Óra.

È uscito un nuovo libro di Giovanni Lindo Ferretti, è stato dato alle stampe molto recentemente, ancora non giunto in molte librerie. Però alla stazione Termini c’è un po’ tutto. Anzi: senza “un po’”. 

Il viaggio che mi aspetta, che taglia da parte a parte l’Italia, replicando la linea Gustav ma partendo da Roma, ha già “Il maestro e Margherita” a farmi compagnia. Però trovargli un fratello, Óra, è «cosa buona e giusta». 

Molti reputano terrificante la svolta ultra cattolica e iper reazionaria di Ferretti. E hanno ragione: lo è. È terrificante sapere che la critica del “produci consuma crepa” sia diventata, sommando i decenni, “difendi conserva prega”. 

Aliberti, dunque, per la collana “libri della salamandra”, pubblica il nuovo “Óra” di Ferretti. Pensieri, ricordi, parole e preghiere del Giovanni Lindo Ferretti che fu, era ed è. 
Il libro scorre via interamente nel tempo del viaggio: i treni regionali portano con sé il grande pregio dell’invito alla lettura. 
Un pregio che non sanno di avere, per la verità. 

Ferretti è del tutto un’altra persona, ovviamente: condanna il suo passato in modo irreversibile. 
Così come, dice lui ora, aveva abbracciato il suo tempo con ingenuità ripetendo slogan, ora s’è dato al clericalismo puro e intransigente. E anche questo lo sappiamo benissimo.
Il libro in sé non è nient’altro che un’operazione editoriale: inutile classificarlo con altre parole. Ha delle perle perché sono i suoi ricordi che impreziosiscono il vissuto, ma si tratta di un ripercorrere anni di carriera per mezzo delle preghiere, in sostanza. Non risparmiando critiche al clero a sua detta troppo civilizzato a cui manca spiritualismo e, quasi, dottrina nella prassi. Ortoprassi prima di ortodossia, in fondo lo ha scritto anche l’autore di e in queste pagine.

Personalmente, ho iniziato ad ascoltare i Cccp/Csi/Pgr grazie a Valerio all’età di 14 anni. In questi sedici anni, tanti se vissuti anche se storicamente sono pochi, mi sono fatto l’idea che, in fondo, Ferretti è un concetto che muta e che non sa neanche lui come interpretarlo e interpretarsi, capirsi. E questo libro non si discosta affatto dall’ondivago: 
«Quando prego poi sto bene, comunque meglio. Se non prego è comunque peggio, ma ve l’ho già detto: sono stupido, debole, non aspettatevi granché ne rimarrete delusi»,
scrive Ferretti alternandosi alle strofe del Te Deum

Adesso è così e finirà così: sotto braccio alla Meloni e amico di CL; intransigentemente reazionario e ottusamente bigotto.
Spirituale sì, ma non con quella spiritualità che aveva nei CSI o al concerto di Montesole dei PGR.
Contestatore, anche, ma del sé stesso pubblico che non è caduto nell’oblio come avrebbe voluto. 
E non è finita. 
È tutto quello che io ho e non è ancora finita

Devono annà là [o anche «protestassero a casa loro»] - Discorsi da bar

Dice: «A me queste che protestano dall'Italia mica me convincono tanto, eh»
Dico: «Non ho capito»
Dice: «Scusa, eh: sei iraniana?»
Dico: «Eh»
Dice: «Se sei iraniana vordì che devi annà a protestà ar paese tuo, mica qua»
Dico: «Ma magari sarà nata qua»
Dice: «Eh ma se rivendichi l'origine iraniana, vai a protestà là»
Dico: «Sì, ma se starà qua ce sta n motivo, no?»
Dice: «E quale sarebbe?»
Dico: «Magari - faccio un esempio, eh - c'avrà provvedimenti pendenti perché ha già protestato ar paese suo, o se n'è dovuta andà proprio perché - faccio un altro esempio - partecipava a organizzazioni che non so ammesse ar paese suo. Le variabili so tante, eh»
Dice: «E so tutte sbajate»
Dico: «Eh?»
Dice: «N'è che so tutti rifugiati quelli che stanno qua, eh. Allora mo so tutti rifugiati!»
Dico: «Ma l'Iran c'ha avuto na storia particolare: so tanti quelli che se ne so andati per motivi» politici nel corso dell'anni, quindi come fai a dì che devono tornà là e manifestà là, è n discorso che c'ha poco senso»
Dice: «E 'nvece ce n'ha 'n sacco de senso, scusame, eh»
Dico: «Quindi, famme capì, se io volessi annà a manifesta pe dì "cessate il fuoco" nel conflitto russo-ucraino dovrei andà sulla linea del fronte a manifestà?»
Dice: «Sur fronte magari no, però o 'n Russia o n'Ucraina: se lo fai da qua è troppo facile: so tutti boni a protesta da qua»
Dico: «Ma che stai a dì? Quindi uno che non vole la guerra in Afghanistan deve annà a Baghdad a protestà?»
Dice: «Eh»


Tra 26 e 65 anni se po' pure morì (di lavoro e di burocrazia, s'intende)

Stazione Anagnina. Esterno sera. Reputo le 16:00 un buon momento (in realtà era l'unico possibile) per andare a presentare la documentazione per la richiesta d'abbonamento annuale agevolato di Atac. Pare che c'è pure il bonus governativo. Facciamo 'sto tentativo.

Il lungo serpente che si mostra ai miei occhi è lunghissimo: le persone in coda arrivano fin quasi all'ingresso del parcheggio multipiano (i romani hanno colto il riferimento). Ci sono, tuttavia, due persone che, in piedi, assistono le anime perse in cerca di risposte. Stanno tutti col foglio del bonus governativo in mano.
Per capirci: il bonus eroga fino a un massimo di 60€, l'abbonamento annuale costa 250€. 

Dico: «Scusi, avrei bisogno di sapere se posso rientrare nel regime agevolato per gli abbonamenti»
Dice: «Ce l'hai l'Isee?»
*mostro il documento*
Dice: «Quant'anni c'hai?»
Dico: «Trenta»
Dice: «Eeeeh allora niente.»
Dico: «In che senso?»
Dice: «L'aggggevolazione se po' fa solo se sei sSudente fino ai 26 anni, co quella cifra de Isee.»
Dico: «Ma io ce n'ho 30»
Dice: «Eeeeh non se po' fa. Però ce sSanno altre aggggevolazioni»
Dico: «Tipo?»
Dice: «Over 65»
Dico: «Eh ma io c'ho trent'anni»
Dice: «Ma perché lo stai a fa co Atac?»
Dico: «Abito a Roma: ho bisogno dell'abbonamento dei mezzi di Roma. Perché?»
Dice: «Perché si tu o fai su r sito d'a regione Lazio poi chiede l'aggggevolazione »
Dico: «Quindi non devo chiedere ad Atac un agevolazione per gli abbonamenti di Atac ma devo inoltrarte la domanda alla Regione?»
Dice: «Seh.»
Dico: «E invece per il bonus governativo?»
Dice: «Quello è pe' quello [l'abbonamento] mensile»
Dico: «Ma non è da 60€?»
Dice: «Eh»
Dico: «E l'abbonamento mensile ne costa meno»
Dice: «Eh boh»
Dico: «Eh *annuisco in segno di "okay, vabbè, e mo che devo fa? come pago? ndo vado? me devo fa davero tutta sta fila?"
Dice: «Eh?»
Dico: «No, dicevo: poi il pagamento come avviene? Devo tornare qui? Posso utilizzare lo Spid o mandare una posta certificata, mi dica lei
Dice: «Eh prima te loggi co er Spid sur sito d'a Regione, poi devi annà ar municipio a fatta convalidà er vàusce che te manda»
Dico: «Ma se me loggo co lo Spid c'ha poco senso che vada de persona ar municipio
Dice: «Eeeeh»

La fiducia nel sistema

L'articolo è un po' lungo, ma così m'è venuto e ogni tentativo di snellirlo si riduceva, tutte le volte, allo svilimento di parti del discorso. Che ci crediate o meno, cari quattro lettori, questa è la versione più breve. 
Se vi va, però, qualche minuto perdetecelo. 

Di dibattiti attorno alla legge elettorale, o alle leggi elettorali, il sistema politico istituzionale ne ha attraversati moltissimi: ad ogni legislatura che nasce c'è sempre la questione della legge elettorale da sistemare, o da promulgare ex novo, al fine di cambiare quella vecchia, che evidentemente non va (più) bene, per rendere più governabile il paese.
Le motivazioni possono variare ma, a spanne, gravitano tutte più o meno attorno a quanto scritto sopra. C'è da chiarirsi su una questione, certamente ridondante alla ripetizione, ma che venne  ribadita nel 2014 in un'intervista da Fulco Lanchester, ordinario di Diritto Costituzionale preso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma: 

«I sistemi elettorali aiutano la stabilizzazione. Essi non possono, però, produrre stabilizzazioni assolute: chi ci racconta che con un sistema elettorale di un certo tipo si perviene immediatamente alla stabilità, è paragonabile al venditore di lozioni per la crescita dei capelli. E le parla un calvo».

Allo stesso modo anche quando si insediò il Governo Renzi nel 2013 la situazione venne descritta magistralmente da Massimo Bordin:
«Ad oggi [marzo 2013] questa è la situazione attuale: la legge che c'era, che faceva schifo a tutti, non c'è più perché una sentenza della Corte Costituzionale afferma come, in alcune parti, quella legge non è Costituzionale. Quindi, se adesso dovessimo andare a votare, voteremmo con una cosa che non si sa bene quale sia, perché è un qualcosa di ritagliato sulla sentenza della Corte. Allora "dobbiamo fare assolutamente la nuova legge elettorale" , e questo porta a dire che “la faremo entro un mese” anzi addirittura, mi pare, che oggi si sia detto si sarebbe realizzata entro la fine della settimana. Quindi siamo decisamente a posto! Se, malauguratamente, Renzi non dovesse riuscirci, il governo va minoranza su una questione non propriamente marginale; quindi si crea un clima da elezioni anticipate e, quindi, per fare in fretta una legge elettorale, che ci serve assolutamente, noi andiamo a votare senza la legge elettorale che ci serviva tanto».
Ciclicamente, il dibattito politico istituzionale ruota attorno a plurimi interessi di natura personale e/o partitica al fine di una ripetizione ab aeterno dello status quo, pur annunciando di voler cambiare ogni virgola, al netto delle intromissioni della Corte Costituzionale in questo o quel caso.

Uninominale, la battaglia del mondo liberale-radical

Una delle più longeve rivendicazioni dell'area che comprende le organizzazioni liberali e radicali, nonché della destra più conservatrice, è proprio quella dell'attuazione di una legge elettorale pienamente maggioritaria e con collegi uninominali (piccoli o grandi che siano).
Stiamo parlando di organizzazioni che compongono, ad oggi, la totalità del Parlamento italiano, nonché un buon 70% delle formazioni politiche che partecipano regolarmente alle elezioni di ogni ordine e grado.

Marco Cappato, esponente radicale e promotore della lista "Referendum è democrazia" (poi esclusa dalla corsa elettorale appena terminata), ha sempre sostenuto il modello elettorale seguente:

«[...]che nei sondaggi d’opinione è il più popolare [2014] e che i Radicali propongono da sempre: maggioritario secco ad un turno con collegi uninominali, sistema federalista e presidenzialista».

Non stupisce che il blocco liberal-radicale, variamente collocato (lista Cappato, +Europa, Radicali italiani, PR[NTT], iscritti individuali o doppie tessere), sia in linea con quanto espresso più volte da uno o più soggetti politici che compongono la coalizione di centrodestra: vale giusto la pena ricordare come il referendum sulla giustizia venne presentato dalla Lega e dal PR[NTT] e che, ad oggi, la sostenitrice più accanita del presidenzialismo è la neoeletta deputata Giorgia Meloni
Ma procediamo con ordine. 

First past the post’ 

Al momento della discussione in Parlamento e della successiva strutturazione della legge Rosato (detta  Rosatellum) tutt'ora in vigore, si invocava a gran voce il modello anglosassone per l'elezione di Camera e Senato. Il sistema anglosassone, denominato first past the post, rappresenta un sistema uninominale maggioritario secco, nonché una evidente strozzatura della rappresentanza, almeno a parere di chi scrive.

Breve excursus anglosassone
Il Regno Unito possiede un parlamento bicamerale (Camera dei Lord e Camera dei Comuni) e la ‘posta in palio’ è rappresentata dai 650 seggi nella Camera dei Comuni: dal momento che vige un sistema elettorale uninominale, ogni circoscrizione, delle 650 in oggetto, è diviso in collegi e ognuno elegge il proprio deputato (uno) da mandare alla Camera dei Comuni. Tale meccanismo impone che il partito vincente debba ottenere 326 seggi per raggiungere la maggioranza in Parlamento e le circoscrizioni elettorali sono così divise: 523 in Inghilterra, 59 in Scozia, 40 in Galles, 18 in Irlanda del Nord; non esistono soglie di sbarramento, in ogni collegio i partiti presentano un solo candidato e viene eletto solo colui/colei che ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti.

Già a partire dalle elezioni 2015 la ricercatrice Catlin Milazzo evidenziò le crepe e le aporìe del sistema elettorale britannico riguardo i seggi conquistati da UKIP (United Kingdom indipendent, il partito di Nigel Farage). Imperfezioni, c'è da dire, presenti a partire dalle elezioni del 2010 se poste in confronto con quelle del 2015 in cui il partito Conservatore di David Cameron, nonostante guadagnasse poco più dello 0,8%, si vide aumentare i seggi da 307 a 331 mentre i laburisti, sebbene avessero incrementato la propria percentuale di uno 0,4%, si videro diminuire le unità di rappresentanti da 258 a 232.

Uninominale all'italiana

Non entrerò nello specifico del sistema elettorale Rosatellum ma sarà sufficiente dire che si tratta  di un sistema elettorale misto che è maggioritario (con collegi uninominali) e proporzionale (con collegi plurinominali molto piccoli ma bloccati): qui ulteriori delucidazioni (l'articolo è del quotidiano «Il Riformista»).
I sostenitori della legge maggioritaria e del sistema uninominale utilizzano tale argomentazione a sostegno della propria tesi: il rapporto elettore-rappresentante tende ad assottigliarsi. Ovverosia: il Parlamentare eletto sarà espressione di quella territorialità perché appartenente proprio a quella circoscrizione in cui fa attività politica, ci è nato, svolge (o ha svolto) la sua attività professionale o altri fattori

Tutto dovrebbe andar come da manuale, o no? Proprio no

Tutti candidati 
L'attuale legge elettorale non prevede l'impossibilità di raddoppiare le candidature nei collegi plurinominali. Dunque, ad esempio (*) alla Camera dei Deputati, si sono create situazioni da leggi elettorali già viste (Calderoli - Porcellum) e giudicate antidemocratiche proprio da chi ha proposto l'attuale sistema, per cui, ad esempio: 
  1. Giorgia Meloni risulta eletta in cinque collegi diversi (Sicilia 1, Sicilia 2, Lombardia 1, Puglia e Lazio 1);
  2. Giuseppe Conte in Lombardia 1 in entrambi i plurinominali P01 e P02, Sicilia 1, Puglia, Campania 1; 
  3. Enrico Letta in Lombardia 1 e Veneto 2; 
  4. Antonio Tajani in Campania 1 in entrambi i plurinominali e in Campania 2.

Al Senato della Repubblica la questione non cambia

  1. Silvio Berlusconi è eletto nel plurinominale di Campania (P01), del Lazio (P02), del Piemonte (P02), della Lombardia (P02); 
  2. Carlo Calenda in Veneto (P02), Sicilia (P01), Lazio (P01); 
  3. Matteo Renzi in Lombardia (P02), Campania (P01), Toscana (P01).

Tutto questo da' vita a circostanze piuttosto rocambolesche, per utilizzare un termine relativo alla cronaca calcistica, per cui anche ai collegi uninominali si preferisce puntare sul cosiddetto "candidato forte", magari in un collegio in cui storicamente il partito è andato sempre bene: Pier Ferdinando Casini eletto per la seconda volta a Bologna con il Partito Democratico ne è un chiarissimo esempio.
Andando, tecnicamente, a destrutturare la tesi più forte del divario meno imponente tra rappresentante ed elettore. 
E di esempi, in questa legislatura con il numero dimezzato di rappresentanti a seguito del referendum promosso dal Movimento 5 Stelle, ce ne sono moltissimi, basta citarne solo un pugno: 

  1. il presidente della Lazio Lotito è stato eletto in Molise, sebbene egli sia laziale non solo di fede calcistica ma di appartenenza territoriale;
  2. Cesa, segretario dell'UDC anch'egli eletto alla Camera nel collegio uninominale del Molise, sebbene sia nato ad Arcinazzo Romano;
  3. Angelo Bonelli (Alleanza Verdi-Sinistra), nato a Roma vissuto tra Ostia e Casal Bernocchi (prima del recentissimo matrimonio che lo ha visto trasferirsi in Trentino), è stato eletto a Imola;
  4. Marta Fascina, la compagna (o non-sposa a seguito del non-matrimonio) di Berlusconi, eletta in Sicilia e nel 2018 in Campania, sebbene sia nata a Melito Porto Salvo (Reggio Calabria);
  5. Riccardo Magi, Radicali italiani/+Europa, romano di nascita e in cui ha svolto la maggior parte della sua attività politica, è stato eletto a Torino;
  6. Sumahoro (Alleanza Verdi-Sinistra) è stato nel plurinominale della Lombardia a seguito dello scatto del seggio, sebbene fosse stato candidato all'uninominale di Modena, quando la sua attività sindacale è da sempre rivolta al bracciantato del Mezzogiorno d'Italia, con particolare riguardo alla campagna pugliese. 
O muthos deloi oti
È evidente che partiti e movimenti, tutti, hanno ben in mente la sola questione del proporre e imporre leggi che poi, evidentemente, non vengono rispettate. O meglio, si fa come al solito: si aggira, pur mantenendo una dignitosissima forma. Sempre più maldestra ad ogni elezione, per la verità. 
La storia (o muthos) racconta poi che chi ci rimette è lo stato della democrazia liberale italiana, sempre più martoriata data la convocazione delle elezioni in poco più di un mese dalla caduta del Governo Draghi; lo stesso governo capitanato dall'ex presidente della BCE; il governo Monti; il doppio settennato di Napolitano.
Che l'unico interesse della borghesia italiana è la sua palingenesi, costi quel che costi, ma senza catarsi quanto, piuttosto, con evidente manifestazione della propria protervia.
Che ora non vanno neanche più di moda le lamentazioni sull'astensione, dal momento che una maggiore astensione alle urne permette percentuali maggiori agli occhi della classe dirigente, così da esporre lo scalpo della cifra enorme raggiunta in questa o quella circostanza avversa. 
Che il potere non si ferma mai e ogni volta aumenta l'asticella del proprio agire collettivo: non è stata l'ultima chiamata al voto del meno peggio, a cui abbiamo pietosamente assistito da parte dei settori del partito democratico, ma solo l'ultima così per come la conosciamo e l'abbiamo conosciuta.
Che alla prossima tornata elettorale ci sarà un meno-peggio nella lotta per l'elezione diretta del Presidente del consiglio dei ministri.
Che bisogna abbandonare ogni illusione e iniziare ad agire, studiare, partecipare in un solo senso possibile: quello del rovesciamento dell'attuale sistema. (Ma questo continueremo a farlo in pochi e verremo continuamente tacciati di essere poveri illusi dalla maggioranza).

(*) Tutti i dati sono presi dal sito istituzionale Eligendo.

L'articolo è stato pubblicato anche su Atlante, leggermente modificato: https://www.atlanteditoriale.com/it/macrotracce/legge-elettorale-rappresentanza-collo-stretto-della-bottiglia/ 

Ripetere l’ovvio, soprattutto dopo il 25 settembre, è un atto rivoluzionario

In Italia il Presidente del consiglio dei ministri non è eletto direttamente dagli elettori: non si tratta di un'elezione diretta, dunque, ma "indiretta" in quanto i rappresentanti eletti e designati come ministri si riuniscono ed eleggono il o la presidente. 
Tuttavia la becera e ignorante stampa lo chiama “premier” già da un decennio, assimilando due figure completamente diverse. Così facendo, nell’immaginario collettivo c’è gente che pensa come già oggi Giorgia Meloni possa andare da Mattarella forte del suo mandato elettorale e  chiederà l’incarico di formare il Governo. Non è così. (*)

Tempo fa la stessa cosa accadde a Luigi di Maio, precisamente alla scorsa tornata elettorale: in un post sul "Blog delle stelle", intitolato "La volontà popolare sopra ogni cosa" (Kant, ora pro nobis), sosteneva:
«Come abbiamo detto in campagna elettorale è finita l'epoca dei governi non votati da nessuno. Il premier deve essere espressione della volontà popolare. Il 17% degli italiani ha votato Salvini Premier, il 14% Tajani Premier, il 4% Meloni Premier. Oltre il 32% ha votato il MoVimento 5 Stelle e il sottoscritto come Premier. Non mi impunto per una questione personale, è una questione di credibilità della democrazia. È la volontà popolare quella che conta. Io farò di tutto affinché venga soddisfatta. Se qualche leader politico ha intenzione di tornare al passato creando governi istituzionali, tecnici, di scopo o peggio ancora dei perdenti, lo dica subito davanti al popolo italiano».
Ora, in tempi di crisi e di informazione drogata, è bene riprendere ogni concetto e ripeterlo fino allo sfinimento: il "Premier", in Italia, non esiste. I Governi, tecnicamente, non sono votati da nessuno, come al contrario ha affermato Di Maio quando era sulla cresta dell'onda e ora si ritrova impantanato in percentuali risibili grazie al suo opportunismo trasformistico, secondo solo al De Pretis che fu; così come affermato dalla Meloni a più riprese nel corso di enne campagne elettorali; così come affermato da Salvini e via dicendo.
Nella Costituzione italiana il termine premier non sta scritto da nessuna parte, né tantomeno è mai stato normato che il candidato del primo partito debba obbligatoriamente essere designato dal Presidente della Repubblica come Presidente del Consiglio dei Ministri (non premier): Craxi è stato per anni Presidente del Consiglio con il Partito socialista italiano ben lontano dal 15%.

Dunque, non sarà Meloni ad essere la  prossima, nonché prima donna, Presidente del consiglio dei ministri? Forse sì, ma potrebbe anche non esserlo e non sarebbe scandaloso né eversivo, come si dirà tra neanche 48 ore. Però possiamo già "giocare" con dei nomi e considerare che, forse, ci potrà essere una donna Presidente ma potrebbe essere l'uscente Presidente del Senato (Alberti Casellati) o, al contrario, il vice presidente del Parlamento Europeo (Tajani): figure rassicuranti per l'apparato, da pochi scossoni per "i mercati". Figure da "pilota automatico". 
Qualcuno urlerà al golpe, si chiamerà l'impeachment (come se servisse a qualcosa nell'ordinamento politico istituzionale italiano) e via dicendo. Ma, ancora una volta, si farà l'interesse del capitalismo europeo, di cui pure la Meloni e Fratelli d'Italia ne sono i migliori agenti assicuratori. 

(*) A tal proposito, vale la pena ricordare quel collega giornalista (di quando speravo di poter ancora fare quel mestiere) che in redazione se ne uscì dicendo: «Premier è molto più funzionale come nome, Presidente del consiglio dei ministri ha troppi caratteri e mi costringerebbe a modificare la lunghezza dell'articolo».
Un manuale di edonismo applicato e di ignoranza militante.
Ora è impiegato in un grande giornale nazionale. C'est la vie. 

Berlino, l'Union abbatte l'ultimo muro

Ieri C'eravamo tanto armati è finito sulla pagina culturale del quotidiano Avvenire, grazie ad un bell'articolo di Antonio Giuliano dedicato all'Union Berlin. Qui di seguito è riportato l'articolo in versione completa, disponibile anche sul sito del quotidiano.

Per la prima volta in testa al massimo campionato tedesco c’è la squadra che al tempo della Ddr sfidava il regime: perdenti e vessati ma sempre fieri
C’è una squadra sola al comando in Bundesliga e non è il Bayern Monaco. In un campionato in cui i bavaresi hanno messo in bacheca gli ultimi dieci titoli e vincono ininterrottamente dal 2012 è già una grande novità. Ma non è tutto, perché in vetta alla Serie A tedesca c’è per la prima volta una squadra entrata nella Storia con la “s” maiuscola pur non avendo mai vinto nulla se non una Coppa di Germania nel 1968. Parliamo dell’Union Berlino, il club che nei duri anni della Repubblica democratica tedesca (Ddr) osò manifestare apertamente il dissenso contro la Stasi, la polizia segreta del regime comunista. La storia dei biancorossi di Berlino Est affonda le radici nel 1906, anno di fondazione del Fussballclub Olympia 06 Oberschönweide (dalle divise bianco-blu). 
Ma l’epopea comincia all’indomani della Seconda guerra mondiale quando la capitale tedesca venne divisa in due dal Muro e anche il club subì una scissione importante. Gran parte della rosa fuggì nella parte Ovest, per dar vita all’Union 06 Berlin, il resto rimase nel sodalizio che dopo varie denominazioni nel 1966 assumerà il nome attuale. Sono gli anni da incubo della Ddr, quelli in cui la propaganda del regime si serviva anche dello sport. Vincere a ogni costo e con qualsiasi mezzo per dimostrare la superiorità del modello socialista spingerà la Germania Est al doping di Stato scoperchiato solo alla fine della Guerra Fredda. Laboratori segreti e tante vite distrutte fruttarono più di 500 medaglie olimpiche con atletica leggera e nuoto tra le discipline più “pompate”. 

Il calcio non fu immune e non poteva essere altrimenti. 
Arbitraggi pilotati, spie e giocatori ricattati facevano parte di quel sistema asfissiante descritto mirabilmente nel film del 2006 Le vite degli altri. Uno scenario surreale che riemerge con molti particolari anche nel recente C’eravamo tanto a(r)mati. Storie di calcio della Germania Est (Rogas, pagine 134, euro 12,70) di Fabio Belli e Marco Piccinelli, già autori per la stessa casa editrice dell’evocativo Calcio e martello. Storie e uomini del calcio socialista. Le sorti dell’Union si intrecciano con la spietata repressione del dissenso dal momento che la Stasi aveva deciso che a Berlino Est non ci potesse essere altra squadra all’infuori della Dinamo. 
Era questo il club prescelto da Erich Mielke, il direttore dell’apparato che controllava in maniera capillare la vita di tutti i cittadini. La Dinamo Berlino vinse dieci titoli di fila in Oberliga (la lega calcistica della Ddr) dal 1979 al 1988: la Stasi si incaricava di indirizzare gli arbitraggi, intimidire gli avversari e accaparrarsi i migliori talenti invitandoli “caldamente” a vestire la casacca bordeaux della Dinamo. Pur subendo torti e ingiustizie l’Union continuò a resistere, diventando la squadra della dissidenza. Lo stadio si trasformò in una zona franca per sfogare la propria ribellione al regime. 

La pagina di «Avvenire»
di ieri 23/09/2022

Dagli spalti piovevano cori espliciti: «Preferisco essere un perdente, che un maiale della Stasi!» o «Il Muro deve andarsene». 
Tifare Union significava mettere a repentaglio la propria vita perché come ha spiegato qualche anno fa la rivista berlinese Eulenspiegel: «Non ogni tifoso dell’Union era nemico dello Stato, ma ogni nemico dello Stato era tifoso dell’Union». Condannati a un destino calcistico marginale ma sempre fieri a tal punto da meritarsi il soprannome di Eisernen “gli uomini di ferro”, richiamo anche alle origini popolari della squadra che all’inizio schierava per lo più figli di operai. Dal suo ufficio Mielke monitorava il dissenso che partiva dalla Curva dell’Union e continuava a spianare la strada alla Dinamo.
Nel 1986 un agente della Stasi nei panni di arbitro assegnò quello che passerà tristemente alla storia come “il rigore della vergogna”: il penalty che al 94’ permise alla Dinamo di battere la squadra di casa della Lokomotive Lipsia e strappare l’ennesimo titolo con l’inganno.
I giocatori della Dinamo godevano di un trattamento privilegiato: percepivano uno stipendio cinque volte superiore rispetto alla media di un giocatore tedesco orientale e potevano risiedere in case considerate di lusso. Ma la Stasi non si fidava neppure dei suoi stessi tifosi: lo stadio della Dinamo aveva una capienza limitata e poiché si trovava molto vicino al Muro c’era un presidio fisso di militari a vigilare sulle diserzioni. 

 Nel 1979 la stella Lutz Eigendorf, il “Beckenbauer del-l’Est”, riuscì a scappare a Ovest ma pagò a caro prezzo la sua fuga quattro anni più tardi: perse la vita in un incidente stradale che poi si scoprì indotto dalla Stasi. Alla caduta del Muro cambiò tutto. Ciò che è rimasto immutato è l’attaccamento viscerale dei supporters dell’Union. Un legame letteralmente di “sangue” visto che una volta per salvare la società dal fallimento hanno lanciato l’iniziativa «Blut für Union», “sangue per l’Union”: i tifosi sono andati a versare il sangue a pagamento negli ospedali cittadini, destinando il ricavato alle casse della squadra. Nessuno rimase con le mani in mani nemmeno quando nel 2008 lo storico stadio “An der Alten Försterei” aveva un disperato bisogno di essere ristrutturato e la società non aveva fondi. Molti si tassarono, quelli che invece avevano esperienza nel campo edile si offrirono di lavorare gratis. Accorsero in più di 2 mila e misero insieme 140 mila ore di lavoro decisive per completare l’opera e permettere al club di risparmiare almeno 2 milioni di euro.
Oggi parliamo di uno dei primi stadi europei che è parzialmente di proprietà dei tifosi

A riprova dello spirito comunitario che anima l’Union anche l’incredibile iniziativa del 2014 in occasione dei Mondiali di calcio in Brasile. I tifosi organizzarono la «Wm-Wohnzimmer» (“il salotto dei mondiali”). Chi voleva poteva portarsi un divano da casa e vedersi la partita su un maxischermo insieme con gli altri. Per la finale i divanetti sparsi nel campo di gioco erano più di 800. E momenti di festa si ripetono spesso durante l’anno e a ogni Natale. Sono queste le gioie maggiori di un club che ha vissuto tante retrocessioni potendo vantare solo la Coppa del 1968. Pochi i momenti di gloria: come nel 2000 il miracolo della qualificazione alla Coppa Uefa quando ancora militava in Serie C. Adesso i rivali sono quelli dell’Hertha, la storica squadra di Berlino Ovest. Il derby con la Dinamo della Stasi non c’è più. Ma il passato non si dimentica. E così dopo anni di buio, spie e cimici nascoste persino nei borsoni dei giocatori, si godono un primato tanto bello quanto inatteso alla luce del sole. Ieri fischiavano la Stasi. Oggi senza correre rischi possono continuare a cantare in curva l’insopprimibile bisogno di libertà che il regime voleva estirpare.

Antonio Giuliano (pubblicato da «Avvenire» del 23/09/2022)

Matteo Renzi, ovvero: la versione più aggressiva del bonapartismo

Tutte le politiche, le scelte messe in atto da Renzi sono  state strutturate dal carattere antioperaio e reazionario delle stesse. Il proponimento è sempre stato il medesimo. Renzi non aveva alcun principio politico, tanto che in un'intervista rilasciata al Foglio, quando si definiva rottamatore del Pd assieme a Civati, si dichiarò «liberista di sinistra», andando così a spaziare dal "mastellismo", alla socialdemocrazia europea sino a giungere al liberalismo.  Questo almeno rimanendo nell'ambito del formale, in realtà - ovvero nella sostanza delle cose - ha sempre rappresentato il bonapartismo fatto e finito con ben poco rispetto per il dissenso e prono alle politiche di Confindustria. La politica di Renzi, quando era Presidente del consiglio, ha rappresentato un approdo per quello che non è riuscito a Berlusconi, Bossi e Fini per oltre un decennio, ovvero: la libertà di licenziare da parte dei padroni (questo è, nei fatti, il “Jobs Act”). 

Il renzismo parla(va) "d'innovazione", di "nuovi tempi" come se Renzi stesso avesse compreso e conoscesse le dinamiche storiche del mondo del lavoro, dello sfruttamento capitalistico ma la verità è esattamente capovolta, Renzi è molto ancorato, più di quanto voglia far apparire, al passato e alle logiche di potere. 

È bene portare alla mente quando Renzi, durante il dibattito referendario cui seguì la promessa di abbandono della scena politica in caso di sconfitta (proponimento poi disatteso), diceva pervicacemente: «Con noi c'è una maggioranza silenziosa», un richiamo al potere reazionario e democristiano non a caso. La Riforma Renzi-Boschi, profondamente lesiva per gli spazi democratici, nei fatti era solo la declinazione più becera del progetto bonapartista: quello dell'uomo solo al comando. 

La legge elettorale "Italicum" d'altronde aveva delle preoccupanti similitudini con la legge Acerbo fatta approvare da Mussolini nel 1923. Una legge che elargiva a chi raggiungesse il 25% dei voti validi i due terzi dei seggi alla Camera dei Deputati (il Senato era di nomina regia). 

Con l'aiuto di questa legge, Mussolini prese il controllo della Camera: legge che fece accelerare la formazione dello Stato totalitario. Ora, alla luce del fatto che le elezioni del 25 settembre 2022 (convocate in neanche due mesi e che vanno a configurarsi all'interno di un quadro del tutto privo di libertà democratica e di partecipazione reale e concreta da parte dei soggetti che vorrebbero concorrere e dare un contributo non già alla Rivoluzione ma allo stato borghese) rappresentano la prima tornata con il numero ridotto di parlamentari a seguito della vittoria referendaria sul "taglio dei costi della politica", andrebbe ricordato che Renzi sventolò il medesimo scalpo. Per indorare la pillola circa il referendum da lui proposto e da egli stesso personalizzato a tal punto da vedere in quel momento di consultazione elettorale uno spartiacque della propria vita politica, nei confronti del mondo del lavoro sventolò la riduzione dei costi della politica, a favore di una totale controriforma, come avrebbero fatto in seguito i grillini. In un colpo solo ci sarebbe stata: l'abolizione del Senato e del Cnel, dunque la collettività avrebbe risparmiato gli stipendi dei senatori e altri "annessi e connessi" relativi al Cnel. 

È vero che ci sarebbe stato un risparmio a seguito del taglio di 200 senatori, ma si sarebbe trattato di pochi spiccioli (50 milioni l'anno e non 500 come sbandierato da renziani). Così come è valso per il referendum promosso dal Movimento 5 Stelle qualche anno dopo: se si avesse davvero voluto tagliare "i costi della politica", si sarebbe dovuto andare a colpire il salario dei parlamentari. In sintesi: non un taglio del numero ma una sforbiciata ai loro stipendi ed emolumenti: retribuzione massima di 2000 euro per tutti gli eletti  e non ridurre gli spazi democratici di rappresentanza, così come andrà a comporsi il parlamento del 26 settembre 2022. 

Insomma la politica di Renzi era ed è anche la linfa funzionale dell'aggressione sociale ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici, alla dissoluzione progressiva dei loro diritti, delle conquiste e delle rappresentanze a vantaggio dei profitti dei pochi e delle restrizioni UE. Senza contare il balbettio istituzionale sul DDL Zan che vide Renzi pronto a mediare con la destra (cioè gli amici di Orban) e al dileguarsi al momento del voto: la tipica mossa renziana degli ultimi anni che nasconde la mano che ha lanciato il sasso, proverbialmente parlando

Il mondo del lavoro non ha nulla a che fare con questa politica atta a comprimere tutti i suoi interessi economici e sociali. La strada della sinistra è altra: dobbiamo avere come perno, come rivendicazione centrale, la cancellazione delle leggi antioperaie realizzate in questo trentennio a partire dal Jobs Act e dalla Buona scuola (cosiddetta). Una strada (e una rivendicazione) che ponga come base del conflitto sociale le ragioni di classe del lavoro, contro ogni subordinazione alla borghesia; che rivendichi il diritto alla piena rappresentanza proporzionale di queste ragioni, contro ogni mercimonio alla governabilità del sistema.
È la prospettiva, dei consigli, della democrazia socialista.

Eugenio Gemmo
Marco Piccinelli

Articolo pubblicato sul blog: Trotskysmo - Quarta internazionale: https://www.quartainternazionale.it/2022/09/12/matteo-renzi-ovvero-la-versione-piu-aggressiva-del-bonapartismo/

Un calcio (popolare) alla FIFA: boicottare i mondiali in Qatar!

 I mondiali di calcio in Qatar sono l’apoteosi di ciò che il calcio non dovrebbe mai essere: un enorme business costruito con il sangue e lo sfruttamento degli ultimi e un palcoscenico di intrattenimento per pochi spettatori milionari.

Nonostante le politiche di facciata promosse dalla FIFA negli ultimi anni per combattere disuguaglianze di genere, lavorative e razzismo negli stadi, la scelta di svolgere i mondiali in Qatar svela il vero volto del calcio business. I diritti umani e civili vengono messi in secondo piano, dando carta bianca ad un paese che:
- ha più volte violato i diritti fondamentali delle persone della comunità LGBTQ+ e dei migranti, tant'è che la stragrande maggioranza tra alberghi e b&b ha dichiarato di non accettare ospiti omosessuali;
- ha escluso le donne dalla quasi totalità degli sport e degli eventi sportivi, osteggiandone o impedendone la partecipazione;
- non ha delineato regolamentazioni per orari di lavoro e salari, soprattutto nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori migranti;
- ha dimostrato di non essere un paese attrezzato per un evento di tale portata, iniziando una massiva ed ecocida costruzione nelle zone desertiche del paese.

Questa gigantesca operazione finanziaria e commerciale ha fatto sì che milioni di lavoratori e lavoratrici provenienti dall’Asia e dall’Africa Centrale siano stati fatti arrivare nel paese (spesso dovendo pagare la propria assunzione) e costretti a sopravvivere in uno stato di schiavitù.
Sfruttamento, temperature ben oltre i 45° e orari superiori alle 12 ore giornaliere sono solo alcune delle cause che hanno portato alla morte di almeno 12 persone a settimana; le stime di Amnesty parlano di 6.500 lavoratori morti dal 2010 ad oggi, ma altri canali descrivono situazioni ancora più macabre, arrivando fino a 15.000 vittime.

Le enormi baraccopoli che si estendono fuori dai lussuosi centri urbani sono scenari di condizioni di vita miserabili. Si parla di documenti sequestrati per non dare la possibilità di tornare nel proprio paese, caserme di polizia trasformate in prigioni e squadre di carcerieri che esercitano quotidiane azioni di violenza.
Rimane imbarazzante il tacito assenso con cui la FIFA sta ripetutamente appoggiando le infami pratiche attuate nel paese; non ultime, a sostegno di ciò, le dichiarazioni di Infantino: “Quando dai lavoro a qualcuno, anche in condizioni difficili, gli dai dignità e orgoglio”. Sono solo l’ennesima riprova di tale scempio.

Lanciamo questo appello come segnale unitario del panorama del calcio popolare italiano. Convinti che il nostro modello di fare sport sia sempre rivolto alla difesa e alla partecipazione degli ultimi, dei deboli, degli emarginati. Come condizione di esistenza abbiamo quindi la lotta e l’attacco verso modelli di “sport” come quelli attuati in Qatar.

Conoscendo il volto cruento del nemico continueremo a proporre con ancora più convinzione un’alternativa valida di calcio: dai campetti di periferia ai centri sportivi in cui giochiamo, con ultimi ed emarginati come protagonisti in cerca di riscatto.

Rivendichiamo come principio base che il calcio è da sempre un canale di coesione, integrazione, un linguaggio mondiale che non può e non deve staccarsi neanche di un centimetro dagli occhi e dai piedi del popolo, delle persone comuni, della gente.

Il calcio moderno raggiunge quindi il suo attuale apice nei mondiali in Qatar: gioiranno compiaciuti i ricchi proprietari di sponsor, le pay tv e i vertici della FIFA.

Ma noi non staremo a guardare, saremo una spina nel fianco, che da una parte attacca e colpisce, dall’altra pone un’alternativa.

Sempre contro questo dannato calcio moderno: il calcio è del popolo, o non è.



Firme:

Armata Pirata 161 - St.Ambroues (MI)
Athletic Brighèla (BG)
Atletico Brigante (BN)
Atletico San Lorenzo (RM)
Aurora Vanchiglia (TO)
Borgata Gordiani (RM)
Brutium Cosenza (CS)
HSL - Hic Sunt Leones Football Antirazzista (BO)
Ideale Bari Calcio (BA)
La Paz (PR)
La Resistente (GE)
Liberi Nantes (RM)
Lokomotiviadipietreto (PT)
Napoli United (NA)
No League Sportinzona (MI)
One Love FC (SV)
Palermo Calcio Popolare (PA)
Partizan Bonola (MI)
Partizan Scampia (NA)
Polisportiva Antirazzista Assata Shakur (AN)
Polisportiva Sanprecario (PD)
Polisportiva Sans Papier (VI)
Popolare Trebesto (LU)
Quadrato Meticcio (PD)
Quartograd (NA)
Rage Sport (CE)
RFC Lions Caserta (CE)
Rinascita Popolare (PI)
Spartak Apuane (MS)
Spartak Lecce (LE)
Spezia Calcio Popolare (SP)
Stella Rossa 2006 (NA)
Unione Sportiva Stella Rossa (BS)

A che punto è la notte

Una rassegna stampa, in breve. Ancora? Sì, ancora. La verità è che mi sentivo eccessivamente "orfano" di Massimo Bordin e della sua "Stampa e regime". Il progetto di "A che punto è la notte" è quello di una trasmissione radiofonica digitale (che oggi fa fico chiamare podcast) in cui si leggono, commentano e analizzano tematiche internazionali, nazionali e locali da un certo punto di vista e con una lettura che contrasta quella dominante tanto nei circuiti televisivi, quanto in quelli radiofonici e relativi alla carta stampata.

Il titolo del podcast riprende quello di un romanzo molto celebre del duo Fruttero-Lucentini, il cui titolo rappresentava a sua volta un riferimento biblico del Profeta Isaia (1), da cui è stata tratta anche la miniserie Rai con Marcello Mastroianni protagonista.

La notte è tanto letterariamente quanto non letterariamente, vettore di mistero, nostalgia, sensualità e fascino. In questo caso, la notte è una metafora di una condizione sociale dell'animo collettivo del paese, di una ricerca continua di stabilità che rappresenta una tensione propria di ognuno di noi.
Una notte, dunque, che è un "topos" letterario e un vettore per comunicare e trasmettere quel che non siamo più in grado (o per cui non abbiamo più voglia) di ascoltare.

Prenderemo in esame e leggeremo insieme giornali della settimana e daremo spazio alle notizie che vengono estromesse dalla grande stampa che parla di "paese reale" senza davvero conoscerlo.
Proveremo a parlare a più voci, dato che ultimamente, sebbene siano in tante a parlare, la parola che viene proferita ha, in tutte loro, la medesima intonazione, lo stesso significato e messaggio finale.

Qui la prima puntata (*):

 

(1) Profezia contro Edom e l'Arabia
(Gr 49:7-22; Ad 1) Gr 49:28-33
11 Oracolo contro Duma.
Mi si grida da Seir:
«Sentinella, a che punto è la notte?
Sentinella, a che punto è la notte?»
12 La sentinella risponde:
«Viene la mattina, e viene anche la notte.
Se volete interrogare, interrogate pure;
tornate un'altra volta».

Passo da cui è tratta anche "Shomèr ma mi-llailah?" di Francesco Guccini

 

(*) Non avrà una vera e propria cadenza di pubblicazione, mi piacerebbe definirlo "saltuario". Dunque, un "saltuario d'informazione radiofonica". 

La paura delle formiche

Foto di Prabir Kashyap su Unsplash Da giorni sta facendo discutere quanto affermato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al...