L'alternanza, il PCTO: la scuola che vogliono, i ragazzi che muoiono

Lorenzo Parelli, studente friulano di 18 anni, è morto durante l'ultimo giorno di "alternanza scuola-lavoro" presso l'azienda per cui svolgeva il tirocinio non retribuito ma "formativo". La vicenda, purtroppo, è nota a tutti: il ragazzo era di Castions di Strada, studente dell’istituto paritario salesiano Bearzi di Udine e svolgeva l’alternanza scuola-lavoro presso un'azienda che produce materiale siderurgico. 22 gennaio 2022, ultimo giorno di alternanza: una trave di diverse tonnellate di acciaio si stacca e uccide sul colpo Lorenzo. 

La scuola che vogliono

I sostenitori delle leggi Moratti, Gelmini, Renzi che hanno ucciso la scuola negli ultimi decenni sostengono che in realtà chiamare lo stage di Lorenzo "Alternanza scuola-lavoro" sia profondamente sbagliato perché non si chiama più così e, in effetti, ora è il PCTO: "Progetto per le competenze trasversali e l'orientamento". Ovvero: cambiare un nome ad un concetto per farlo rimanere uguale al precedente. I governi degli ultimi trent'anni ci hanno abituato anche a questo. E poi, sempre stando ad ascoltare i sostenitori dell'alternanza (e i cui rappresentanti politici coprono tutto l'arco parlamentare) la scuola moderna deve sviluppare modernità, orientamento in uscita, non bisogna conoscere ma imparare a "saper fare" qualcosa e viene a crearsi il mostro a tre teste delle "competenze".  Perché conoscere qualcosa è un concetto decisamente superato, vecchio, rappresenta un'anticaglia: bisogna dimostrare di saper fare qualcosa. Come se Democrito avesse davvero mostrato a tutti che lui era riuscito a spaccare un atomo con un martello. La scuola moderna deve sviluppare in ognuno la propria individuale imprenditorialità: a che serve conoscere le declinazioni latine quando poi non sai avviare un'azienda?! È utilissimo far nascere una società: è molto formativo sapere come si sfruttano le persone, risparmiare sui materiali, trarre soldi dallo sfruttamento su altri esseri umani, sull'ambiente, sulle cose quali-che-siano. Se il mondo è spietato, allora la scuola deve adeguarsi e mandare i ragazzi a capire quel che sarà della loro vita - oltre i plessi fatiscenti che abitano per cinque anni  - facendogli fare periodi di lavoro non retribuito lontano da scuola che valgono come ore di PCTO in cui viene insegnato loro ad obbedire, in teoria "un mestiere", a non avere un salario per quel che stanno facendo, a non aver un sindacato, a dire sempre "sì" ad ogni condizione che viene loro proposta dal soggetto erogatore del progetto/stage (altrimenti noto come lavoro gratis). 

Perché no.

Perché gli avvenimenti della nostra storia recente, dopotutto, non li conosciamo affatto oppure vogliamo fare finta che non esistano: ci giudicherebbero spietatamente, altrimenti. Il grande movimento di democratizzazione della scuola che ha voluto l'istruzione e l'inclusione per tutte le classi sociali (cioè la possibilità di andare a studiare senza sapere a cosa servirà "dopo" quel particolare argomento di quella disciplina) ha dato una spinta enorme all'uguaglianza e alla parità tra tutti per evitare che si andasse a lavorare anziché studiare da minorenni. Imparando a conoscere anzitempo sofferenza, privazione della propria età di vita, sfruttamento, così come è successo ai nostri nonni o ai nostri padri. Tutti, per farla breve, avrebbero dovuto studiare e diventare "studenti" nel verso senso della parola, senza l'obbligo o il ricatto di dover lavorare perché le misere condizioni di partenza della propria famiglia non avrebbero consentito l'accesso agli studi ai figli. 

A partire da un certo momento storico, nell'era del post-ideologismo, s'è iniziato a mettere politicamente in discussione alcune questioni relative all'insegnamento e alla scuola in generale: in fondo il latino non serve: era utile quando a scuola c'erano solo padroni ed élite, ora non è più utile; il libro di testo allo stesso modo è superato: tanto c'è internet, e via dicendo. S'è arrivati a dire che, in fondo, i ragazzi nati negli anni '80 e '90 sono stati dei privilegiati: hanno passato tutta la loro adolescenza (nonché post) a studiare senza fare un giorno di lavoro e non posseggono risorse spendibili nel "mercato del lavoro". Impostando il discorso in questo modo non se ne esce facilmente, così viene estratta dal cilindro l'idea che per essere studente non serve studiare (ma infatti!) perché bisogna anche saper fare: dimostrare di fare qualcosa realmente e non solo riuscire ad applicarsi su teorie e manuali. In altre parole: bisogna che i ragazzi tornino a lavorare, ecco "l'alternanza": perché se tu fai qualcosa adesso è bene che ti metta da subito in testa di utilizzare quelle cose che stai imparando per il "dopo". Altrimenti adesso perdi solo tempo, se poi non sai cosa fare. 

E il mondo è pieno di pescecani e non trovi lavoro. 

E invece finisci che sul lavoro ci muori perché stavi lavorando gratis in un progetto che avrebbe dovuto insegnarti a lavorare, anziché capire com'è che siamo arrivati fin qui, a vivere questi giorni disgraziati. 

E, magari, se arrivi a capire com'è che siamo arrivati fin qui e a studiare come siamo arrivati a questo punto, inizi a ribellarti al concetto di "alternanza" e inizi a schifare chi è che ha ideato un sistema così perverso e maledettamente assurdo. 

E, magari, inizi ad organizzarti per cambiarlo, il mondo. Non sia mai.

Gli 85 di Giovanna Marini (e quell'intervista all'Adeia di Grottaferrata)

Nel novembre 2014, precisamente il giorno 14 di otto anni fa, mi bloccai con la schiena. Quella tra me e il nervo sciatico è una lunga storia che mi "prese del costui dispiacer si' forte" che spesso e volentieri torna come le vicende amorose tossiche e prive di sbocchi. Avvenimenti del genere accadono solo in prossimità di eventi già prestabiliti, programmati e verso cui prevale un sentimento di attesa spasmodica prima che esso venga portato a compimento. Un po' come la febbretta infame prima del viaggio (quale che sia) foss'anche il fine settimana al paese dei furono nonni in Abruzzo, Molise, Marche, province laziali qualsiasi. 

Il giorno dopo avrei dovuto intervistare Giovanna Marini alla Libreria Adeia: sabato 15 novembre ore 18:30, così come recitava la locandina realizzata ad hoc e in cui si leggeva a caratteri cubitali "Le interviste possibili". Non come nel programma RAI di Alberto Arbasino degli anni '70: queste erano proprio interviste possibili nel vero senso della parola. Giovanna Marini c'è e quel giorno c'era davvero.

Sarebbe troppo lunga spiegare come mai mi trovassi in una libreria indipendente di Grottaferrata con al mio fianco Giovanna Marini che rispondeva alle domande (in realtà faceva praticamente tutto lei, il bello era proprio quello *) e suonava le sue canzoni che l'hanno resa celebre nella nicchia di un certo tipo di cantautorato italiano. Sarebbe lunga anche dire come mai, a un certo punto, grazie a Emanuele, compagno di università e di calcio (sempre viva la Lokomotiv Casilina!) mi sono ritrovato a casa di sua mamma ad aspettare che la Marini uscisse da una lezione di yoga per parlare con lei e farmi raccontare cosa successe a Spoleto nel 1964. Perché, d'accordo: sapevo già tutto il caos accaduto al Festival dei due mondi in cui venne suonata "Gorizia tu sei maledetta" con tanto di verso ufficiale e non "rimaneggiato" (Traditori signori ufficiali / che la guerra l'avete voluta / scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù), però sentirlo dalle sue labbra e dal vivo è tutta un'altra storia. Lo stupore che ebbe all'uscita della lezione di trovare un poco-più-che-ventenne che volesse incontrarla per conoscerla, era ben presente sul suo volto.

Così come, allo stesso modo, sarebbe lunghissimo dire come le mie orecchie entrarono in contatto con "I treni per Reggio Calabria" a 17 anni ma, forse, l'appartenenza politica ha giocato il suo ruolo anche in questo. 

Insomma, ieri Giovanna Marini ne faceva 85 e tra le cose belle che credo d'aver compiuto fino a qui (l'avvicinamento agli enta suggerisce qualche bilancio da iniziare a trarre) c'è sicuramente l'intervista a lei. Perché - certo - nella foto che hanno scattato al centro della piccola sala della libreria ero piegato dal dolore alla schiena (mi sarei rialzato esattamente inarcato ad angolo acuto) ma la felicità è stata indescrivibile. Le abbiamo regalato anche dei fiori: garofani rossi in maggioranza predominante su tutti gli altri e, giuro, quasi si stava per commuovere tanto era contenta di averli ricevuti. 

Tutt'ora, quando riguardo questa foto a distanza di anni, rivedo e percepisco nuovamente quella felicità e sorrido. Tantissimo. 


* In realtà la cosa fu comica: la gente si era assiepata ovunque. Ogni pertugio era occupato da sedie, persone in piedi, seduti per terra a gambe incrociate (ah, gli eventi prima del Covid!) e io ero lì a fianco a Giovanna Marini con una lista di domande a cui pensavo che lei rispondesse. In realtà gliene ho poste due di numero e da lì è stata un profluvio di parole. Ho seguito i suoi passi, mettendo i piedi dove li metteva lei e - di tanto in tano - la interrompevo costruttivamente per farle contestualizzare meglio quanto stava dicendo. A un certo punto si gira e, col microfono aperto, mi fa: "Ah ma ti eri proprio preparato le domandine!". Ridono tutti, ovviamente, Francesco (gestore della libreria) si mette una mano in faccia a celare quel misto tra sorriso e pianto, io inizio ad assumere tutti i colori di Fantozzi a seguito dell'ingerimento del tordo intero. Però poi è andata bene, me la cavai come al mio solito, le dissi: "No, guardi, è che me le sono scritte per non perdermele, come le forze mie e l'ingegno del Lamento pasoliniano". E lei: "Oh, ecco, a proposito del Lamento per la morte di Pasolini..." E cominciò a raccontare e suonare.

La paura delle formiche

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