potranno sorgere in avvenire, che il nuovo Stato federale si mostra degno coronamento di quelle basi di convivenza pacifica e di collaborazione fraterna dei popoli, gettate già nell’ottobre 1917».

Nella costituzione stalinista del 1936, quella additata come foriera di soppressione di libertà e repressione del dissenso dei popoli, si sancisce che «Ogni Repubblica federata ha una propria Costituzione, che tiene conto della peculiarità della repubblica, ed è redatta in piena conformità con la Costituzione dell’URSS» e che «ogni repubblica federata conserva il diritto di libera secessione dall’URSS», tralasciando quello che si ratifica riguardo la parità dei cittadini e di genere: «Alla donna sono accordati nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica. La possibilità di esercitare questi diritti è assicurata dall’attribuzione alla donna dello stesso diritto dell’uomo al lavoro, alla retribuzione del lavoro, al riposo, all’assicurazione sociale e all’istruzione; dalla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre e del bambino; dalla concessione di congedi di gravidanza alla donna, con mantenimento del salario, e da un’ampia rete di case di maternità, di nidi e di giardini d’infanzia».


Deliberazioni che i moderni provvedimenti sul lavoro, ammantati dalla patina della pronuncia anglista, non hanno minimamente preso in considerazione. Tralasciando, però, l’equità sociale nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nel capitolo II della Costituzione del 1936 (Ordinamento Statale) è rintracciabile un elenco di Stati e territori che vanno a comporre l’uno, cioè lo Stato Socialista. 

La bandiera dell'Abkhazia
E’ importante sottolineare come alcuni territori fossero riconosciuti come ‘Repubbliche Autonome’ già nel 1936, l’Abcasia, in tal senso, ne è un esempio: autoproclamatasi indipendente nel 1992, quando il conflitto Abcaso-Georgiano imperversava, la Repubblica in questione non è riconosciuta né dall’ONU, né dalla UE, bensì solamente da alcuni paesi ONU (Russia, Nicaragua, Venezuela, Nauru, Vanuatu e Tuvalu) e da altri extra-ONU (Ossezia del Sud e Transnistria). Per trattare la vicenda dell’Abcasia ci sarebbe bisogno di un capitolo – se non di un saggio – a parte, tuttavia rappresenta la pragmatica tutela delle cosiddette ‘minoranze’ da parte di uno Stato tacciato di repressione delle Nazioni-senza-Stato. L’ultima Costituzione di cui si dotò l’Unione Sovietica fu quella ratificata il 7 ottobre 1977 e firmata da Brezhnev (Presidente del presidium del Soviet Supremo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) e da Georgadze (Segretario del presidium del Soviet Supremo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). 

Anche nella costituzione brezhneviana il ‘quid’ dello Stato Socialista era quello di essere: «uno Stato plurinazionale federale unitario, formato sulla base del principio del federalismo socialista, come risultato della libera autodeterminazione delle nazioni dell’unione volontaria, parità di diritti, delle repubbliche socialiste sovietiche. 

L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche personifica l’unità statale del popolo sovietico, salda tutte le nazioni e i popoli ai fini della comune edificazione del comunismo. […] Ogni repubblica federata conserva il diritto di libera secessione dall’URSS»

Tale principio, in ogni caso, non sarebbe stato affatto sancito nelle costituzioni (europee e non) liberali post-belliche.

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