martedì 22 gennaio 2019

Competenza, Lino Banfi, l'Unesco, Roma Est

Una cosa in particolare di quelle che ho fatto fino ad ora me la rivendicherò con orgoglio, sempre: la candidatura con il Partito Comunista alle elezioni del 2016 per il municipio in cui vivo. Municipio VI, Roma Est, per capirci, una delle zone più disagiate di Roma. Io e Gianmarco, allora candidato presidente, ci siamo smazzati tutto il municipio a caccia di voti: stiamo parlando di un territorio decisamente vasto che in quanto a popolazione è dietro solo a città come Torino e Verona, contando la bellezza di 250.000 residenti. Ci fermavamo con ogni singola persona e con ognuno ribadivamo le nostre ragioni. 
Al momento delle votazioni sono andato a fare da rappresentante di lista al plesso scolastico dove era allestito il mio seggio, dove i vari candidati di Fratelli d'Italia, Lega, Partito Democratico rimanevano fuori al cancello a fermare la gente per ricordar loro come avrebbero dovuto votare. 
Illegale, però lo facevano lo stesso. 
Insomma, al primo piano vicino all'entrata dei seggi mi incontra un amico dei miei. Mi saluta e mi fa «ma insomma te candidi?» e io, un po' intimorito, ma comunque convinto della cosa: «beh, sì, la campagna elettorale è stata tosta ma ce l'abbiamo messa tutta». 
«Eeeeeh, lo so», mi fa questo tizio sempre più grave e scuro in volto, «ma co che lista te candidi?» poi guarda il cartellino che avevo appeso e capisce. 
Annuisce. Va a vedere i candidati di tutte le liste vicino al suo seggio e si sofferma su quella del PC: Gianmarco Chilelli - Candidato Presidente. Lista: Marco Piccinelli, Silvia Di Luzio, Daniela Giorgini etc etc. Scorre tutti quanti i nomi col dito. Torna verso di me con le mani dietro la schiena, chiuse l'una dentro l'altra: «Ma ce vo esperienza, sete tutti regazzini: er più vecchio c'ha 50 anni ma è l'unico, poi tutti sotto i trenta, ma ndo volete annà?».
E io, forse un po' stizzito, gli dissi: «Eh, t'ho capito, ma una volta ennòcestannotroppivecchi, mo ennòsottroppogiovani. Non capisco».
Lui, sempre più serio: «No, me dispiace, non te voto: ce deve andà gente competente a governà».

Esce dal seggio: «ho votato er Pd, però ar comune i 5 stelle». Gli auguro ogni bene, dicendogli - garbatamente - che il voto è suo e può farne quel che vuole, ma, dal momento me lo aveva rivelato, che aveva fatto na gran cavolata
Oggi, mentre inviavo un saggio per una rivista scientifica che ho in ballo da più di qualche mese, apro l'Ansa e vedo a caratteri cubitali: «Lino Banfi sarà commissario all'Unesco: "Porterò un sorriso in mezzo a tanti plurilaureati"». 
Ecco, dopo aver visto questa notizia ho ripensato al siparietto con quel tizio e della necessaria competenza che io certo non potevo avere nell'amministrazione della cosa pubblica. 
Certamente Lino Banfi sarà molto più competente di tanti signur ncravattat, Mario Merola/Zappatore docet. Sarà commissério. 

Rimbombano, ogni giorno, sempre più forti, in qualsiasi contesto storico, sociale e politico, le parole di Ennio Flaiano: «La situazione [politica] italiana è grave ma non è seria».

domenica 20 gennaio 2019

Cesare Battisti, il formidabile 'casus belli'

Fonte foto: ©Il fatto quotidiano
L'Italia si è svegliata tra il torpore postideologico e le storture dell'ingranaggio democratico liberale, costretto da costruzioni sovranazionali che ne limitano l'azione e l'efficacia, trovandosi stritolata fra pulsioni fasciste e discriminatorie nei confronti dell'altro quale che sia. L'episodio che ha scatenato il punto più alto di tutto questo è senza dubbio la cattura di Cesare Battisti, latitante da più di un trentennio tra la Francia e il Brasile. La narrazione che si è prodotta attorno al personaggio nel corso degli anni è stata volta alla costruzione (e costrizione) mediatica di un capro espiatorio per additare una certa parte politica alla copertura nei confronti dell'appartenente ai Proletari armati per il comunismo (Pac). Copertura che, nella maggior parte dei casi, non c'è stata o è stata interpretata forzosamente da coloro i quali hanno voluto mostrare ai più che la questione fosse come essi andavano esprimendo. Cesare Battisti non è altro che un terrorista di secondo, se non terz'ordine, rispetto al clima politico degli anni '70 e nell'ambito dello stragismo, come ha ricordato Massimo Bordin sulla sua rubrica quotidiana Bordin line (del 15/01/2019) attraverso il giornale, tutt'altro che socialista o comunista 'Il foglio'. Così come, per ulteriori approfondimenti sulla questione, è bene rimandare all'articolo scritto qualche tempo fa (ma utilissimo per quest’occasione) da Wu Ming 1. I Proletari armati per il comunismo, gruppo di cui faceva parte Cesare Battisti, a sostegno di quanto già espresso, nonostante misero a segno un pugno di omicidi, fu un gruppo terroristico che nel giro di due anni nacque e si sciolse, così come tanti all'epoca di cui stiamo parlando. Periodo storico con cui l'Italia ancora non ha fatto i conti fino in fondo lasciando svariate questioni aperte e aprendo le braccia al più bieco revisionismo, come già successo per svariati episodi della nostra storia più recente.

Casus belli
Cesare Battisti e la spettacolarizzazione del suo rapimento - che ricorda quella messa in atto all'epoca dell'arresto di Enzo Tortora, telefonare Bonafede - rappresenta la punta dell'iceberg della volontà di destrutturare quel poco che rimane di gruppi organizzati o autonomi che fanno riferimento alle idee di solidarietà e di internazionalismo. In altre parole al marxismo, al socialismo e al comunismo, nonché al pacifismo. Prendere il casus belli Battisti è una mossa più che intelligente: la scaltrezza del potere si mostra con tutta se stessa andando a recuperare uno tra i più contestati personaggi di quegli anni, unendolo al mutamento di governo in Brasile a seguito del golpe-Temer che ha ‘deposto’ Dilma, democraticamente eletta, e carcerato Lula, sulla cui veridicità delle prove messe in atto dall’accusa si discute tutt’ora in Brasile. Italia e Brasile non sono mai stati così vicini, non tanto per la prossimità ideologico-politica dei due Governi, quanto per la demonizzazione totale, a 360°, della controparte. In Italia il gioco è più complicato: Salvini deve fare riferimento alla 'sinistra' che, purtroppo per lui (ma anche per noi), non ha niente a che vedere con il PT brasiliano e la socialdemocrazia, men che meno con il socialismo o il comunismo. Il meccanismo riesce ugualmente: Matteo Salvini ha più volte dichiarato che ostentare i simboli della Russia sovietica perché antistorici, o aberrazioni simili, arrivando - qualche anno fa, quando la Lega si chiamava ancora Nord - a «schifare il crocifisso con la falce e martello donato da Evo Morales a Papa Francesco». A questo, si aggiunga il disprezzo di entrambi (Bolsonaro e Salvini) nei confronti dei comunisti: il Ministro dell'Interno, dopo la stretta di mano con il figlio di Torreggiani (ovviamente in diretta tv sul Tg2 di prima serata, successivamente pubblicato su Facebook dal capitano) ha dichiarato come si sia fatta «giustizia con la g maiuscola» ricordando con disprezzo quegli «pseudo intellettuali e politici italiani in difesa di quello che è un volgare assassino comunista». L'espressione usata verrà ripetuta dal Ministro per una serie infinita di volte fino a perforare il cranio degli uditori e la retina dei suoi (e)lettori fin quando essi non avranno, davvero, gli occhi di bragia non appena vedranno una falce e martello da qualche parte.

La questione vera: mettere al bando il socialismo, il comunismo, l'internazionalismo
Il 31 agosto 1939, a pochi giorni dall'invasione nazista della Polonia, ad attacco pianificato e con Adolf Hitler che aveva già firmato l'ordine di invasione, si verificò l'episodio che passerà alla storia come Incidente di Gleiwitz (oggi la cittadina si chiama Gliwice). L'accaduto fu un finto attacco messo in piedi dai nazisti al fine di costruire (letteralmente) un pretesto per giustificare l'attacco alla Polonia: a Gleiwitz, al confine con la Polonia, sono di stanza dodici uomini agli ordini dei servizi segreti tedeschi. Prendono gli ordini, dunque, direttamente da Heydrich, capo dei servizi, «poi giustiziato quattro anni più tardi dai partigiani cecoslovacchi a Praga» come ha ricordato Alessandro Barbero. Il commando possiede divise e documenti polacchi, pronti ad entrare in azione in qualsiasi momento arrivino gli ordini, cito nuovamente Alessandro Barbero nel corso della sua lectio al festival di Sarzana del 2014: «la mattina del 31 agosto Heydrich fa arrivare la parola d'ordine al commando 'la nonna è morta'. Il commando entra in azione e attacca la stazione radio di Gleiwitz, spara e si impadronisce della radio da cui viene trasmesso un comunicato farneticante in polacco e se ne vanno lasciando un morto in divisa polacca». L'attacco polacco c'è stato, i nazisti sono stati aggrediti: l'invasione della Polonia, iniziata il 1 settembre, è più che giustificata e legittimata, c’è necessità di difendersi.
Così come tutte le questioni, nel corso della Storia, hanno bisogno di un pretesto per legittimare la propria azione, anche la vicenda di Cesare Battisti trasmette qualcosa, per coloro i quali hanno occhi e orecchie per andare oltre le righe della propaganda massmediatica salvinista, a cui la grande stampa presta il fianco facendogli da eco. Iniziare a limitare l'agibilità politica di chi fa riferimento a quanto sopra espresso (socialismo, comunismo, internazionalismo) non fa certo parte del famigerato Contratto di governo, tuttavia si presta bene a quello che sarà la narrazione salvinista post elezioni europee in cui (a meno di stravolgimenti) non ci saranno liste con falce e martello, la sinistra non eleggerà alcun deputato a Strasburgo e la Lega otterrà la maggioranza relativa di coloro che intenderanno recarsi alle urne, riproponendo lo scenario del 2014 in cui il Pd gridò entusiasticamente per un effimero 40% che fece girare la testa all'allora Primo Ministro Matteo Renzi. Tornando a noi, è giusto, nell'ottica leghista, iniziare una narrazione/propaganda che è stata abbracciata da svariati paesi dell'est europa (Ucraina e Polonia fra tutti), andando di pari passo con la rimozione dei segni più visibili (statue e monumenti in generale) dell'epoca sovietica.
Non da ultimo, l’uso politico e social della spettacolarizzazione della cattura del personaggio: si può rivivere passo dopo passo, la giornata del 14 gennaio, dal profilo Facebook del Ministro Bonafede. Un pasto stucchevole per chiunque a cui gli italiani sembrano essersi così tanto assuefatti da non percepire la gravità delle immagini girate e pubblicate con estrema disinvoltura o, per dirla con le parole dell’Unione delle camere penali: «Quanto accaduto ieri [14/1/2019] in occasione dell’arrivo a Ciampino del detenuto Battisti è una pagina tra le più vergognose e grottesche della nostra storia repubblicana». Questa che sta attraversando l'Italia, dunque, è solo la prima fase di un nuovo, lungo e tortuoso cammino in cui si lavorerà per far sì che i contorni dei crimini del passato (Stazione di Bologna in primis) verranno sempre di più letti attraverso lenti dalla gradazione sbagliata e fatte indossare a un popolo sempre più miope a cui manca capacità di discernimento, educazione, adeguata scolarizzazione e memoria storica.

giovedì 17 gennaio 2019

Roma è una città diseguale: «bisogna cambiare il modello di sviluppo»


Roma è una città in cui regna la disuguaglianza. Da questa frase, forse inconsciamente ovvia, che tuttavia in tempi di crisi politico-culturale sembra rivoluzionaria, nasce il progetto #MappaRoma. Uno strumento per la politica e per analizzare l’attuale, evitando che si cada nei luoghi comuni e nell’immaginario di una città che non esiste più. Di questo e dell’ultima mappa pubblicata ne abbiamo parlato con Salvatore Monni, coordinatore del progetto e docente di Economia dello sviluppo presso la Facoltà di Economia dell’Università “Roma Tre”.

L’idea di mappare Roma e le sue disuguaglianze è decisamente ardita, da dove parte il progetto #MappaRoma e perché?
«Il progetto è nato nel 2016, l’anno delle elezioni comunali. Io e gli altri due ideatori del progetto  [Keti Lelo e Federico Tomassi] partimmo da un dato: tutti coloro che parlavano di Roma nell’ambito delle elezioni lo facevano riferendosi ad una città che non esiste più o solamente immaginata. Un conto è parlare di una città che non esiste più in un ambito ristretto o familiare, diventa un problema se ne parla in quei termini chi si candida a governare la città. #MappaRoma nasce dall’esigenza di tirar fuori dai cassetti molto del lavoro fatto, immaginandolo come strumento da fornire a tutto il quadro politico romano prima della competizione elettorale e al ‘grande pubblico’».

Dunque uno strumento per chi aspira a governare ma anche per chi lo sta già facendo, corretto?
«Per far conoscere Roma e le sue complessità. L’aspetto che nelle mappe è emerso con forza è la dicotomia fra centro e periferia, specie extra-anulare, ma in realtà Roma ha tanti centri e tante periferie in ogni zona della città».

Nell’ultima mappa pubblicata, la #25, si analizza inclusione sociale, dispersione e abbandono scolastico, disoccupazione: la situazione appare piuttosto drammatica per il quadrante est prima menzionato e per il quadrante nord-est.
«C’è anche un’altra idea, però, oltre a quelle citate. Il benessere di una metropoli non è data dalla sua ricchezza e dal reddito. Quando leggiamo racconti e narrazioni [politiche] di una città, ci si basa sull’aumento del Pil e sul commercio. Questi fattori, pur importanti, non inquadrano la (molto più complessa) realtà. La crescita è cosa molto diversa dallo sviluppo: è fattore importante ma strumento e non obiettivo di quest’ultimo».

Cosa si deve fare per comprendere le disuguaglianze della città?
«Nella mappa #25 abbiamo provato ad analizzarlo: monitorare i dati sulla scolarizzazione, vedere il numero di NEET [i giovani né occupati né inseriti in un percorso di formazione] ci dà un quadro dell’esclusione sociale. Non una semplice espressione: significa ‘non essere parte attiva della società’. Il reddito di cittadinanza di cui si sta discutendo in questi giorni, ad esempio, implica un’idea ben precisa sia dal punto di vista economico che dal punto di vista della società. Ritenere che il problema di una persona disoccupata sia esclusivamente il reddito è molto riduttivo: il problema è la non-occupazione stessa. L’individuo si realizza attraverso di essa e diventa parte della società dando un proprio contributo». 

Quanto pesa il progressivo scollamento della politica negli ultimi 30 anni dalle periferie extra-anulari?
«Prima di questo vorrei ribadire un punto: il problema principale della città non è il decoro ma è la disuguaglianza tra individui. La nostra attenzione su questo aspetto nasce da questa considerazione: Roma è una città profondamente ineguale. E lo è, per rispondere alla domanda, perché il modello di sviluppo che l’ha caratterizzata dagli anni ’90 in poi è tale da aver creato questo». 

Per rendere una città meno diseguale cosa si fa?
«Cambiare il modello di sviluppo. È un problema che hanno anche altre città, europee ed extra europee, di cui si parla poco. In un lavoro a cui abbiamo partecipato, figlio di un progetto di ricerca finanziato dall’UE, abbiamo notato che le conseguenze dell’adozione del modello basato su conoscenza e innovazione rappresenti una divaricazione profonda delle opportunità tra gli individui che vivano all’interno della città».

Cioè?
«Cioè vuol dire essere consapevoli delle conseguenze dell’adozione di quel modello, così da limitarne gli effetti negativi. Faccio un esempio provocatorio: l’Auditorium è il rappresentante massimo di quel modello di sviluppo che ha caratterizzato la città dagli anni ’90 in poi. Quel luogo aumenta il benessere di chi ha gli strumenti per capire che lo arricchisce. Tuttavia ad una larga parte della città (che non possiede gli stessi strumenti e che è anche piuttosto distante geograficamente) non ha fornito nulla in più. Nonostante sia positivo che quel luogo esista e che svolga un ruolo importante, esso ha creato disuguaglianze. Non sto dicendo di essere contrario alla sua costruzione ma credo che si debbano fare anche altre cose nelle periferie delle città per far aumentare quel benessere a chi non riesce ad usufruire dell’Auditorium. Il “rinascimento della città” declamato da Walter Veltroni ha riguardato solo una parte di essa: un’altra si è sentita esclusa e il suo orientamento politico/elettorale ne ha risentito nel corso degli anni».   

In conclusione cosa si potrebbe fare?
«Nel medio periodo probabilmente il problema è in parte risolvibile con la fornitura gratuita di servizi ora non accessibili, con “investimenti sociali” per contrastare le numerose e diffuse disuguaglianze che riguardano il welfare, la salute, la casa, la scuola, la formazione e l’occupazione, mediante progetti mirati e specifici da attuare – collaborando con l’associazionismo locale – nei quartieri che maggiormente subiscono il disagio. Nel lungo periodo invece difficilmente è possibile ottenere dei risultati senza un drastico cambiamento dei rapporti tra le classi nel processo produttivo, senza - insomma - cambiare quella che Marx definiva la “struttura” del processo storico».

lunedì 14 gennaio 2019

Corto circuito Battisti - la mappa

Come al solito internet aumenta in modo ultra esponenziale le proprie considerazioni del subconscio e quelle indotte da altri personaggi, più o meno popolari che influenzano il pensiero altrui. Le prime un tempo erano circoscritte nell’ambito familiare, e là restavano, ora sono diffuse via social. Allora capita che per l’arresto di Battisti si sia dato il via alla fiera delle stronzate (sì, delle stronzate) sparate da chiunque, senza distinzione alcuna. Ministro dell’Interno in primis, elettori leghisti e pentastellati in secundis. Volevo scrivere un pippone enorme dei miei, di quelli che non avrebbe letto anima viva: mi sono preventivamente fermato e per una volta il mio malessere e il disagio nel vedere così tanti idioti, lo irrido.
«Ciao belli, un bacione» (Cit.), vado a prendermi il Maalox. E a voi, un bel po’ di Xanax. E siccome ho già detto parolacce come un bambino indisciplinato che dice “culo” per la prima volta, non ve dico manco i morti, ma li polpacci vostra, questo sì.

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sabato 12 gennaio 2019

I "no-name" e Faber [per il ventennale]

Finite le scuole medie mi sono iscritto al liceo classico di Tor Pignattara, l'Immanuel Kant (che non è er Chent con cui venivamo bullizzati nella pronuncia da compagni e amici frequentanti, magari, gli istituti tecnici o gli atipici licei scientifici tecnologici). 
Sono e sempre sarò un pesce fuor d'acqua, ma nel passaggio fra medie e liceo lo ero ancora di più: di me stesso non conoscevo nulla, dunque figuriamoci di quello che mi accadeva intorno: una terra sconosciuta o giù di lì. Hic sunt leones. Una cosa, però, la conoscevo di me: volevo suonare la chitarra elettrica, possibilmente grattando il più possibile le sue corde e facendo uscire da una leggiadra e blues Stratocaster bianca, il suono più tombale, gracchiante, distorto e rauco che quel povero strumento poteva sostenere. Mi piacevano i Kiss. E già questo potrebbe dirla lunga sui miei gusti musicali di allora, così come si potrebbero esprimere dubbi circa la mia sanità mentale (perplessità tutt'ora valide) riguardo quanto allungassi la lingua cercando di imitare quella di Gene Simmons. Poi ho scoperto gli Slipknot, i Megadeth, i Motorhead e la voce di Lemmy, gli Slayer, i Death, gli Anthrax, gli Hyades, i System of a Down. Per fortuna un ragazzo, Alessandro, mi fece dono di un altro ascolto che mi folgorò altrettanto, ma solo dopo il periodo metallaro: il prog rock. Dunque i Genesis, Van der graaf generator, Le orme, TheDoors, i Gong!
Ma solo grazie ai Metallica ho conosciuto Valentino, Ivano, Marco e Valerio. Con loro ho iniziato a suonare le cover dei Metallica: ci chiamavamo Ekthra
Le passioni giovanili, tuttavia, sono difficili da conciliare con lo studio del liceo classico, specialmente con la mole di lavoro del ginnasio: in quinta ginnasio mi bocciarono, a causa di una mia manifesta idiozia che consisteva in ignorare tutto quello che, in realtà, avrei dovuto svolgere e compiere. 
Continuavo a grattare sulle corde e poco mi importava del resto: no life 'till leather: we're gonna kick some ass tonight!
Andavo in giro con le felpe dei gruppi, le compravo scegliendone - tra le tante - le più truculente. Quando cambiai scuola e andai al Benedetto da Norcia, secondo tentativo di quinta ginnasio, per una ragazza di un'altra sezione (Giulia) ero semplicemente il tizio con la felpa degli Slayer: ignorava come mi chiamassi ma sapeva che esistevo, in un certo qual modo. A volte mi mettevo anche lo smalto nero alle unghie. La matita attorno agli occhi no: ci ho provato qualche volta ma i tentativi furono davvero miseri, borchie sì, ma non troppe.

Da bravo stronzo qual ero (perché le cose bisogna dirle) non studiavo un cavolo e in quarta ginnasio sono passato perché i professori, avendo visto che c'erano degli elementi più gravi di me da bocciare, mi hanno graziato, ma in quinta non c'è stato appello.
Dietro, front: andare in galera senza passare dal via, non ritirate le banconote se ci passate e col cavolo che vi tirate fuori dalla prigione con il cartoncino arancione degli imprevisti. 
Manco per il cacchio. 
Dunque, ecco, ho continuato a suonare nonostante gli Ekthra stessero già perdendo pezzi e linfa vitale, poi scemata nel giro di poco tempo come quasi tutti i gruppi giovanili, pieni di ardori, entusiastica adolescenza, irrequietezza altrettanto dovuta dall'età.
In quegli anni, però non mi ricordo come entrammo in contatto, conobbi Domenico, compagno di classe di Valentino, il batterista degli Ekthra. Voleva iniziare a suonare delle canzoni di Fabrizio de André e aveva bisogno di uno che suonasse la chitarra con lui. Detto, fatto: iniziammo a suonare. La sua somiglianza con De Andrè in quanto a voce, timbro e vestiario era impressionante da lasciar basito chiunque.
Valentino, nei primi piani del gruppo, doveva suonare la batteria, ma le chitarre classiche con la tempra di un seguace di Dave Lombardo, c'entrano poco. Suonavamo una volta qui, una volta lì; una volta a casa mia, l'altra a casa di Domenico.
Qualche volta affittavamo anche una sala prove e ci capitava spesso di andare a Tor Bella Monaca, all'Ex Fienile, tuttavia successivamente ci spostammo a Quarticciolo. Durante una delle prove all'Ex Fienile Domenico pronunciò una frase che rimase negli annales (basta che nun finimo sui verbales - citazione che solo i due in questione capiranno) ammonendo Valentino perché pestava troppo sul rullante: «La tua presenza deve essere eterea, come un t'oh! guarda cosa c'è nell'aria!». 

Passano i mesi, il gruppo si struttura molto meglio fino a diventare, sostanzialmente una riedizione degli Ekthra: Domenico, Ivano, io, Valentino con l'aggiunta di Valerio, un mio compagno di classe, alla batteria. Valentino si era riadattato a suonare il basso e la cosa aveva davvero del comico, dato che lui, un basso, non l'aveva mai suonato. I primi tempi, per scherzare, usava una bacchetta al posto del plettro. Suonavamo bene: il primo concerto lo facemmo a San Lorenzo in un locale/associazione che si chiamava Sotto casa di Andrea anche se non andò proprio benissimo e il gruppo non era quello con Valentino bassista. C'è da dire che una certa fama iniziammo ad acquisirla nei concerti di Natale e fine anno scolastico. Ad ogni concerto miglioravamo negli arrangiamenti e nell'esecuzione: iniziavamo ad avere un discreto pubblico e un certo numero di sostenitori. Poi venne il 25 aprile, credo, del 2011. L'Associazione K.A.N.T. riuscì a mettere in piedi una manifestazione sulla main street di Tor Pignattara, alla Marranella. Palco, fonici, casse, amplificatori con testata, soundcheck. Cose serie, insomma. Inizia Domenico da solo, seduto come De André davanti al microfono, con lo stesso ciuffo e le gambe accavallate:
La bella ch'è addormentata
ha un nome che fa paura:
libertà libertà libertà.
Un giudice - no-name
La gente inizia ad applaudire. E così arrivano Un giudice, Volta la Carta, La guerra di Piero, Il Bombarolo, Il testamento di Tito, Bocca di rosa, Andrea, arrangiate sostituendo violini e altri strumenti con la forza di tre chitarre, il carattere di Ivano negli arrangiamenti e l'estro di Domenico, mentre avevamo le spalle coperte da Valerio, precisissimo metronomo. Un giudice la suonavamo stando tutti seduti sul bordo del palco, tranne Ivano che suonava sulla sedia dove poco prima c'era Domenico.

Poi finisce tutto e, davvero, chiesero il bis. Mi ricordo che ci mettemmo a ridere guardandoci negli occhi e ognuno cercando il viso e l'espressione dell'altro. 
Eravamo quelli che suonavano De André. Anche se per quel giorno fummo i no-name ma non per scelta: Domenico, semplicemente, disse che ci chiamavamo così perché non avevamo mai affrontato la questione del nome. Quando ci disse che ci avrebbero annunciato dal palco con il nome no-name ci prese la ridarella. Ma forse era una risata isterica pre-concerto.

E questo è tutto quello che ho da dire su questa faccenda.

martedì 8 gennaio 2019

Se ci si abitua alle divise la situazione è (molto) grave

fonte: Usb vigili del fuoco
Al di là del fatto che il Ministro dell'Interno sia un personaggio oggettivamente discutibile, il tema sollevato solamente (encefalogramma piatto dalla sinistra e dai comunisti, di ogni organizzazione politica) dal sindacato dei Vigili del fuoco dell'Unione sindacale di base, è significativo nella lettura dei fatti che ci circondano ogni giorno, siano essi politici che civici
Si tralasci, poi, per un momento il giusto richiamo dell'Usb all'articolo 498 del codice penale e si rifletta sulla manifestazione esteriore dell'indossare questa o quella divisa da parte del Ministro dell'Interno.

Piccola considerazione a monte 
La fase politica e culturale che stiamo attraversando è totalmente mediatica, ne è intrisa come un panno zuppo d'acqua che non si vuole strizzare o torcere. Non conta tanto il contenuto prodotto da un utente ma il suo effetto, sia esso positivo o negativo nei confronti - si badi bene - dei fruitori di quel contenuto. Non si sta parlando della totalità popolo di una nazione o del corpo elettorale nella sua interezza, ma soltanto di coloro i quali hanno accesso, tramite social network, a quei contenuti prodotti dall'utente in questione.

Torniamo alle divise
Al di là dell'aspetto simil-buongiornissimokaffèèéèé di un uomo di mezz'età che per creare uno stato permanente di agitazione inizia le dirette su Facebook con la divisa di qualsiasi corpo d'arma (tranne la Finanza, chissà perché!) ma esordendo con un patetico «buongiorno amiche e amici» per farsi vedere vicino al popolo, la questione inizia ad essere preoccupante. O almeno lo è per me.
La Storia insegna, tuttavia non ha scolari, diceva un tal Antonio Gramsci e in effetti si sta producendo questo fenomeno: indossare una divisa fa mediaticamente effetto, ma personalmente la vedo più negativa della cosa così come si manifesta.

I dittatori nazi-fascisti del secolo appena trascorso hanno iniziato così, mostrandosi al popolo "col pugno duro" rappresentato dalla divisa indossata, facendogliela in seguito digerire perché s'era creato il clima adatto per una guerra prima interna e poi esterna. Il nazista Hermann Göring insegna: il popolo non vuole mai la guerra, tranne nel momento in cui gli si fa credere che esiste un nemico interno:
«Ovviamente, la gente non vuole la guerra. Perché mai un contadino pezzente dovrebbe rischiare la vita in guerra quando il massimo che ne può ottenere è tornare alla sua fattoria tutto intero. Naturalmente, la gente comune non vuole la guerra; né in Russia, né in Inghilterra, né America, e per quello neanche in Germania. Questo è ben chiaro. Ma, dopo tutto, sono i capi della nazione a determinarne la politica, ed è sempre piuttosto semplice trascinare la gente dove si vuole, sia all'interno di una democrazia, che in una dittatura fascista. [...] La gente può sempre essere condotta ad ubbidire ai capi. È facile. Si deve solo dirgli che sono attaccati e accusare i pacifisti di mancanza di patriottismo e di esporre il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in qualunque paese».
Se la gente (nel senso più ampio del termine e non circoscritto agli elettori della Lega) si abitua così repentinamente alle divise indossate dal Ministro dell'Interno che si fa un selfie bevendo caffè o mangiando sfogliatelle per dei beceri mi piace, la situazione è davvero grave anche e soprattutto perché la cosiddetta deriva autoritaria o autocratica è psicologicamente alle porte
Primo passo per un'accettazione politica del tutto.

lunedì 7 gennaio 2019

Perenne campagna elettorale e personalismo di pochi: i danni sono per tutti

Fonte foto: Il Fatto Quotidiano
Succedono cose davvero curiose a coloro i quali intendono accaparrarsi, hic et nunc/qui e subito, consenso da spendere subito sul mercato delle elezioni. In periferia viene molto bene a causa di problemi conosciuti da tutti e che rendono quelle zone, per l’appunto, periferiche
C’è chi direbbe che basti semplicemente raccontare quanto (pochino, a dire la verità) ci sia di positivo e di bello - pur stanti così le cose - per far sì che la situazione appaia del tutto mutata agli occhi esterni e di chi vive quella quotidianità. Ovviamente questo non basta, ma tant’è. 


Succedono cose curiose, dicevo. 

Recentemente a Torre Angela, imponente quartiere periferico sulla Casilina extra-Gra, cuscinetto fra Tor Bella Monaca e Giardinetti, un gruppo di residenti coadiuvato da esponenti politici locali (i quali prima di essere tali sono ovviamente abitanti del luogo) si è mosso per dar vita ad un comitato di quartiere. Niente di nuovo, se non che questo Cdq, sostanzialmente, ha condotto una battaglia senza quartiere per il ripristino dei cassonetti su strada e la cessazione della raccolta rifiuti porta a porta. Iniziano le polemiche tra le varie zone di Torre Angela e altri comitati, come il Cdq Arcacci. 

A tal proposito mi sembra molto interessante il commento della principale voce del Cdq Arcacci, Luigi Casella il quale ha affidato a Facebook un piccolo/lungo scritto. Qui sotto è riportato nella sua interezza data la stima (umana, politica ed intellettuale) che ho per lui, evitando di fare gli orrendi taglia e cuci che non avrebbero fatto capire un cappero di quello che dice: 
«Qualcosa sui rifiuti a Torre Angela. Come previsto, il ritorno dei cassonetti stradali, richiesto con una raccolta firme, molto parziale e sostenuto dai comitati di quartiere, tranne quello di Arcacci, non ha migliorato, anzi, il problema raccolta rifiuti. Prima, metà quartiere era servito malissimo e l'atra metà in modo buono. Da via Calimera a via dei coribanti, il porta a porta funzionava, dalla parrocchia a via casilina uno schifo immondo! Ora, da via Calimera a via Squinzano, funziona in modo molto buono, differenziato, tranne i disagi dovuti alle festività. Tutta la restante parte del quartiere uno schifo tremendo e tutto indifferenziato.
 Tanto che anche i sostenitori del ritorno dei cassonetti stradali cominciamo a pensare ad una manifestazione di protesta, era ora.
Risultato: prima il 45/50% del quartiere, aveva una raccolta differenziata, oggi, il 70/ 75% ha una raccolta indifferenziata e peggiore di prima. 
Altro che chiusura di Rocca Cencia, uno stimolo per chi vuole solo ed unicamente incenerire.
 Ama non funziona, questo lo sapevamo e per questo già da 7/8 mesi chiedevamo una manifestazione pubblica, forte, di tutto il quartiere, insieme al municipio, per sollecitare un vigoroso intervento, verso le istituzioni competenti.
 Qualcuno, ha bocciato questa possibilià, ritenendola, in assemblea pubblica, pericolosa.
 Ora tornano sui loro passi, vogliono organizzare una manifestazione!!!
 Bene così!
 Un consiglio, non fatevi strumentalizzare da nessuna, dico nessuna forza partitica, non è buono!!!».

La situazione, dunque, era critica prima ed è critica adesso
Una somma zeri riguardo cui qualche abitante ha iniziato a far notare ai rappresentanti del Cdq in via informale o, come spesso negativamente accade, via social network (negativamente, a parere di chi scrive, ça va sans dire). 
I rappresentanti politici eletti in municipio, che fanno anche parte del Cdq, in questo specifico caso, sono appartenenti alla destra e al partito dei Fratelli: durante la pausa natalizia spunta la foto bomber degli eletti di quest’organizzazione di fronte ai cumuli d'immondizia: «la situazione è insostenibile: assessore e presidente del municipio diano spiegazioni o scendiamo in piazza», tuonavano alla stampa.


Sommessamente, sempre per vie informali, abitanti e non facevano notare come alcuni di quegli eletti erano parte attiva di quel Cdq che si era alacremente battuto per il ritorno ai cassonetti in astio alla porta a porta che non funzionava minimamente in quella porzione, pur grande, del quartiere. 

La vicenda mi ha ricordato tantissimo di quando, anni fa, Marco Scipioni consule, il Partito democratico avallò la chiusura della Roma-Giardinetti all’indomani dell’apertura della Linea C salvo poi iniziare una battaglia politica chiedendo la reintroduzione sia del cosiddetto trenino che del 105
Il risultato è stato quello di aver lasciato interi quartieri scoperti (da Centocelle a Giardinetti), gli abitanti dei quali ora hanno un’unica alternativa per arrivare nelle zone centrali: la stessa Metro C. Peccato che la frequenza della metro in questione sia da treno regionale: 1 ogni 12 minuti, tralasciando imprevisti che, a Roma, non sono tali ma potenziali avvenimenti quotidiani in cui il disagio regna sovrano. 

La storia racconta/O muthos deloi che quando la politica incrocia la strada della campagna elettorale permanente, dunque con il personalismo di pochi, il risultato non può che essere negativo per tutti.


Con buona pace di chi storcerà la bocca leggendo queste righe.

giovedì 3 gennaio 2019

India: milioni di donne in piazza contro il conservatorismo religioso


Milioni di donne si sono unite, mano nella mano, lungo tutta la costa dello stato indiano del Kerala: è successo il 1 gennaio 2019. Un cordone lunghissimo che la stampa ha chiamato "women's wall" ha percorso 620 chilometri di costa indiana del Kerala, così riporta il quotidiano 'Times of India': «[...] milioni di donne indiane si sono unite mano nella mano lungo i 620 km di lunghezza della costa del Kerala: dalla punta settentrionale all'estremità meridionale per formare un "women's wall" [muro di donne] contro i conservatori religiosi che si sono opposti alla [storica] sentenza della Corte Suprema che ha permesso l'ingresso di donne con le mestruazioni nel tempio di Sabarimala».  

L'antefatto 
Una storica 'prima volta': Bindu Ammini (42 anni) e Kanaka Durga (44 anni) hanno varcato la soglia di uno dei più sacri templi indù, il Sabarimala Temple. Sono state le prime a compiere lo storico passo dopo che a «settembre la Corte Suprema aveva cancellato il divieto di ingresso alle donne "in età mestruale", tra i 10 e i 50 anni, perché considerate impure».

Quando Ammini e Durga sono uscite dal tempio, i custodi hanno compiuto i riti di "purificazione" per "decontaminare" l'area: nella società indiana, infatti, patriarcale, classista e conservatrice, le donne, giacché hanno le mestruazioni, sono considerate ancora "impure". Tuttavia la protesta è montata in tutta la regione: il governo del Kerala, retto dal Partito comunista (marxista) dell'india (Pci(m)), ha sostenuto il diritto alla libertà religiosa delle donne: «Abbiamo dato ordine permanente alla polizia di fornire tutta la protezione possibile a qualsiasi donna che voglia entrare nel tempio», ha affermato il governatore Pinarayi Vijayan. 
Il Pci(m), contestando apertamente la decisione dei custodi e del Governo centrale di Modi per essersi schierato dalla parte dei "purificatori" in nome della tradizione, ha chiamato alla mobilitazione spiegando le ragioni dell'insensatezza del gesto dei custodi

A seguito della mobilitazione, Pinarayi Vijayan ha chiesto la destituzione dei custodi del tempio che hanno offeso e calpestato la dignità delle donne e «stralciato il verdetto della Corte Suprema».
La protesta nonviolenta 
La catena umana è stata promossa dal Pci(m) e sostenuta da 176 organizzazioni di cui ancora non si sconosce  il numero effettivo, anche se gli organizzatori hanno parlato di più di 5 milioni di presenze. Nonostante la stampa non sia benevola nei confronti delle sinistre e dei comunisti, il quotidiano ‘Times of India’, a seguito dell’imponente mobilitazione, ha riportato: «i numeri delle donne scese in piazza su impulso del governo e del Partito comunista (marxista), rappresentano la consapevolezza diffusa delle donne e la forza dell’aspirazione all’uguaglianza di genere, in Kerala e in India». Grande soddisfazione è stata espressa dai vertici regionali e nazionali del Pci(m): «L’ufficio politico rivolge un caloroso saluto e le sue congratulazioni alle donne del Kerala e a tutte le 176 organizzazioni sociali e di massa per lo storico “women’s wall” il 1 gennaio. La partecipazione di oltre 55 lakh [circa 5 milioni e mezzo] di donne, partecipazione interclassista di caste/comunità diverse e di tutti i ceti sociali, ha dato un forte messaggio di unità per sostenere i valori della rinascita del Kerala, per i diritti delle donne e la riforma sociale. In un momento in cui le forze di destra guidate dal RSS e dal governo Modi cercano di imporre ideologie retrograde in tutto il paese, questo muro delle donneha un significato più ampio e incoraggerà una più diffusa resistenza».