Cosa sta succedendo (e cosa succederà) in Bolivia

«L’unico soggetto che può rovesciare il governo è il popolo: la democrazia boliviana può difenderla solo il popolo boliviano», è stato Luis Arce (presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia) a dirlo, a scandirlo nel microfono e nel megafono che gli veniva posto davanti alle labbra, insieme al suo vice David Choquehuanca, dal balcone del Palazzo del Governo (Palacio Quemado) in Piazza Murillo, nel pieno centro di La Paz. Sono le 17:30 di mercoledì 26 giugno [2024] e il tentato golpe promosso dall’ormai ex capo delle forze armate boliviane Juan José Zúñiga è durato solo tre ore e parrebbe essere già terminato. Zúñiga è stato destituito e il presidente Arce ha nominato un nuovo comandante dell’esercito (il quale ha provveduto immediatamente a liberare la Piazza e a ritirare le truppe), azzerando anche le cariche dei graduati che hanno prestato il fianco all’operazione. Attorno alle 14:30, la città di La Paz, la Bolivia intera, ha dovuto fronteggiare una situazione che per la storia del paese non è affatto nuova, ma certamente è stata inaspettata in questa circostanza, nonché per Arce e il suo vice Choquehuanca. Blindati e componenti dell’esercito hanno bloccato i quattro lati di Piazza Murillo e un automezzo armato di mitragliatrice è riuscito ad arrivare a un passo dalla porta d’entrata di Palacio Quemado: dentro probabilmente, come hanno riferito fonti della stampa locale e dell’America Latina, c’erano i due ex, gli unici arrestati al termine della giornata. Ovvero: Juan José Zúñiga e il vice ammiraglio Juan Arnez Salvador.

Zúñiga, per la verità, non parrebbe aver agito senza sapere quel che stava facendo: nei giorni scorsi antecedenti al tentativo di golpe era stato raggiunto dai microfoni della trasmissione No mentiras e, intervistato dalla popolare giornalista Jimena Antelo, rispondeva così: «Gli altri comandanti non erano come me: io non ho paura. Sono un militare e un militare giura sulla Costituzione per difendere la sua patria e il suo popolo». Secondo l’ex capo dell’esercito, lo Stato non era più in grado di mantenere la legalità attraverso la Costituzione, anche a causa del fatto che si stia tacitamente permettendo che l’ex presidente Evo Morales potesse ancora proporsi per un nuovo mandato alle prossime presidenziali: «Quell’uomo – ha dichiarato l’ex graduato a No mentirasnon può più essere Presidente di questo Paese […]. Legalmente non può farlo. La Costituzione dice che non può essere (Presidente) per più di due mandati ed è già stato rieletto tre, quattro volte. Le Forze Armate hanno la missione di far rispettare la Costituzione Politica dello Stato». Una tensione vibrante che a La Paz e Sucre (le due capitali) si respirava già da giorni, evidentemente. Mentre il tentativo di golpe era in atto, Zúñiga ha continuato a rilasciare interviste alla stampa, in particolare una dichiarazione, ripresa anche da Correo del Sur farebbe riflettere sul senso dell’operazione e darebbe una chiave di lettura dell’azione: «La prenderemo [la Casa Grande del Pueblo]: ripristineremo la democrazia, libereremo i nostri prigionieri politici». Così come al termine del tentato golpe, e prima di essere portato via dalla forza pubblica, stando al Correo del Sur, Zúñiga avrebbe affermato che la movimentazione di soldati e mezzi blindati sarebbe stata concordata col presidente Arce al fine di aumentarne la popolarità. Affermazioni di cui risponderà l’ex capo militare all’interrogatorio a cui verrà sottoposto. Il partito di governo, il Mas (Movimento al socialismo), sembrerebbe essere il grande nemico dell’ex capo dell’esercito Zúñiga, sebbene la sua azione si fosse rivolta verso Evo Morales (ne aveva annunciato l’arresto in diretta tv), l’intenzione si rivolgerebbe effettivamente allo Stato a guida del partito di cui fanno parte anche Arce e Choquehuanca.
«Abbiamo vissuto, quel che si direbbe, "un giorno anomalo"», ha raccontato all’AtlanteDon Riccardo Giavarini, direttore generale della Fundaciòn Munacim Kullakita di El Alto. «Ora si sta vivendo una relativa calma a La Paz: Arce ha pronunciato un discorso volto a rassicurare la popolazione, ha detto che la situazione è rientrata ed è tornata sotto controllo. Certo, di argomenti per contestare il governo ce ne sono, a partire dallagiustizia, se vogliamo fare un solo esempio dato che è uno dei miei campi». La gente, però, ha risposto: «È scesa in strada sostenendo la democrazia e rigettando il tentato golpe dei militari – ha detto Giavarini – quindi effettivamente la situazione è tornata alla normalità». Al momento pare di capire che in Bolivia ci sia più una sensazione di stasi, dunque bisognerà capire quale sarà la normalità a cui giungerà il paese.

«No hay plata!»

La situazione in Bolivia non è propriamente rosea. David Choquehuanca, vicepresidente dello stato Plurinazionale, in più di un’occasione nel corso del suo mandato ha ripetuto – pur senza fare nomi esplicitamente – che alcuni esponenti politici avrebbero rifiutato di approvare i crediti di cui vanta lo Stato. Sulle reti sociali dell’America Latina è diventato virale il primo video in cui Choquehuanca, durante un’iniziativa del suo partito, si è lasciato andare ad un commento quasi liberatorio, tanto era il peso specifico di quelle parole: «Stiamo in una situazione difficile: non ci sono soldi! (no hay plata!)». Un’eco di quella stessa espressione pronunciata durante il primo discorso da presidente dell’Argentina di Javier Milei: «No hay plata», scandendo ogni singola parola. Difficile, ad ogni modo, dare torto a Choquehuanca, al netto dei soldi che devono tornare allo Stato e che non starebbero prendendo la via di Palacio Quemado: 1 boliviano attualmente vale 0,13 centesimi di Euro, viceversa per un Euro ci vogliono 7 bolivianos e 70 centavos. Lo stipendio medio di un meccanico si aggira attorno ai 500 bolivianos, poco più di 60€. Da mesi perdura, poi, una situazione di instabilità legata alle riserve di carburante e l’evento di ieri ha scatenato una ancor maggiore irrazionalità da parte dei consumatori e dei trasportatori, tanto che l’Agenzia nazionale idrocarburi (Anh) ha dovuto emettere un comunicato in cui si invita alla calma e assicura come la «fornitura di combustibili» sia «garantita in tutto il paese». Si può ancora comprare carburante, dice l’autorità, ed è anche garantita la vendita ma le lunghe code di camion al confine con l’Argentina che durano da settimane suggerirebbero l'esatto contrario. Eppure, nonostante la situazione di crisi politica e di difficoltà economica, la Bolivia continua ad essere vista come meta d’emigrazione per persone provenienti da Haiti e dal Venezuela.  
 
L’eredità di Evo: i «due Mas»
Ma perché Zúñiga ce l’aveva con Morales, al punto di dichiarare di volerlo arrestare, per la faccenda della candidatura alle presidenziali? Tutto è cominciato più di un anno fa, quando l’ex presidente boliviano Evo Morales ha annunciato di volersi candidare nuovamente alle presidenziali del 2025. Una data cruciale per la Bolivia: è l’anno in cui si celebra il Bicentenario. Ad ottobre dello scorso anno [2023], Evo Morales ha tentato il colpo di mano sul Mas, di cui è tutt’ora Presidente (la carica giuridicamente più importante) convocandone la parte del partito a lui fedele in un congresso-farsa nel dipartimento di Cochabamba, nella cittadina di Lauca Ñ e da lì è cominciata a venir giù la metaforica e proverbiale slavina. Il partito si è spaccato ed ora esistono due parti del Mas (una evista e l’altra arcista) che sono letteralmente l’una contro l’altra. Si aggiunga la questione della cosiddetta auto-proroga dei giudici: il Presidente Arce sostiene la proroga dei giudici di quella che in Italia chiameremmo Corte Costituzionale e che invaliderebbe la candidatura di Morales alle presidenziali. Non essendosi ancora tenuta la votazione popolare che sostituisca i membri decaduti a dicembre 2023, il Governo li ha prorogati de facto. Evo ha mostrato i muscoli e ha proceduto con i suoi mezzi: blocchi stradali in tutto il paese. Dal 22 gennaio a metà febbraio i sostenitori di Morales (che guida la sua corrente dal fortino di Cochabamba) hanno paralizzato le principali strade e autostrade del paese, in particolare l’arteria Oruro-La Paz, attuando blocchi stradali, interrompendo commerci, trasporti pubblici e privati. Secondo Gary Rodriguez, portavoce dell'Ibce (l'Istituto boliviano per il commercio estero), in quei giorni «l'economia boliviana ha perso circa 75 milioni di dollari al giorno». Ma la faccenda non si è conclusa neanche in quel caso. Se Morales ha convocato il congresso ad ottobre [2023], riconvocandone poi un secondo nel marzo di quest’anno (chiamato ampliado), Arce ha risposto chiamando l’assemblea congressuale a El Alto nel mese di maggio. Per l'amministrazione e la burocrazia boliviana, però, nessuna delle convocazioni è giuridicamente valida: nessuna delle assemblee è stata riconosciuta come propria del Mas così come nessuna ha avuto il placet per la registrazione del nuovo statuto che entrambe le parti hanno riscritto in separata sede. Nel corso di questo braccio di ferro politico si è inserita la divisione all’interno di ogni singola organizzazione sindacale, sociale e interculturale che orbita attorno al Mas tanto che il 2 marzo il grande incontro (in aymara: Jach’a Tantachawi) tenutosi a Oruro e promosso dal Conamaq (il consiglio nazionale delle popolazioni indigene del Qullasuyo) è terminato a pugni e sediate, con tanto di intervento della forza pubblica. E sì che l’organizzazione doveva scegliere un nuovo rappresentante tra due entrambi del Mas (uno arcista l’altro evista). I rapporti tra le due ali del Mas sono andati deteriorandosi sempre di più quando ad inizio giugno [2024] il presidente del Senato Andronico (Mas, vicino a Morales), in sostituzione al presidente assente e al vice Choquehuanca in missione all’estero, ha fatto in modo di far approvare la destituzione dei componenti del tribunale che invaliderebbero la candidatura di Evo nel corso di una seduta parlamentare. Le elezioni popolari non sono state, tuttavia, ancora indette e la proroga dei giudici continua ad esserci de facto. L’azione di Andronico non ha fatto altro che inasprire ancora di più le parti in lotta nel Mas e nella società boliviana.  
 
«Autogolpe!» 
Eppure, dopo tutto quello che è successo, le organizzazioni di Cochabamba vicine alla Seis federaciones e fedeli a Morales, hanno serenamente parlato di autogolpe. L’esecutivo della Seis ha parlato esplicitamente di «pagliacciata». Elena Almendras, dirigente della Federazione delle Comunità Interculturali di Chimoré (Cochabamba), ha dichiarato che il tentativo di golpe è stato uno «spettacolo mediatico preparato mesi fa dal Governo» con l'obiettivo di aumentarne la popolarità. La stessa Almendras, insieme alle organizzazioni sociali del Tropico, ha aggiunto: «poiché l'“autogolpe” non è andato come previsto, cercheranno di arrestare l'ex presidente Evo Morales». Ancora una volta le realtà sociali, civili e associative vicine all’ex leader del Mas ingaggiano lo scontro frontale con l’altra fazione del partito, citando anche (e soprattutto, verrebbe da dire) la questione del golpe che sarebbe stato programmato. Tesi confermata anche nel corso della conferenza stampa del dipartimento di La Paz del Mas (evista): «Il Presidente e il suo Vice stanno generando paura nel popolo boliviano. Quello che è accaduto ieri [26 giugno] è stato chiaramente pianificato dalgoverno: un autogolpe». Non si arriverà all’arresto di Morales, come ha dichiarato Almendras, ma certamente l’eredità di Evo è pesante, tanto quanto quel blindato che è andato a "bussare la porta" di Palacio Quemado. Un peso specifico, quello di Morales, con cui non solo il Mas, ma anche la società boliviana tutta dovrà fare i conti. E se una gran folla di gente è scesa in piazza sostenendo la democrazia e il presidente Arce nel momento di maggior tensione nel pomeriggio di ieri, è altrettanto vero che attorno ad esse si stava iniziando a radunare una piccola (ma rumorosa) folla di evisti in cui veniva scandito: «Esto no fue golpe, esto fue teatro [non è stato un golpe, è stato un teatro]». La società boliviana si è atomizzata ed è stata polverizzata a tal punto che è impensabile che le due parti in lotta all’interno del Mas possano siglare un accordo di tregua. Certo è che oggi si è giunti ad un punto da cui difficilmente si riuscirà a tornare indietro serenamente.

L'antidoto al razzismo è una corsa verso Lupionòpolis

Il disco americano di Peppe Voltarelli, a due anni dalla pubblicazione di Planetario, a dieci da «Lamentarsi come ipotesi» (ultimo disco di inediti), si chiama «La grande corsa verso Lupionòpolis» (Visage, 2023). È americano per un’ovvia ragione: è stato registrato negli Usa e alle canzoni hanno collaborato dei musicisti statunitensi che hanno non di poco impreziosito le canzoni di Voltarelli.  

«Era un desiderio covato per molti anni – ha dichiarato Voltarelli a BlogFoolk Magazineho passato dei lunghi periodi a New York City con residenze artistiche in club della città che mi hanno fatto scoprire ed amare la sua congestione urbana il suo linguaggio i suoi abitanti le sue difficoltà».
La complicità artistica con Simone Giuliani e Marc Urselli ha fatto il resto ed è nato «La grande corsa verso Lupionòpolis». Le atmosfere newyorkesi hanno fatto bene al cuore artistico di Voltarelli e alla sua voglia di tornare a registrare: «[…] poi, il saluto alla signora che stava all'uscita della metro che ogni mattina mi diceva "Come on Pepe, today it’s the day” […] Quando entravo in studio e traducevo dal calabrese in italiano i testi dei pezzi e poi con Simone dall'italiano in inglese, sentivo una grande responsabilità ma sono abituato a giocare in trasferta»

Un antidoto al razzismo
«La grande corsa verso Lupionòpolis» rappresenta un ritorno a quello che Voltarelli sa fare meglio: raccontare storie di migrazione italiana, cantare la saudade italiana in terra straniera, sognare di essere felici anche nel posto meno ospitale del mondo. Basta saper guardare il mare: «si guardo u mare ‘un signu sulu mai» (Nun signu sulu mai – La grande corsa verso Lupionòpolis). 

Voltarelli riannoda con sapienza e maestria i fili che lo hanno reso ancor più celebre dopo la separazione da quel funambolico esperimento di contaminazione che era Il parto delle nuvole pesanti. Ogni canzone del nuovo disco sembra voler raccontare di quanto sia sofferta e unica l’esperienza di sentirsi italiani in terra straniera per i più disparati motivi. Un’alterità che Voltarelli ha saputo raccontare con svariate canzoni, facendone la cifra del suo essere, del suo cantare e anche del suo vestire (nel senso letterale del termine).

Sembra che non sia passato un giorno da Onda calabra (pubblicata con Il parto delle nuvole pesanti) la cui visione del video era indispensabile per capire e comprendere a fondo le parole del ritornello («Onda calabra / In doichlanda / Und die kleine / Und die spiele / Und die arbeite») da Sta città. Italiani, calabresi in Germania. 

L’autore si spinge ancor più lontano: ben oltre il Brennero e le Alpi e decide di varcare l’Oceano, un «mare niro funno chi fa paura» (Mareniro). E anche se Mozza può apparire una canzone di poco conto al primo ascolto, al secondo si coglie subito il velo di tristezza, reso meno consistente dalla melodia e dal divertente ritornello: «Nu stamo caminammo ppe ri strade e Montrial / Simo troppo bell e ni volimo semp scialà / Tu dici all'improvviso iamuninn au cinema / Va bono sì ma prima ma prima fammi mangià» e ancora: «Trasimo ntra nu posto piccolino a San Michel / All'intra poca gente e tante foto e l'Italie / C'è pure nu cantante quanto è bravo poverino / Arriva ru mangiare forza sona Peppino […] Si po essere felici pure dintra u Canadà». Certo, si può essere felici, vanno bene la mozzarella e i panzerotti, ma il cantante è «bravo» e «poverino». 

Il Mino Reitano del XXI secolo è certamente Peppe Voltarelli non solo perché canta d’emigrazione riuscendoci in un modo non banale, ma perché lo fa in totale controtendenza a quello che è il clima presente nel Bel Paese. Le destre al governo cercano di esaltare la cultura italiana (o meglio, una piccolissima parte di essa) per far sì che l’identità nazionale si saldi in contrapposizione con la paura del diverso rappresentato da migranti, dai richiedenti asilo e dagli stranieri in cerca di patria, di cittadinanza. Ma il risultato è solo quello di fornire un’idea di Italia fatta di luoghi comuni, come ha fatto Giorgia Meloni al G7 parlando ed esaltando la cultura enogastronomica italiana in un luogo che non c’è: «un resort di lusso dove non ci sono abitanti ma solo lavoratori». 

Lavoratori, laureati, professionisti che ogni anno lasciano l’Italia per diventare cittadini di altri paesi. Italiani in terra straniera che diventano inglesi, statunitensi e tedeschi. L’emigrazione è cosa seria e gli italiani lo sanno benissimo. E Voltarelli la canta ancor meglio.


Europee ed egoismo: anticamera del presidenzialismo [Atlante editoriale]


Foto di Elimende Inagella su Unaplash

C’è speranza? Forse sì. Ma la speranza passa per l’autocritica che, al momento, non parrebbe essere all’ordine del giorno dalle parti di Bruxelles/Strasburgo. 

«Gli elettori europei hanno parlato. […] Si ipotizzeranno vecchie e nuove maggioranze, si inizieranno anche le trattative per nominare i nuovi vertici. Si cercherà lo schema classico: un presidente della commissione al Partito popolare europeo, un presidente del consiglio ai socialisti del Pse, un altro rappresentate ai liberali e qualche altro strapuntino per i sovranisti considerati frequentabili. Si approverà un’agenda europea piena di slogan già vecchi ma ripetere la solita stanca liturgia della politica europea non ha senso». A scriverlo è stato David Carretta, giornalista tra gli altri del Foglio e di Radio Radicale, all'indomani dei risultati delle europee in Italia. Che la struttura (politica) europea non potrà più essere la stessa risulta evidente, perfino ai più sostenitori dell’UE così come si è mostrata nel corso di questi decenni e il risultato elettorale non è, in effetti, tra i più scontati (come invece parrebbe essere stato dalle parti di Libero, Giornale e La verità). Da mesi politica e giornali parlano dell’onda nera che avrebbe travolto l’Europa e in effetti, al netto dell’astensione dal voto, così è stato. L’Europa – o meglio: il suo establishement – dovrà mettere in discussione se stessa per far sì che riesca ad essere percepita nei confronti degli elettori e dell’opinione pubblica, ma l’autocritica non parrebbe all’ordine del giorno dalle parti di Bruxelles/Strasburgo. Antonio Tajani, eco del Ppe in Italia, non parrebbe porsi sul chi-va-là dell’astensionismo o del clima generale di un Presidente (Macron) che scioglie le camere e indice le elezioni nel suo paese nel corso dei primi exit polls: «Noi siamo il Ppe, primo partito: saremo centrali ed essenziali», come ha dichiarato nel corso della notte elettorale al Corriere della Sera

Respinti all’uscio 

Evitando la ripetizione di percentuali raggiunte dai partiti e dalle liste, dati che il lettore potrà trovare visitando qualsiasi sito di quotidiani allnews, scorrendo sul proprio smarphone tra le Google news o anche accendendo una televisione, in questa sede proviamo a tracciare un profilo diverso di questa tornata partendo da chi non sarà rappresentato al Parlamento Europeo, nonostante tutti i pronostici. Il riferimento è all’area liberal-democratica: le due liste che facevano riferimento a Renew Europe (e all’Alde), ovvero Stati Uniti d’Europa e Azione, si fermano al di sotto del quorum. I due rassemblement liberal-democratici non hanno convinto pienamente coloro che si sono recati alle urne e molti commentatori hanno notato che le due liste hanno finito con l’annullarsi. Perché «i due rassemblement»? Perché sia Stati Uniti d’Europa che Azione miravano a rappresentare un variegato mondo liberal-democratico, ora con sfumature socialiste liberali ora con nostalgie da Prima Repubblica (Psi e Pri erano alleati rispettivamente con Stati uniti d’Europa e con Azione). L’operazione ha finito col rappresentare una propagandistica testimonianza, come spesso accadeva per le liste della sinistra radicale (o comunista) da essi spesso dileggiate per la ripetuta mancanza di consensi necessari ad accedere all’Europarlamento. Le matrioske liberali non hanno funzionato e sono state sonoramente bocciate, nonostante i nomi scesi in campo a supportare i cartelli elettorali (Renzi e Caiazza su tutti). Allo stesso modo, cambiando fronte, l’operazione della lista Santoro (Pace terra dignità) è sembrata l’ennesimo tentativo di una sinistra che non sa elaborare un progetto di lungo periodo: gli elettori hanno preferito premiare l’alleanza tra Europa Verde e Sinistra italiana (Avs), intrisa di moderatismo e realpolitik data la riproposizione di candidati provenienti dal Partito democratico (Orlando e Marino su tutti) ma anche di Ilaria Salis su cui si dovrà vedere ora il confronto diplomatico con Budapest come procederà. 

«Prima io» 

La destra gongola e Meloni si lascia andare sui social con la pubblicazione di un selfie con la V di vittoria, gesto che fu caro a Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale. Secondo il parlamentare Fd'I Donzelli, raggiunto la notte del 9 giugno [2024] dal Corriere della Sera, l’operazione di Meloni di candidarsi in tutti i collegi, compresa quella di indicare il voto per Giorgia non è stato altro che «un atto d’amore nei confronti di tutti gli italiani». Il deputato ha proseguito: «[Meloni] non lo ha fatto per sé, non ne aveva bisogno […] tranne la manifestazione del 1 giugno a Pescara non ha tolto un solo minuto al suo lavoro di Governo».

Per sé sicuramente no, tuttavia per il partito certamente. E il discorso vale tanto per lei quanto per la segretaria del Partito democratico. Il bottino delle preferenze di Giorgia Meloni detta Giorgia fa urlare di gioia un già sgolante Nicola Porro che, sul suo blog, mette nero su bianco: «da sola “Meloni detta Giorgia” vale più del Movimento Cinque Stelle nel suo complesso (2,2 milioni di voti) ma anche più di Lega (2 milioni) e Forza Italia (2,2 milioni). Più di un terzo dei voti di FdI porta il nome del leader».

Il messaggio è chiaro. Le elezioni europee erano una sorta di elezione di mid term in salsa italo-europea: tanto più è forte la Presidente del consiglio (che è leader di Fratelli d’Italia), tanto più sarà imponente la sua campagna sul referendum riguardo il presidenzialismo. I rimpasti c'entrano poco e non sono all'ordine del giorno. Quantomeno per ora.

Egoismo. Questo è stato il fattore maggiormente presente e imponente nel corso di questa bassa (si veda la polemica sulle parolacce) campagna elettorale. Ideologia assente (jamais!) e dibattito completamente annichilito dall’onnipresenza leaderistica della figura forte di partito che puntava tutto su di sé.

È l’anticamera del presidenzialismo: un referendum permanente su una figura. Che sia Giorgia detta Giorgia o Elena Ethel Schlein detta Elly la medaglia ha due lati identici. 

Chi ne fa le spese sono gli elettori. Quelli che a votare ancora ci vanno, s’intende.


Articolo pubblicato su Atlante editoriale https://www.atlanteditoriale.com/europee-ed-egoismo-anticamera-del-presidenzialismo/

«Nun me po' nterogà domani?»


Foto di Stefan Spassov su Unsplash

Dice: «Quindi oggi non me 'nteroga? »
Dico: «Caro *** devo già interrogare cinque persone che il penultimo giorno di scuola si sono rese conto di essere insufficienti: non c'è troppo tempo, non credi?»
Dice: «C'è sempre domani»
Dico: «I voti però li devo inserire oggi» 
Dice: «Quindi lei domani nun lavora?»
Dico: «Certo che lavoro e tu domani verrai a scuola»
Dice: «Eh ma se nun me nterroga che ce vengo a fa»
Dico: «Perché comunque conta come assenza»
Dice: «Quindi lei lavora sempre tranne l'ultimo giorno de scola?»
Dico: «Io lavoro sempre, o ti è risultato diversamente? A me pare che so più le volte che non sei venuto a scuola de quelle quando c'eri. Come la mettemo?»
Dice: «Vabbè ma quindi se io me voglio fa interroga domani? L'altri prof ce nterogano»
Dico: «Okay: domani è l'ultimo giorno, però, caro ***»
Dice: «Vabbè io comunque oggi me giustifico»

Fitto c’è, Meloni esulta. Ma il paese reale langue

Una vittoria. O, almeno, per i canoni dell’esecutivo Meloni una netta vittoria. E no, non stiamo parlando della contrarietà della President...