Prima che il lettore inizi a leggere questo articolo è bene che sappia una cosa: per capire queste poche righe dovrà avere una capacità elevata di astrazione dal contesto cittadino (e calcistico) in cui è inserito. Scorrere con gli occhi date come 1911 o 1915 fa pensare ad epoche lontanissime ma che, per la verità, così remote non sono.
L’unico dato di cui, come prima detto, bisogna assolutamente tener conto è la considerazione di come la
Roma presa in esame non è quella odierna e lo dimostra bene il fatto di come si dovesse camminare per quattro chilometri per vedere la propria squadra: l’Audace Roma, ad esempio, bianco e rosso i colori sociali e uno stadio che evoca tutto un altro approccio allo sport, il ‘Motovelodromo Appio’.
Perché partire, delle ben otto squadre citate nelle pagine precedenti, proprio dai biancorossi dell’Audace?
Per due buoni motivi: il primo è quello che lega la squadra allo stabilimento in cui disputa le proprie partite (e in cui giocherà due stagioni l’A.S. Roma al momento della sua fondazione, ma questa è un’altra storia) e il secondo è quello che lega la società ad una questione di classe.
Classe, ovviamente, intesa come ‘classe sociale’: nel periodo interbellico, tra la fine della Prima Guerra Mondiale e l’inizio della repressione fascista, chi poteva permettersi il lusso di uno sport erano le classi agiate, dato che la maggior parte delle squadre capitoline si andavano a collocare in quella che oggi è la Roma dei quartieri alti.
La ‘Roma bene’, si sarebbe detto un tempo.
L’impianto del Motovelodromo Appio, in ogni caso, nasce nel 1910 a largo dei Colli Albani, nei pressi di via dei ‘Cessati Spiriti’, e ospitava le partite dell’Audace Roma, una delle squadre più ‘popolari’ dei tempi, dunque, considerando che la zona dell’odierna galassia del tuscolano non fosse urbanizzata, né densamente popolata, come lo è oggi.
E, forse, la collocazione del Motovelodromo era da considerarsi proprio così: palazzoni ancora assenti, qualche casupola sparsa e solinga che, più in avanti, avrebbe formato i primi agglomerati più simili a baracche ed ammassi di lamiera che altro, ‘stabilimenti’ precari prodromici delle borgate.
Comunque sia, ‘in principio c’era l’Audace’, verrebbe da dire, ma non solo i biancorossi: c’era anche la Lazio, la Virtus, la Juventus-Roma e il Football Club Roma (o Roman, chiamata così dagli inglesi); dalla Virtus partì l’iniziativa di giocar e il primo ‘Campionato Romano’ strutturato su due categorie e che vedeva avvicendarsi le tre squadre prima citate in un primo girone mentre in un secondo le stesse con l’aggiunta dell’Atalanta-Roma, società minore e considerata calcisticamente inferiore.
Un campionato inter no che non aveva rimandi o fasi nazionali, giacché è bene ricordare come, escluso il primo periodo pionieristico del campionato dell’“attività calcistica tra i soci di questa o quella squadra sportiva”, il campionato nazionale era strutturato sulla base di gironi regionali e successivi scontri diretti tra le migliori dei gironi locali.
Il torneo fu vinto dai biancocelesti della Lazio con questa formazione: Zaccagna, D’Amico, Marrajeni, Andreoli, Novelli, Mariotti, Onori, Saraceni, Amodei, Mizzi, Ancherani.
Una piacevole nota, che strapperà un sorriso ai più che tengono in mano questa copia del «Nuovo Corriere Laziale», fu quella per cui, durante quel campionato romano del 1907, la Lazio non aveva il benché minimo rivale e la Virtus stessa, unica che poteva tener testa ai biancocelesti, decise di desistere, o meglio, come riportava ‘Il Messaggero’ del 1905 «di non volersi più trovare di fronte alla Lazio» tanto che «non avendo trovato competitori la stessa società SP Lazio (Società Podistica Lazio) ha composto due squadre coi propri soci: Partito Celeste e Partito Bianco».
Comincia tutto da un pugno di squadre, in buona sostanza, da una manciata di campi ed è utile riportare quanto descritto dalla rivista ‘Foot-Ball’ dell’allora Federazione Giuoco Calcio che poneva la questione della problematica intorno ai “campi da giuoco”.
L’Alba non era in grado di partecipare ai campionati federali tant’è che in due articoli, poi recuperati dal certosino lavoro del Comitato Regionale del Lazio
nel volume ‘I cento anni del Comitato Regionale del Lazio’, si leggeva:
«gravissimo insorge in Roma il problema di ottenere un campo adatto per le esercitazioni del giuoco del calcio e per la risoluzione del quale sono in moto i Comitati Direttivi delle principali Società Sportive della Capitale. Finora si giuocava molto bene in Piazza d’Armi e a Villa Umberto I; ma adesso per le abitazioni popolari in costruzione nella prima, non è più possibile giocarvi dato che lo spazio libero è molto ridotto, e quel poco, è tutto intrinsecato da fosse profonde, dal continuo passaggio dei carri adibiti al trasporto di materiale. Rimarrebbe la Villa Umberto I, ma il Consiglio Comunale sembra assolutamente deciso, entro breve tempo, a proibire qualunque giuoco sportivo nella stessa e già ha sfrattato dalla Casina dell’Uccelleria la Società Podistica Lazio che da parecchi anni vi aveva posto la sua sede. Alle proteste elevatesi da tutti gli sportsmen romani ha risposto che impianterà un par co sportivo un miglio fuori della Porta del Popolo nella località detta dei Due Pini, ma finora vi sono ancor a dei canneti e delle fosse, quindi non sarà certo tra breve tempo che si potrà giuocare in quella località. Speriamo dunque, per l’incremento di questo giuoco così bello , che si possa ottenere dall’Amministrazione Comunale qualche concessione a scadenza un po ’ meno lunga, od almeno il permesso di poter continuare a giuocare a Villa Umberto I; altrimenti andrebbe perduto il frutto del lungo lavoro di tutte le società romane che già incomincia a dare buoni risultati, potendosi giuocare quasi ogni settimana dei bei matches che entusiasmano i cultori del giuoco del Calcio e procurano molti nuovi proseliti tra i quali bene spesso si notano delle buone promesse».
Quello ‘Stadio dell’Uccelliera’ che, come riportato dal volume ‘Calcio Romanus Sum’ di Pietro Straboni, divenne in seguito «l’area del Parco dei Daini» e che vide allenarvisi Silvio Piola, come testimoniato dal suo compagno di squadra Gardella: «Silvio, quando non giocava, aveva cura di non fermarsi, andando a prepararsi da solo nei tranquilli spazi fra il Parco dei Daini e Piazza di Siena».
Quel ‘Due Pini’, inoltre, che sarebbe diventato lo stadio del Roman, tra l’Auditorium e Viale Tiziano, e che sarebbe stato costruito a poca distanza dallo Stadio della Rondinella, quello della Lazio.
Nel secondo articolo del 1911 si leggeva, infatti, che
«queste condizioni [quelle della penuria di campi] sono ancora peggiorate, perché il Municipio ha assolutamente proibito di giuocare nella Villa Umberto I e perciò di campi adatti per il giuoco del calcio non rimane che quello che il Roman Foot-ball Club tiene in affitto dal Comune di Roma, concessione che non si è voluta fare ad altre Società ben più importanti, che è stato loro recisamente rifiutato l’affitto di un tratto qualunque dei terreni che circondano il campo del Club suddetto, di modo che se una Società calcistica volesse giuocare, deve sfidare il Roman Club e fare un match con esso altrimenti non le rimane che elevare proteste che regolarmente rimangono inascoltate, ed ai giocatori null’altro che la consolazione di assistere ai matches che giuoca il Roman F.C. o tir are calcio contro i sassi camminando per la strada»
Un scena di gioco nel campo del Motovelodromo Appio. (Si può notare la maglia della Fortitudo Roma indossata dal giocatore in secondo piano) |
I campi erano pochi, in sostanza, e di certo non erano in ‘syntex’ dal momento che al Motovelodromo Appio vi si correvano non solo gare in bicicletta o motociclistiche, ma anche di un curioso sport che è classificabile come ‘motocalcio’: si giocava al pallone in moto sul campo di terra e, in un bell’articolo di Massimo Izzi su ‘Il romanista’ del 2012, si poteva leggere:
«La partita di calcio era ancora un avvenimento esotico, da gita fuori porta, da affrontare con pasto al sacco. Sarebbe profondamente errato dire che il calcio era un corpo estraneo alla città, ma lo era senz’altro per gli strateghi dell’urbanistica e per i suoi amministratori. Il calcio, non a caso, finì assieme alle corse di bicicletta e di moto. Quelle corse “pericolose”, cioè, che era meglio tener e lontano dalla brava gente che andava a passeggio o a comprare le pastarelle a Via del Corso; in fondo anche quei ragazzotti in mutandoni correvano, cercando come dei forsennati d’impossessarsi di una palla e il rischio di farsi male, in fin dei conti, ci doveva pur essere».
Alla Juventus Roma, sorta come emulazione della tutt’ora bianconera e famosa squadra torinese, toccava il campo della Farnesina, il ‘Piazza d’Armi’, abbattuto successivamente per ‘fare posto’ al quartiere Prati; zone centrali così com’era il campo ‘Madonna del Riposo’, o per meglio dire, il ‘Campo Aurelio Madonna del Riposo ’ situato nell’area tra Castel Sant’Angelo e la Pineta Sacchetti in cui vi disputava le proprie gare la Fortitudo Roma, poi Fortitudo Pro Roma, a seguito della fusione con il Pro Roma.
Fortitudo e Rione Borgo, il quartiere popolare seguiva appassionatamente la propria squadra ed è facile immaginare un clima simile a quello descritto anni fa sulle pagine de ‘Il Romanista’ da Massimo Izzi.
A proposito della Fortitudo è bene ricordare un fatto non proprio irrilevante e, cioè, quello che vedeva legata la società sportiva all’ambiente del Vaticano: la ‘Società di Ginnastica e Scherma Fortitudo’ possedeva una società calcistica che utilizzava il rosso ed il blu come colori sociali, più manifesto omaggio alla ‘Roma dei Papi’.
Il Pontefice di quel tempo fece egli stesso nascere, praticamente, la Fortitudo Roma:
«nacque grazie ad una donazione di Pio X nei confronti dei frati Fratelli di Nostro Signore della Misericordia, ai quali il papa regalò un’area a piazza Adriana 22, a due passi da Castel Sant’ Angelo, dove furono costruiti i primi locali della società»,
come scriveva Edoardo Lubrano nel 2007 sulle pagine della cronaca romana del quotidiano nazionale ‘La Repubblica’.
La Pro Roma, nata dalle ceneri di un altro club di nome Ardor, giocava le proprie partite alla Piramide, sebbene usufruiva anch’essa del campo di Piazza D’Armi, così come d ’altra parte, il campo della Rondinella aveva visto avvicendarsi molte tra le società prima citate le quali avevano quello come ‘approdo sicuro’.
E infatti, era presente anche la Società Ginnastica Roma (1914) a disputare inizialmente le proprie partite alla ‘Rondinella’ così come la Lazio, in seguito ci fu il ‘Campo degli Olmi’ ad appannaggio dell’US Romana, società sorta dalle ceneri della SGR.
Prima della presa del potere da parte fascista, l’ambiente romano era costellato da una serie di società più o meno grandi, come s’è cercato di dire nel corso di quanto scritto e la Lazio, fino al 1927, occupava un posto di primo piano nell’ambito calcistico tanto da meritarsi la qualifica di Ente Morale nel 1921 per Regio Decreto; Mussolini, una volta preso il potere al motto di “tutto il potere al fascismo”, bruciate sedi di giornali e ucciso oppositori politici in tutto il Paese, affermò un vago principio di unicità delle squadre calcistiche delle città maggiori d’Italia, approcciandosi (quasi) imperialisticamente nei confronti del calcio romano e non.
E qui, a questo punto, Storia e racconti si confondono e si ammantano di una nebbia fittissima: gli aneddoti, fanno assumere tratti da ‘memorie di vita vissuta’ ai personaggi della Storia come Italo Foschi e Giorgio Vaccaro, entrambi esponenti fascisti ma con interessi del tutto opposti dal momento che il primo, su ordine di Mussolini, avrebbe dovuto ribadire il fatto che a Roma ci sarebbe stato spazio per una sola squadra, la nascitura A.S. Roma («La squadra si chiamerà Associazione Sportiva Roma, i colori saranno quelli dell’Urbe: il giallo ed il rosso, ed il campo di gioco sarà quello della Rondinella»).
Dall’altra, Vaccaro, da socio semplice della Lazio, ne diventò Vicepresidente così da scongiurare la sorte che aveva in serbo l’emissario mussoliniano, ma si sa, almeno quello la Storia non può nasconderlo, entrambi facevano riferimento a Mussolini essendo emanazione del partito fascista, e Vaccaro rispondendo a Foschi, come riportato nello storico volume ‘Lazio Patria Nostra’ di Mario Pennacchia, sentenziò:
«la Lazio è Ente Morale dal 1921 per Regio Decreto, con una sua storia carica di gloria alle spalle, quindi non può certo scomparire. Se proprio vogliamo creare una nuova società a Roma raggruppando tutte le realtà cittadine, ben venga, ma il suo nome deve essere Lazio, i colori devono essere il bianco e celeste, ed il campo quello della Rondinella. E comunque, se proprio vogliamo far nascere una squadra che si chiami Associazione Sportiva Roma come il Duce vuole, la cosa è fattibile. In questa città c’è spazio per due grandi squadre e una sana rivalità sportiva potrebbe essere un bene per migliorare la competitività del calcio della Capitale».
Così, i piani di Mussolini si sgretolarono del tutto: niente più Roman, Audace e US Romana; niente più Juventus o Atalanta Roma, dal 1927 le maggiori società furono la Roma e la Lazio.
Altre ne sorsero, nel periodo postbellico, così come quelle che si estinsero in seguito, ma questa è — davvero — un’altra storia.
Articolo pubblicato sul «Nuovo corriere laziale» del 4 maggio 2015.
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